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GOING NOWHERE FAST EP. 4 – IL PIU’ GRANDE RECORD AL CONTRARIO DELLA STORIA DELLA F1

Benritrovati, manica di sadici. Nelle intenzioni originali, questo articolo doveva esplorare la storia della morbosamente celebre Andrea Moda. Il punto è che la sua vicenda si innesta su quella di un’altra leggenda della serie D della F1, la Scuderia Coloni. Non mi sembrava giusto liquidare questo pezzo di storia in uno o due paragrafi, ergo le ho dedicato un articolo intero. Se siete venuti per l’Andrea Moda, consideratelo come il prequel, la origin story. Per tutti gli altri, ecco a voi la Scuderia Coloni, il team di maggior insuccesso di tutti i tempi!

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La storia della Coloni è meno scoppiettante di quelle di altri team, ma a suo modo è esemplare. Mentre gli altri team di questa rubrica hanno spesso fatto fatica a sopportare un anno di pessimi risultati, la Coloni, malgrado zero budget, prestazioni inesistenti e un team che a stento riempiva una Multipla (non è un’iperbole), partecipò a ben quattro edizioni e mezzo del Campionato di F1.

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Se ti chiami Enzo e lavori nel motorsport, la F1 è nel tuo destino. Dopo i fasti di Enzo Ferrari e gli apprezzabili sforzi di Enzo Osella, negli anni Ottanta arrivò la chiamata anche per Enzo Coloni. Aveva iniziato come pilota, ma dopo una carriera poco esaltante in cui conquistò un titolo nella F3 italiana a 36 anni, nel 1983 decise di mettersi in proprio.  Il nuovo team fece incetta di risultati: nel lustro successivo conquistò due titoli nella F3 italiana (con Santin e Nicola Larini), uno nella F3 internazionale (con Ivan Capelli) e altrettante piazze d’onore.

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Il team stava pianificando di correre nella F3000 internazionale, ma all’orizzonte si andava delinando un’occasione ghiotta: la FIA infatti annunciò il ban dei motori turbo in F1. Questo avrebbe permesso la partecipazione di tanti piccoli team che altrimenti non si sarebbero potuti permettere i costosi motori sovralimentati. Dopo un 1987 di apprendimento in F3000, Coloni pensò che bisognava cogliere la palla al balzo e in pochi mesi allestì una macchina di F1.

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Fu una buona idea? Con una gestione diversa del team, forse. La F1iniziava ad essere diversa da quella artigianale degli anni ’60 e ’70 e aveva bisogno di ampi budget per garantire una certa competitività. La Coloni aveva la volontà e gli uomini, ma difettava in solidità finanziaria. A posteriori, Enzo Coloni ammise l’errore: “[La F1 fu] L’unico periodo della mia vita in cui ho vissuto con l’acqua alla gola. Approdando alla F.1 ho commesso un grande errore, ho badato alla tecnica senza preoccuparmi degli aspetti commerciali, mentre avrei dovuto fare esattamente l’opposto”.

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A differenza di tanti altri piccoli team (Minardi, Spirit, Osella etc) Coloni non aveva mai costruito un telaio in casa, ma confidavano nel veterano della Dallara Roberto Ori. Sul fronte piloti, per il 1987 prese il suo vecchio pupillo Nicola Larini. Parteciparono al GP di Monza, ma era poco più di una sessione di test (comunque risultarono davanti alla AGS), saltarono la gara successiva in Portogallo e conclusero a Jerez (in origine era previsto di far correre Franco Scapini, ma Marlboro si impose per far correre Larini). Allora ancora non c’erano le prequalifiche, quindi presero parte alla gara e Larini addirittura riuscì a mettere il muso davanti all’ex Coloni Alex Caffi. Poi la macchina si ruppe. Intendiamoci, erano comunque otto secondi (!) off the pace, ma considerando che queste due gare furono poco più di uno shakedown, quantomeno erano stati mandati segnali positivi.

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Dal 1988 si iniziò a fare sul serio. Larini abbandonò Enzo n.3 e andò da Enzo n.2 all’Osella. Coloni, che aveva qualche sponsor, un buon designer e il Ford Cosworth come motore, si ritrovò senza piloti. Visto che nel motorsport vige la regola che un finlandese è sempre un buon viatico per la vittoria, Enzo n3 ingaggiò Jari Nurminen, pilota di F3000 che nell’ultimo campionato aveva fatto segnare 10 DNQ e un ritiro. Visto che non portava neanche sponsor non ho proprio idea del perché di questa scelta. Anyway, la FIA non gli concesse la superlicenza pertanto Coloni ritornò in Italia e ingaggiò Gabriele Tarquini, all’epoca un rookie 26enne. Il “Lupo di Tuoro” ha sempre avuto buon gusto per i piloti. La scelta fu motivata anche dal fatto che Tarquini corse gratis per tutta la stagione, ad eccezione di un unico rimborso spese.

Il problema è che erano stati in molti ad avere avuto la stessa idea di Coloni: nel 1988 il numero di piloti iscritti arrivò a 31, uno in più degli ammessi al weekend da regolamento, pertanto la FIA introdusse il sistema delle prequalifiche: i nuovi team e i peggiori dell’anno prima (ovvero Coloni, Rial, EuroBrun e Dallara) si sarebbero scontrati in una sessione di prequalifica al Venerdì mattina; i peggiori non avrebbero potuto partecipare al resto del weekend.

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Il weekend inaugurale di Rio andò abbastanza bene: la Dallara si presentò con una F3000 modificata, quindi la lotta per le prequalifiche fu presto risolta a favore del team di Passignano sul Trasimeno. Tarquini inoltre dimostrò la propria abilità al volante della vettura gialla e riuscì a qualificarsi per la gara, battendo tra le altre anche una Tyrrell. A Imola andò ancora meglio: grazie all’esperienza, all’aria di casa e al talento di Tarquini si arrampicarono fino alla 17a posizione in griglia (!), che diventò 13a dopo una partenza eccellente. Era comunque una scuderia dotata di un budget ridicolo, e questo si palesò dopo pochi giri, quando la vettura rese l’anima al creatore. Anche a Monaco andò in maniera simile: 24 in qualifica e ritirati in gara. La prima bandiera a scacchi fu colta in Messico: 5 giri di ritardo dal vincitore, ma riuscirono anche a precedere due vetture.

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Meglio ancora in Canada, dove Tarquini azzeccò la gara della vita: da 26 e ultimo sulla griglia, si arrampicò fino all’ottava posizione al traguardo, con solo due giri di ritardo da Senna e Prost. E il tutto senza dischi di carbonio!

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La favola durò poco. Nelle prequalifiche di Detroit Tarquini fu battuto da EuroBrun e Dallara, e, prima volta di molte, dovettero tornare a casa senza aver percorso che pochi giri. Per le gare successive andò così, malgrado dei test a Misano e ad Hockenheim. La striscia negativa fu interrotta all’Hungaroring, dove Tarquini si qualificò ed ebbe anche il suo momento di gloria inserendosi, da doppiato, nella lotta per la vittoria tra Prost e Senna.

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In Belgio si presentarono con: una macchina, due treni di gomme, un pilota, tre (!!!) meccanici e Enzo in persona, ma con somma sorpresa (loro per primi) Tarquini riuscì a qualificarsi ben 22°. In gara non andò troppo bene, visto che finirono staccati di 7 giri per via del piantone dello sterzo, che necessitò di riparazioni a metà gara. Fu l’ultimo acuto della stagione, che si concluse con un arrivo a 5 giri in Portogallo e tre eliminazioni (di cui due nelle prequalifiche). Tirando le somme, il 1988 fu una stagione decente, essendo loro senza esperienza né denaro. La macchina gialla suscitava tenerezza: Patrese e Nannini più volte aiutarono il team con la messa a punto della macchina, soprattutto nei circuiti dove la Coloni non aveva mai corso.

Il 1989 appariva come positivo: avevano qualche sponsor in più, un telaista migliore (Christian Vanderpleyn), una seconda macchina ma soprattutto non erano più condannati alla tortura delle prequalifiche (almeno con una macchina) grazie all’ottavo posto di Montreal. I piloti sarebbero stati Roberto Moreno sulla macchina “salva” e Pierre-Henri Raphanel sull’altra (pilota discreto, portava buoni soldi, specialista delle qualifiche e forte nei circuiti cittadini). La nuova C3 sembrava promettente, ma non fu pronta per l’inizio della stagione. Erano i primi scricchiolii di un’avventura finora dignitosa.

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Nei primi 5 appuntamenti Tarquini e Raphanel erano lontanissimi dai tempi importanti e non passarono quasi mai né qualifiche né prequalifiche. Raphanel però compì un’impresa a Montecarlo: passò le prequalifiche in terza posizione (passavano i primi 4 di 13), ma nel giro di lancio nelle qualifiche vere e proprie tamponò una Lola, danneggiando l’ala da qualifica. A RHP montarono quindi l’ala da gara, più lenta. Il francese però era in stato di grazia e grazie a un giro  “Marte o Morte” riuscì a qualificarsi 18o, addirittura davanti a Nelson Piquet (!!!). Moreno fu 25o, a completare il weekend trionfale (fu l’unica gara della storia della Coloni dove riuscirono a qualificarsi tutti e due). Ovviamente si ritirarono in corsa, per via della meccanica usurata.  Lo stato attuale era dovuto al fatto che l’attenzione della scuderia era tutta per la  nuova macchina. Per dire, a Phoenix mandarono solo tre meccanici.

La C3 fu pronta per il Canada. Le linee erano pulite e gradevoli e montava persino un airscope. Ovviamente fu affidata solo a Moreno, Raphanel dovette accontentarsi della vecchia FC188. La gara fu una delle più incasinate della storia della F1, e Moreno diede il suo contributo: fa 3 soste, si arrampica fino all’ottava posizione, perde una ruota in pista, rientra ai box e gliela rimontano, riparte e alla fine si ritira per un problema al cambio.

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La C3 era leggermente meglio come competitività, ma fu un passo indietro sull’affidabilità: si qualificò anche a Silverstone, ma la sua gara durò due giri. Ma la notizia peggiore fu che, per via della scarsissima competitività messa in luce (pochissime partenze, nessun arrivo), anche Moreno fu costretto alle prequalifiche. Insomma, entrambe le macchine nelle prequalifiche, sviluppo indietro di anni luce, i progettisti (Vanderokeyn e Gary Anderson) che scappavano, alla fine pure Raphanel pure li abbandona. Insomma, dopo una stagione il team è allo sfascio.

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Enzo non si perse d’animo. Ingaggiò il veneziano Enrico Bertaggia al posto del francese (forse uno dei peggiori piloti italiani ad aver corso in F1); la nuova ala anteriore si rivelò sorprendentemente efficace e permise a Moreno all’Estoril di qualificarsi in 15a posizione (!!!). La felicità per questi team dura sempre lo spazio di una notte: Moreno sfascia l’alettone in uno scontro con Cheever e addio prototipo. Non riuscì a qualificarsi mai più (anche se ci andò vicino in Giappone, con l’ala ricostruita); sempre meglio di Bertaggia, che arrivò ultimo in ogni sessione di prequalifiche disputata. Insomma, il 1989 fu un disastro. Ma qualcosa di importante stava accadendo.

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Gli ultimi anni Ottanta fu il periodo d’oro dei motoristi giapponesi. Ispirata dai successi di Honda e  Yamaha (vabbé), anche la Subaru si buttò in F1. Respinti dalla Minardi (death flag #1), i giapponesi contattarono Enzo e conclusero un accordo: acquistarono il 50% del team, dipinsero la macchina con i loro colori (rosso bianco e verde) e rimpolparono il reparto tecnico. Per i piloti furono scelti Bertrand Gachot e Luis Perez-Sala. Tutto bello. La fregatura? Il motore made in Subaru.

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La loro unità propulsiva era un capolavoro di ingegneria. Per gli anni Sessanta. Era un 12 cilindri boxer (che non si vedevano in giro dai tempi di Lauda in Ferrari) ed era progettato dalla Motori Moderni di Carlo Chiti (death flag #2). Il motore nei progetti doveva essere meno potente della concorrenza, ma la sua piattezza avrebbe comportato benefici aerodinamici (death flag #3). Il risultato finale fu, per usare un termine del gergo dei motoristi, ‘nammerda. Il motore erogava 560 cv, 30 in meno del diretto avversario (no, il W12 della Life non è degno di essere chiamato motore) e almeno 100 cv meno dei migliori. E inoltre era pure 112 kg più pesante del Cosworth (!!!). Ciliegina sulla torta, usava un cambio made in Minardi (death flag #4). Intendiamoci, la Minardi di questo periodo andava forte (sesti nel 1989), ma non era esattamente famosa per la solidità delle creazioni.

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Questo dato fu subito chiaro: nella prima gara la scatola del cambio non resse neanche il tragitto dal garage all’uscita della pitlane. Questo significa che la Coloni fu l’unica macchina che concluse una sessione di prequalifica dietro alla Life. Come la Life, anche loro perdevano una vita dai diretti concorrenti per via del motore (da 5 a 10 secondi). Solo a Montecarlo Gachot riuscì a limitare il distacco a 1.5s,  ma fu l’unico “””risultato””” “””degno di nota””” della collaborazione.

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Come si può immaginare, il team se la passava male anche a livello di rapporti interni. Sia Coloni che i giapponesi possedevano il 50% del team, quindi il processo decisionale era un muro contro muro continuo; Coloni inoltre declinò l’offerta della Subaru di acquistare il team. Furono i giapponesi a stufarsi per primi: dopo l’ottava prequalifica mancata di fila, restituirono a Coloni le loro quote e mandarono al diavolo la F1.

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Coloni aveva un asso nella manica: tornò Vanderpley, che risistemò la macchina (che non era altro se non una versione aggiornata di quella del 1989) e si dotò di un motore vero, non di un fossile. Gachot avvertì il miglioramento, e in tutta risposta si schiantò ad Hockenheim. La macchina aveva fatto passi avanti, ma era comunque materiale da parte bassa delle prequalifiche.

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Mors tua vita mea. Questo motto è valido per tutta la F1, ma lo è in particolare per i team di ultimissima fascia. La Onyx fallì dopo il GP del Belgio, il che significò che la Coloni ora per passare doveva battere solamente due team: la Life, una barzelletta a quattro ruote, e la EuroBrun, un team possibilmente messo molto peggio della Coloni. Superate le prequalifiche, Gachot a Monza stava finalmente per compiere il miracolo della qualificazione alla gara, ma l’altrimenti affidabile Cosworth saltò nel momento topico. Ennesimo DNQ di una storia travagliata a dir poco. Ma Enzo Coloni (ora diventato Enzo n.1, dato il decesso di Enzo Ferrari e la defezione di Enzo Osella) non si arrese neanche stavolta.

Visti i risultati del ’90  (nessuna partenza, rottura col partner tecnologico, un budget che nei top team bastava a coprire le spese per gli adesivi) furono tutti sorpresi dall’annuncio che non solo avrebbe partecipato anche nel 1991, ma addirittura schierando una macchina nuova (la C4 – no jokes please). Gachot, che nel 1990 aveva fatto dei piccoli miracoli, fu notato e ingaggiato dalla Jordan, e a suo modo giocò un ruolo importante nella storia della F1, quindi Coloni ripiegò sul campione di F3000 inglese, il portoghese Pedro Chaves. E si ricomincia, con lo sviluppo tecnico della macchina curato da… gli studenti dell’università di Perugia (!).

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Ormai il team era diventato uno specialista delle prequalifiche, con 50 e passa tentativi. Nella prima gara a Phoenix Chaves stava riuscendo a qualificarsi (grazie ai casini altrui) ma le speranze di gloria si schiantarono contro un muro del circuito cittadino. In Coloni non se la presero troppo, ma a conti fatti avevano buttato l’unica possibilità di passare le prequalifiche di tutto l’anno. Con cronici problemi al cambio e finanze così disastrate da non permettersi neanche una singola sessione di test, il fatto che riuscirono in qualche gara a battere la AGS fu un piccolo miracolo.

[COURTESY OF COLONI F1 TEAM VIA TWITTER]

Non fu sufficiente per trattenere Chaves, comprensibilmente alterato per aver ricevuto solo un decimo del suo già misero salario e indispettito per l’amatorialità della squadra, che abbandonò il team a tre gare dalla fine. Si presentarono in Spagna con la sola macchina, per attrarre compratori, mentre per le due trasferte oltreoceano inventarono il kickstarter in F1: trovarono un pilota, il campione in carica della F3000 giapponese Naoki Hattori, e contattarono i suoi fan: per 250$ avrebbero avuto il loro nome scritto sui sidepod della vettura. Col denaro racimolato riuscirono a volare in Giappone e in Australia, solo per incassare gli ultimi due DNPQ della loro storia.

Enzo Coloni aveva già fatto un miracolo vero a mantenere in piedi il team senza budget per ben quattro anni, ma ora era impossibile andare avanti. Trovarono un coraggioso (e folle) acquirente in Andrea Sassetti, il proprietario di una fabbrica di calzatura nelle Marche, che acquistò il team e la macchina vecchia di tre anni per partecipare nel campionato 1992. Il resto è storia, ma ne parlerò nel prossimo episodio.

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La storia della Coloni in F1 terminò qui, ma il team continuò a esistere nelle formule minori, dove ottenne importanti successi in F3, F3000, Formula Nissan e anche in Gp2, con un progetto condiviso con Giancarlo Fisichella, dove nel 2011 lottò per il titolo con Luca Filippi. Fu il canto del cigno del team di Passignano sul Trasimeno; attualmente la Coloni Racing System è attiva in F4.

Questa è stata la Coloni, il team di maggior insuccesso della storia della F1, statistiche alla mano: 82 tentativi, 64 DNPQ, 14 partenze, 4 arrivi. Quando si dice la perseveranza… Battute a parte, è stato un team che ha vissuto gli anni della massima formula con grande vivacità, ottenendo tra l’altro un motore ufficiale. Ressero per tanti anni con un budget ridicolo e zero risultati, ma affidandosi comunque a buoni tecnici e abili piloti. La Coloni fu l’equivalente della Minardi per la Minardi.

Lorenzo Giammarini, a.k.a. LG Montoya

[Immagine di copertina tratta dal profilo facebook della Coloni F1]

GOING NOWHERE FAST EP.3 – THE AMERICAN NIGHTMARE

Benritrovati, compagni di sventura. Oggi parlerò della USF1, una grande avventura americana che purtroppo non è mai esistita. Prima di procedere con ordine, un piccolo disclaimer: rispetto al solito vedrete poche immagini. La colpa non è mia, ma spiegarvi il motivo comporterebbe spoiler. Allo stesso modo, debbo avvertirvi che l’immagine di copertina non c’entra nulla con l’argomento dell’articolo (è una A1GP), ma dovevo pur mettere qualcosa.

[COURTESY OF LASTWORDONSPORTS.COM]

Gli ultimi Duemila furono anni di fuoco per la F1. Da una parte le tensioni tra FOTA e FIA portarono i team a un passo dalla scissione, dall’altra la crisi finanziaria e economica di fine 2008 indusse BMW, Toyota e Honda a smobilitare le squadre corsa. Non sorprende quindi che Ecclestone nel 2009 facesse la corte chiunque avesse intenzione di entrare in F1. Oggi può apparire strano, ma i team interessati erano in gran numero e andavano dal ridicolo (come MyF1Dream.com, una scuderia il cui business plan si basava sulle donazioni dei fan – un kickstarter ante litteram) al solido (come la Virgin o la Lola). A Febbraio 2009 venne annunciata la prima nuova squadra ad essere ufficialmente ammessa al campionato 2010, e a sorpresa fu la USF1, il sogno di Ken Anderson (ex Onyx e Ligier) e del celebre giornalista Peter Windsor.

La USF1 si annunciò con magniloquenza (leitmotiv della vicenda) come il primo team di F1 dall’anima totalmente a stelle e striscie, una sorta di nazionale statunitense di F1. Adesso la presenza americana in F1 è significativa (Haas, il COTA, Liberty Media), ma all’epoca i rapporti con gli USA erano freddini – anche a causa del fallimento di Indianapolis. In pieno stile States, Anderson e Windsor videro nel disinteresse degli yankees una grande opportunità di crescita. Ma si sa, il cammino dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi.

Il primo ostacolo del progetto era ovvio. La grande maggioranza dei team di F1 ha da sempre stretti collegamenti con la Gran Bretagna (o similmente con l’Italia), per motivi storici ma soprattutto logistici – tra l’Oxfordshire e le Midlands si possono trovare fornitori di ogni cosa, dalle sospensioni al cambio ai freni. La USF1 invece voleva essere un progetto “all american”, quindi con base negli Stati Uniti.

Il team impiantò quindi il quartier generale a Charlotte, North Carolina. Non era una cattiva idea: Charlotte era la patria della NASCAR e in pochi chilometri si trovavano gli head quarter dei team più importanti. Visto che però sarebbe stato folle fare avanti e indietro America-Europa per i weekend di gara, la USF1 avrebbe impiantato una seconda base operativa in Spagna, vicino al Motorland Aragon (del resto la Haas ha una struttura simile: la sede ufficiale è a Kannapolis ma la sede operativa è a Banbury, in UK).

[COURTESY OF F1GRANDPRIX.COM]

Il team -e il suo guerilla marketing- colpì l’immaginazione della stampa, che subito iniziò a fantasticare sul progetto. Anderson e Windsor furono felici di alimentare i rumors e raccontarono di aver preso contatti con una quantità di personalità del motorsport americano – come Kyle Busch, Danica Patrick e Scott Speed. Dall’esterno le cose sembravano filare liscio: per il motore avevano firmato un accordo di fornitura con la Cosworth; mr. YouTube, Chad Hurley, si mostrò interessato a partecipare al progetto; Charlie Whiting ispezionò la fabbrica e rimase soddisfatto. La presenza di un budget cap (frutto del braccio di ferro FIA-FOTA) li avrebbe inoltre messi in condizioni di competere ad armi pari con i team con più risorse ed esperienza. L’euforia durò poco.

Dopo mesi di schermaglie Team e FIA trovarono un accordo che fu suggellato dalla firma di un nuovo Patto della Concordia nel quale (tra le varie cose) non c’era più traccia di alcun budget cap. Per la USF1 fu una catastrofe: non avrebbero avuto nessuna speranza contro i team maggiori e le spese sarebbero esplose le spese verso l’alto. Inoltre l’attesa del verdetto fece perdere alla USF1 un mese di preparazione.

Proprio di questo si iniziò a parlare. Windsor e Anderson saranno pure stati motivati e esperti, ma appariva chiaro che sarebbe servito un miracolo per essere pronti in tempo. Tutto stava progressivamente sfuggendo dalla tabella di marcia; per fare un confronto, mentre Virgin e Lotus (questa sì arrivata all’ultimo momento) avevano già annunciato la line up completa, in USF1 non avevano nominato nemmeno un pilota (no, le 38 nomine farlocche di prima non contano). Inoltre, malgrado YouTube e altri investitori tra cui la agenzia di pubblicità Goodby, il flusso monetario pareva scarso.

[COURTESY OF RACECARENGENEERING.COM]

Certo, il settore marketing continuava a dare l’impressione di fare qualcosa, con frequenti post sui social media, comunicati stampa su ogni minuzia -come il classico “USF1 pay fee to FIA”- , interviste con i proprietari, immagini e video della fabbrica (dove sono in bella vista i macchinari col logo HAAS), del processo di progettazione e perfino del musetto, l’unica cosa tangibile prodotta finora.

A Novembre la FIA ricevette la soffiata che il team sarebbe stato “incapable” di gareggiare in Bahrain. Ecclestone stesso ventilò dei dubbi al proposito, constatando il silenzio proveniente dal fronte dello sviluppo della macchina o del team, che dopo l’annuncio della partnership con Hurley sembrava essere scomparso. Windsor rispose negando che il team fosse in cattive acque, lamentandosi che “Such are the demands of modern media (…) if you’re not saying something, you’re not doing anything. (…) I think everyone and every company is entitled to its heads-down time” e, rispondendo alle persone che gli chiedevano il motivo dell’inattività “One, while the F1 politics were sorting themselves out there was very little that we could do or say.” e [vi avviso, questa merita] “Second, since August, we have been building our ‘house’. Literally. We gutted the ex-Hall of Fame Racing/Joe Gibbs NASCAR shop, re-painted it, re-floored it, re-wired it, re-lit it and re-designed it. In three weeks. And then, once we had a building (and even before we had one), we began to design parts and to hire our team. Again we were building. People wanted to know what was going on. We replied that we were ‘putting together the team.’ It’s a bit like building a new house“.

[COURTESY OF USF1 VIA FACEBOOK.COM]

Lo stesso giorno il team varò il sito internet e l’account Twitter. Dopo sei mesi avevano ammobiliato il quartier generale, presentato un logo e costruito un musetto. Almeno ci furono progressi sul fronte piloti: in origine c’era la volontà di far correre due piloti americani, ma presto si dovette ricorrere a un compromesso, incarnato dalla figura del 27enne argentino José Maria Lopez, che avrebbe portato in dote 8 milioni di dollari grazie al supporto dello Stato. Il team “All American” sarebbe stato controllato dall’Argentina – How the turntables…

Giunto Dicembre, la situazione diventò drammatica, ma mai seria. Il personale intuì che la “Type 1” non ce l’avrebbe fatta in tempo per i test e neanche per il Bahrain. I progetti semplicemente non arrivavano – e questo era dovuto anche alla gestione del progetto da parte di Anderson, che voleva visionare ogni singolo progetto prima di esprimere un parere. Le risorse erano scarse; il production manager rassicurò l’equipe tecnico con la frase: “Well, Ken has a plan“. Intorno a metà Dicembre era previsto un intensificarsi dei lavori, ma i progetti non arrivarono mai. Impossibilitato a lavorare, lo staff iniziò a progettare  prototipi di toaster per passare il tempo.

Per illustrare meglio la situazione, ecco un aneddoto. A Febbraio Windsor visitò il quartier generale a Charlotte e rivolse all’intera equipe la domanda, nelle sue intenzioni retorica: “Chi di voi crede che non ce la faremo in tempo per il Bahrain?” Ogni singolo dipendente alzò la mano. Peter ci rimase male.

[COURTESY OF WTF1.COM]

Intuendo la mala parata, Anderson, Windsor e Hurley chiesero una deroga alla FIA, chiedendo se potevano mancare alle prime quattro gare della stagione. La FIA acconsentì a patto di ricevere una nuova ispezione di Charlie Whiting. Quello che l’esperto race director scoprì fu una scuderia in “no position to race” (del resto bastava guardare i video del canale ufficiale: inquadrano sempre quattro tizi che annuiscono, Windsor in giacca e cravatta, tre computer e l’onnipresente musetto).

Hurley, all’oscuro del duo proprietario, cercò disperatamente una fusione con la Stefan GP (un’altra scuderia della quale dovrei parlare), ma l’operazione fu osteggiata da tutte le parti in causa e si risolse in nulla di fatto. Hurley e Lopez decisero di disimpegnarsi. Il team era così impreparato che avrebbero fatto fatica addirittura a mandare un container di tavoli e sedie in Bahrain, come fece la Stefan GP.

[COURTESY OF USF1 VIA FACEBOOK.COM]

A metà Febbraio un dipendente denunciò la gestione confusionaria del team : “La situazione è caotica. Le notizie che arrivano alla gente sono tutt’altro che vere e stiamo solo costruendo una grande bugia. Ci servirebbero altri due mesi per completare la macchina e se avessimo avuto soldi e risorse umane per completarla prima, non abbiamo avuto dirigenti capaci di prendere delle decisioni. Anche con i pagamenti delle buste paga siamo già indietro: lunedì ci hanno pagato metà mese e l’altro lunedì ci hanno promesso l’altra metà. Due terzi del personale lavora già metà di quanto previsto, ma chi può biasimarli, c’è poco da lavorare.

Non abbiamo ancora ricevuto neppure un motore dalla Cosworth, dato che gli dobbiamo circa 2,5 milioni di euro. I ragazzi che lavorano il carbonio non hanno le attrezzature che servono per realizzare il telaio, figuriamoci la macchina intera. Quello che è stato fatto fino ad ora era solo per inviarlo alla FIA per i crash test.

[COURTESY OF USF1 VIA FACEBOOK.COM]

Povero Lopez, si è presentato qui ieri e non c’è nessuna macchina sulla quale farlo sedere. Poverino, ha esclamato “Succede, quando i soldi arrivano in ritardo…”. La verità è che Peter e Ken sono i due peggiori dirigenti che la F1 potesse mai avere. Si sono convinti d’essere due grandi imprenditori, quando non hanno le basi per comprendere come formare una squadra del genere, delegando le responsabilità a persone che non sanno quello che devono fare, mentre chi lo sa non è autorizzato ad aprire bocca.

Il reparto marketing ha alimentato ancora di più le bugie, perché tutto quello che avete visto è ben lontano dalla realtà. Quando Ken [Anderson] non ha potuto fare le buste paga, è andato a Daytona in cerca di gentlman drivers che gli hanno messo un mucchio di soldi in tasca, pensando di investire in qualcosa di buono e ritrovandosi con un pugno di mosche in mano.

A questo punto è tutto così triste, ma l’occasione è stata persa e gli investitori truffati. Tutto frutto di una cattiva gestione, affidata più all’ego di Ken e Peter che ad altro. Togliendo loro due, forse con gli investimenti fatti si poteva anche arriva in Spagna per i test…”

Dichiarazioni che fanno sembrare Ernesto Vita il Ron Dennis italiano. La FIA aveva visto abbastanza: inflisse al team una multa di 309.000 euro e, più importante, lo bandì permanentemente da tutte le sue competizioni.

[COURTESY OF CDN.MOTOR1.COM]

Dopo un anno di protratti sviluppi, tutto quello che la squadra poteva offrire era mezza scocca, degli stampi lasciati a metà, account su ogni tipo di social in uso all’epoca, dei fighissimi tostapane e IL musetto. Che andò distrutto in un crash test fallito.

[COURTESY OF USF1 VIA YOUTUBE.COM]

Le informazioni sull’USF1 in realtà sono così poche che non è neanche chiaro il motivo del fallimento. Alla base c’è di sicuro il disinteresse del pubblico americano per le formule europee e l’indiscussa incapacità manageriale di Windsor e Anderson, ma non anche le giravolte sul budget cap ebbero una parte rilevante sul disastro dell’esperienza. Di sicuro l’ambizione del progetto avrebbe richiesto più tempo, più denaro e persone migliori. Per finire, non aiutò il fatto che volessero costruire tutto quanto in casa – almeno la Campos e la Stefan GP si erano appoggiate a fornitori esterni. Loro furono l’opposto della Haas: volevano fare tutto loro, arrivarono all’improvviso e in pompa magna e morirono senza che nessuno se ne accorgesse.

La USF1 ottenne pertanto l’ambito record di essere stato l’unico team collassato su sé stesso e bannato da ogni competizione ancor prima di avvitare una ruota. Ad aggiungere danno alla beffa, la USF1 rubò il posto a gente che probabilmente sarebbe stata in grado di presentare una macchina funzionante, come la Lola o la Prodrive (nelle intenzioni un team B della McLaren), che forse ci avrebbe garantito uno spettacolo migliore di quello di Lotus, Virgin, HRT.

La prossima volta parlerò dell’unico altro team nella storia che riuscì a farsi bandire da tutte le competizioni FIA, la mitica Andrea Moda. Stay Tuned!

[Immagine di copertina tratta da autoevolution.com]

Lorenzo Giammarini a.k.a. LG Montoya

 

 

 

 

 

GOING NOWHERE FAST EP.2 – LA VITA È L’OMBRA DI UN SOGNO SFUGGENTE

Avete mai pensato “La vita fa schifo” al termine di una brutta giornata? Sappiate che in F1 negli anni Novanta gareggiò l’esatta incarnazione di questo mood. Oggi parlerò di una delle avventure più deliranti visionarie della storia del circus: la storia della Life F1.

Atto I: The feeling begins

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La Life nacque dall’incontro fortuito tra menti visionarie.

Lamberto Leoni era il proprietario di un team di F3000, la First Racing. Data la congiuntura economica e tecnica (abolizione dei motori turbocompressi) favorevole, nel 1988 decise di compiere il grande passo: avrebbe gareggiato nel mondiale di F1.  L’abolizione dei motori turbocompressi da parte della FISA rese più conveniente il processo.

L’idea era di adattare il telaio della March 88B di F3000 (disegnato da un certo Adrian Newey) alle regolazioni della F1. Richard Divila fu il progettista designato. A causa della scarsità di fondi tuttavia emerse in fretta che le possibilità di sviluppo erano minime. Divila intuì la piega che stavano prendendo gli eventi e decise di salvarsi: “Leoni era un temerario. Ma non aveva soldi per pagarmi, pagare i fornitori…Non ne aveva per nessuno. Così ho deciso di passare alla Ligier, che si offrì al tempo. Ho visto che nella F189 c’erano problemi da sistemare, ma senza soldi sarebbe stato impossibile, ed io non volevo lavorare in quel modo.”

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Leoni proseguì testardamente e fece rattoppare la scocca con del carbonio. Cambio e motore furono montati assieme alla meno peggio, le sospensioni assemblate e montate fuori dai mounting point prestabiliti ed il “manichino” fu pronto, dotato dello stesso V8 Judd montato dalla March 88B. Gianni Marelli (ex Autodelta, Ferrari e Zakspeed) fu infine chiamato a rendere la macchina presentabile per il Motor Show di Bologna.

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Gareggiando al MotorShow, Gabriele Tarquini (pilota per la FIRST in F3000) sbatté contro il muro, piegando la sospensione e chiudendo il primo atto della neonata First F189.  Il vero colpo di scena si ebbe quando le telecamere della kermesse bolognese inquadrarono Richard Divila, intento ad osservare la vettura esanime, ferma a bordo del mini-circuito della fiera: notò che il cambio era inserito male, vi erano dei difetti nei punti d’aggancio delle sospensioni, il piantone dello sterzo era decisamente poco sicuro etc. Il progettista non fu tenero con la sua creatura: la definì “bomba a orologeria” e “trappola mortale”, preconizzò che non avrebbe mai passato i crash test, avvertì Tarquini della situazione e più tardi intraprese un’azione legale per rimuovere il suo nome dal progetto.  Non è un buon inizio.

E continuò peggio. Come prevedibile, la vettura non passò i crash test imposti per partecipare al campionato; Gabriele Tarquini, giustamente terrorizzato, si rifiutò di guidare; il team non aveva i soldi per ridisegnare il telaio. L’avventura della FIRST fallì ancor prima di iniziare. Ma la loro storia continuò.

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Negli anni Ottanta in F1 per vincere dovevi montare un motore turbo. Almeno fino a quando non vennero bannati, nel 1988. Questa norma scoperchiò un piccolo vaso di Pandora: nel 1989 i team, incerti sulla migliore soluzione tecnica, sfoderarono una vasta gamma di soluzioni tecniche, che andava dai leggeri V8 ai potenti e assetati V12.

Franco Rocchi in passato era stato uno storico motorista della Ferrari (considerato il padre del V12 iridato con Lauda e Sheckter), ma per motivi di salute dovette lasciare le competizioni al termine del ’74. Nel corso degli anni continuò a progettare motori da indipendente. Rocchi captò il clima effervescente di fine anni Ottanta e capì che era giunto il momento di realizzare il suo sogno nel cassetto: un motore W a 12 cilindri, quattro per bancata. L’architettura era particolarmente originale (soprattutto nel motorsport) anche se non nuova, in quanto già applicata in campo aeronautica. Questa disposizione innovativa in teoria avrebbe garantito la potenza di un classico V12 con gli ingombri longitudinali di un V8 (a prezzo di un’altezza maggiore). Il progetto c’era, Rocchi avrebbe dovuto solo trovare un investitore pronto a scommettere sulla sua tecnologia.

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Ernesto Vita era un imprenditore che rimase folgorato dall’idea del connazionale. Il piano era semplice: acquistare i diritti del W12, vendere il motore ai team di F1 confidando che gli acquirenti sperimentassero un’epifania simile alla sua, incassare. L’unico ostacolo che si frappose tra Vita e il suo obiettivo era il fatto che tutti rifiutarono i suoi W12. Apparentemente nessuna squadra voleva mettersi nelle mani di un imprenditore sconosciuto, senza esperienza sportiva, senza mezzi finanziari significativi, senza risorse tecniche di nessun tipo. Anche i team che ritorneranno in questa rubrica, come Coloni, AGS e EuroBrun, declinarono.

Vita, che aveva già speso una quantità considerevole di denaro, si trovò di fronte a un bivio: accettare la sconfitta, sbolognare i diritti di questo motore che neanche i team più scalcinati volevano e riciclarsi in un business più redditizio. Oppure spendere ancora di più, crearsi un proprio team di F1, provare al mondo intero che aveva ragione performando brillantemente nel 1990 e assicurarsi un contratto di fornitura con una scuderia vera nel 1991. Contrariamente a ogni logica Vita scelse la seconda.

Atto II: Before Night Falls

 

Una macchina tuttavia non è fatta di solo motore. Il problema fu risolto in fretta: Vita acquistò la fallimentare FIRST F189 (intendo letteralmente LA First: la loro unica vettura, tanto che aveva ancora la sospensione malconcia dell’incidente al motorshow) e fondò il team Life, motorizzato dalla Life Racing Engines, la cui sede sarebbe stata a Formigine, vicino Maranello.

Ricapitolando: un team di F1 fondato solo con l’idea di fare soldi grazie a un motore ingarbugliato a livelli comici montato su un telaio che per ammissione del suo stesso progettista poteva rivelarsi una trappola mortale. Andrà tutto bene…

La Life iniziò la sua avventura con pochissime parti di ricambio, 2 soli motori e delle modifiche da effettuare sulla vecchia F189. La monoposto infatti, per consentire l’installazione del nuovo propulsore (mai testato fino ad ora), dovette subire un grande rigonfiamento a causa della maggiore larghezza ed altezza del W12 rispetto al Judd V8 per cui fu pensata inizialmente. Per ragioni totalmente ignote a chi scrive, questa volta la macchina passò i crash test. Divila, mai tenero con la sua creazione, la definì stavolta “un’interessante fioriera”.

Sotto il profilo estetico la macchina si presentava bene: l’auto presentava due prese d’aria ai lati delle spalle del pilota (in stile Benetton), muso e pance strettissimi in ossequi ai principi aerodinamici in voga all’epoca ed era gradevole alla vista, seppur sia quest’ultimo un dettaglio del tutto ininfluente dal punto di vista prestazionale. Dato inoltre il colore rosso, da ferma e da lontano poteva ricordare la Ferrari dell’epoca. Il solo pilota designato era Gary Brabham, figlio del celebre Jack e campione di F3000 britannica.  Aveva anche uno sponsor: la PIC, una misconosciuta azienda bellica sovietica che, stando a Vita, era in affari con lui per convertirsi a produzioni civili e collaborare allo sviluppo della scuderia. Poteva andar peggio. La Life era pronta a gareggiare.

Circa.

Atto III: Passion

La griglia di partenza poteva infatti contenere solo 26 macchine, a fronte di 35 entranti, pertanto la FIA decise di recuperare la tortura delle Pre Qualifiche. Il Venerdì mattina alle 6 i nuovi team e i peggiori dell’annata precedente si sarebbero battuti per ottenere la possibilità di partecipare alle qualifiche. I migliori 4 passavano alla fase di qualifiche vera e propria, che ne avrebbe eliminate altre quattro. Nota: all’epoca non c’era la regola del 107%. Non importa quanto lento fossi, se risultavi più veloce degli altri eri ammesso alla gara.

Le prequalifiche sarebbero state una cartina al tornasole per verificare la competitività della macchina nei confronti degli avversari diretti – Coloni, Osella, EuroBrun etc. Fu positivo il fatto che la macchina riuscì a mettersi in moto e a uscire dalla pitlane. Il tempo da battere era il 1:33:331 della Larrousse di Aguri Suzuki. Quando Brabham uscì dall’ultima curva e prese la bandiera a scacchi, apparve chiaro quanto TUTTO fosse terribilmente inadeguato – il motore, la macchina, il team.

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  1. BRABHAM – 2:07.147

Esatto: la macchina è risultata ben 34 (!!!!!) secondi più lenta anche solo della soglia limite per superare le PreQualifiche, e di 30 secondi più lenta della già disastrosa EuroBrun. Per dare l’idea, è la differenza che intercorre tra una LMP1 e una GTPro, oppure il doppio della distanza media tra il poleman del 2020 e l’ultimo qualificato del 1990. Lascio la parola al collaudatore della Life Franco Scapini per la descrizione dei difetti del progetto: ”In sintesi, il problema della Life fu principalmente il motore, che aveva problemi di sviluppo a causa dei risicati mezzi economici a disposizione. Si rompeva sempre una delle bielle laterali per via delle vibrazioni che facevano “ruotare” le bronzine tanto da arrivare a tappare i fori di lubrificazione sul collegamento con l’albero motore. Quindi, per cercare di non rompere, bisognava impostare un regime di rotazione di 10.000 giri/min massimo, in luogo dei dovuti 12.500 con relativa perdita di potenza.

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Il motore oltre a essere sovrappeso era enormemente meno potente degli avversari: il V10 Honda che vinse il campionato era in grado di sviluppare circa 700 cavalli, mentre il Life W12 aveva 400 cavalli come picco, il che significa che correva con 380 cv per non farlo fondere dopo due giri (altro che “Gp2 engine”: almeno il motore delle F3000 dell’epoca produceva 450 cv). Questo dato fu evidente anche nelle speed trap: la velocità massima che la Life toccò nel weekend australiano fu di 185 km/h, mentre la top speed fu di 271 km/h. Lo chassis non era comunque tanto migliore, mancavano i pezzi di ricambio e l’equipe era motivata come l’esercito francese alla fine della Campagna di Russia. Il weekend era finito ancor prima di cominciare, la macchina era a 40 secondi dal poleman, il motore non era in grado di compiere 5 giri prima di fondere. Al confronto della Life la Forti o la Lola MasterCard erano la Mercedes del 2014. La cattiva notizia? Fu il weekend migliore della stagione.

1990 Brazilian Grand Prix.
Interlagos, Sao Paulo, Brazil.
23-25 March 1990.
Gary Brabham (Life 190). He failed to pre-qualify.
Ref-90 BRA 13.
World Copyright – LAT Photographic

Nel secondo appuntamento in Brasile Brabham non riuscì neanche a completare un giro nelle prequalifiche a causa dei problemi di lubrificazione già descritti sopra. La Life non era il buffone di corte, era l’intero circo. Gary Brabham, che si aspettava un livello di competitività diverso dal “non esistente”, scappò dopo la trasferta sudamericana. L’ostruzionismo della FIA nei confronti della Life (Gary Brabham era un nome “importante”) significò che il collaudatore Franco Scapini ottenne la Superlicenza solo la mattina delle Prequalifiche; la Life nel frattempo aveva già messo sotto contratto Bruno Giacomelli (che non toccava una F1 dal 1983).

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A Imola andò in onda una delle qualifiche più divertenti della storia della F1. Ayrton Senna con la Mclaren-Honda segnò la pole con 1:23:220. Il miglior giro di Giacomelli fu un incredibile 7:16:212 (!!!!!). Yep, sei minuti off the pace. Conti alla mano, emerge una media oraria di 41 km/h. Seriamente con una Panda si avrebbe fatto di meglio, e forse ci sarebbe riuscito anche un ciclista professionista. Ok, sarà stato il risultato di un problema tecnico, però è un buon esempio di come tutto quello che combinasse la Life riuscisse a essere tragedia e farsa in contemporanea.

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Come ovvio dalle premesse, la macchina non avrà mai la sensazione di una speranza di una possibilità di buttare un occhio a passare le prequalifiche: 14s più lenti del penultimo a Montecarlo (più lenti di tutte le F3000), 20s in Canada, 14 a Silverstone, 22 ad Hockenheim e 27 a Monza. La Nissan a trazione anteriore della Le Mans 2015 al confronto fu un successo travolgente.

Atto IV: The Promise Of Shadows

A questo punto si vide Ecclestone andare da Rocchi e Vita per cercare di dissuadere i due a continuare la loro avventura. Ma Vita aveva un asso nella manica: abbandonare il fallimentare W12 (del quale ne aveva le scatole piene pure lui) e montare il classico V8 Judd, lo stesso della concorrenza. Come ormai avrete intuito, il team non riuscì a passare 5 minuti senza coprirsi di ridicolo.

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La cronica assenza di fondi impedì di riprogettare il cofano motore alle nuove esigenze del motore, quindi lo sistemarono a martellate appena prima di far entrare in pista la macchina. Secondo voi come sarà andata a finire? La F190 (nel frattempo rinominata L190) perse il cofano motore in pieno rettilineo, Visto che la Life aveva 1 macchina, 1 motore, 1 di qualunque cosa, il cofano danneggiato significava che il loro weekend, ancora una volta, era terminato ancor prima di iniziare.

In Spagna a Jerez le cose andarono meglio: quantomeno riuscirono a partecipare alle prequalifiche, e stavolta montavano un motore decente. I risultati furono però gli stessi: 18s più lenti del tempo limite delle prequalifiche. Mi affido di nuovo a Scapini: “Anche il telaio era un problema: montato il Judd V8 ex Leyton House che spingeva davvero, la macchina non stava in pista. Inoltre l’abitacolo era strettissimo: io e Giacomelli, rispettivamente 172 cm e 168 cm di altezza, non potevamo avere il sedile perché semplicemente non ci stava. Eravamo seduti sulla scocca e li legati. Anche il cambio, seppure progettato dall’Ing. Salvarani ‘papà’ dei favolosi trasversali delle plurivittoriose Ferrari anni ’70, era durissimo e di difficile manovrabilità”. A questo punto Vita ne aveva avuto abbastanza e terminò l’avventura della Life F1 (che in seguito sarà riesumata in un festival di Goodwood).

Atto V: It Is Accomplished

[COURTESY OF FORMULAPASSION.COM]

L’obiettivo della Life era di promuovere i motori W12 nel tentativo di venderli a un team di F1 la stagione dopo. Se la Life ha mai ottenuto un qualche risultato, è stato proprio l’opposto dell’obiettivo. Le ragioni principali del fallimento della Life possono essere riassunte in quattro punti:

  1. Tutto quanto
  2. Vedi sopra
  3. Vedi punto 2
  4. Quattro

L’unico risultato positivo della storia della Life, meme a parte, fu che non si fece male nessuno; considerando il divario di prestazioni che la rendeva letteralmente una chicane mobile, l’accrocchio infernale che era quel motore e la progettazione criminale della macchina, è comunque qualcosa. Ernesto Vita voleva scrivere la storia; a suo modo ci è riuscito.

[Immagine di copertina tratta da AutoMotorFargio.com]

Lorenzo Giammarini, a.k.a. LG Montoya

GOING NOWHERE FAST EP.1 – SIAMO UNA SQUADRA FORTISSIMI

Se credete che una scuderia di F1 non possa spingersi più in basso della Williams dello scorso anno o della Manor del 2015… beh, il bello della vita è che le cose non vanno mai così male da non poter peggiorare ulteriormente. Per recensire le avventure di tutti quei capitani di ventura che, mossi dalla più pura delle passioni, si sono calati nella grande avventura della F1 senza la minima preparazione servirebbe un intero atlante. In questa serie di articoli analizzerò più nello specifico le vicende più divertenti o istruttive di quel microuniverso di scuderie che per decenni hanno affollato la griglia di partenza con risultati irrisori.

AUTODROMO JUAN Y OSCAR GALVEZ, ARGENTINA – APRIL 07: Pedro Diniz, Ligier JS43 Mugen-Honda, hits Luca Badoer, Forti FG01B Ford, causing the latter to flip over and end up upside down in the gravel trap during the Argentinian GP at Autodromo Juan y Oscar Galvez on April 07, 1996 in Autodromo Juan y Oscar Galvez, Argentina. (Photo by LAT Images)

Oggi parlerò della Forti Corse, una scuderia italiana che corse tra 1995 e 1996. A suo modo chiuse un’epoca: è stata infatti l’ultima scuderia a debuttare in F1 da sola, senza il supporto di un costruttore (al contrario es. della Stewart-Ford) o di un munifico investitore (al contrario es. della Force India). La storia della Forti in F1 è la storia del declino dei veri garagisti.

[COURTESY OF FORMULAPASSION.COM]

“Il fallimento nel fare un piano realizza il piano del fallimento” potrebbe essere la tagline della Forti. Era un team abile e motivato che però commise diversi errori di pianificazione che pesarono come macigni sulla sua sorte. Come la Coloni (altro team “storico” del quale riparlerò), la Forti, fondata ad Alessandria nel 1977 dal pilota Guido Forti e dall’ingegnere Paolo Guerci, militò con successo nelle formule minori fino a quando nel 1991 decise di tentare il grande salto. Forti era un personaggio ambizioso ma non ingenuo (a differenza, per dire, di Andrea Sassetti, mr Andrea Moda). La condizione necessaria per correre in F1 era di poter contare su un forte capitale finanziario, pertanto passò gli anni successivi a consolidare la squadra corse e a intessere pubbliche relazioni.

[COURTESY OF PINTEREST.COM]

Nel 1993 si concretizzò l’occasione: approdò nel team di F3000 Pedro Diniz, figlio di Abìlio Diniz, imprenditore brasiliano di successo che voleva a tutti i costi trovare un sedile competitivo al figlio. Il matrimonio era felice: il team Forti era per Diniz sr il modo più rapido per portare suo figlio in F1 mentre per il signor Forti il denaro di Diniz sr era la via più agevole per l’approdo nella massima formula. L’intesa fu suggellata dall’ingresso in scuderia di Carlo Gancia, storico procacciatore di sponsor per piloti brasiliani. Grazie alle piantagioni da zucchero di Diniz sr ma anche al lavoro di Gancia, che convinse Parmalat e Sadia a finanziare il team, a fine 1994 il team aveva un budget sufficiente per debuttare nel 1995. Per essere un deb la Forti era messa meglio di tanti altri. Bisognava però anche investirlo, questo capitale.

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Proprio in quegli anni la F1 aveva ingaggiato una lotta per eliminare i team dilettanti, pericolosi per sé e per gli altri, e il nuovo regolamento tecnico sanciva che ogni team doveva progettare da sé il proprio telaio, anziché acquistarlo da terzi. Serviva quindi una base più attrezzata dell’officina di Alessandria; Forti decise di assorbire le risorse umane e tecniche nel team Fondmetal,  fallito nel 1992 pur avendo i progetti della macchina del 1993. L’approccio era in teoria corretto; in pratica la Forti avrebbe gareggiato nel 1995 con una macchina progettata due anni prima, basata su progetti ancora più anziani e probabilmente non competitivi neanche all’epoca. Va bene che l’obiettivo non era quello di vincere il campionato, ma dico solo questo: saranno gli unici della griglia ad avere ancora un cambio a H e a non avere un airscope.

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Grazie all’attrattiva esercitata dal mercato sudamericano sulla Ford, il team riuscì a dotarsi del Cosworth ED V8, lo stesso dei diretti avversari. Ai piloti ci pensò Diniz sr: un sedile andò ovviamente al figlio Pedro, l’altro, volendo un secondo brasiliano in squadra, toccò a Roberto Moreno, un pover’uomo già forgiato dalle terrificanti esperienze di Coloni e Andrea Moda, a conti fatti l’ennesima death flag sul progetto.

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Grazie all’attenta pianificazione, il team sostenne i test pre-stagionali senza grossi intoppi (per dire, Minardi, Larrousse, Pacific e Fookwork non ci riuscirono). In questo modo però i nodi vennero subito al pettine: il miglior tempo di Diniz risultò di quattro secondi più lento di Mansell su McLaren. La stagione si preannuncia in salita.

Il primo GP  è in Brasile e gli eventi prendono subito una piega favorevole: la Larrousse fallisce e la Lotus confluisce nella Pacific; la presenza di soli 26 partenti significa niente pre-qualifiche, storico spauracchio dei team di quinta fascia. Sarà l’ultima buona notizia della stagione. Joe Saward al termine delle prove libere spiega perché: “Pedro Diniz made [Pacific’s] Lavaggi and Deletraz look like amateurs when it came to throwing money away. […] The Forti was a fearful pile of junk and not even Roberto Moreno could make it go quickly. […] It was sad to watch“.

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Le qualifiche si svolgono senza bandiere rosse e con un cielo terso, le condizioni deali per mostrare la competitività della vettura; finirono invece per metterne spietatamente a nudo i difetti. Moreno e Diniz si qualificarono a +6.188 e +7.711 dal poleman Damon Hill. Malgrado disponesse di uno dei budget migliori per la fascia, la Forti subì l’umiliazione di vedere entrambe le macchine battute da Taki Inoue e riuscì a battere solo la Simtek! Una scuderia il cui quartier generale era una capra che danzava intorno a un falò!

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La Domenica almeno la macchina si mostrò affidabile. Entrambe le vetture arrivarono a due terzi della distanza di gara; Moreno poi finì in testacoda, ma almeno Diniz giunse all’arrivo. Il risultato, di per sé significativo per un team in queste condizioni, venne eclissato dal fatto che rimediò sette giri (!!!) dal vincitore Schumacher e solo cinque (!!!) dal penultimo, Aguri Suzuki su Ligier. E meno male che Interlagos era un circuito di motore, dove almeno il Ford V8 poteva salvare la baracca.

1995, Argentina — Roberto Moreno racing for the Forti Ford team at the 1995 Argentinian Grand Prix. — Image by © Jerome Prevost/TempSport/Corbis

Peccato che il GP successivo fosse in Argentina, e il tortuoso tracciato di Buenos  Aires avrebbe esaltato le carenze del telaio. La pioggia che cadde durante le qualifiche estremizzò la situazione già poco rosea, e Moreno dovette accontentarsi di un 24° posto a 11 (!!!) secondi dal poleman Coulthard, con Diniz più indietro. Almeno stavolta si erano messi alle spalle Inoue… La gara se possibile risultò ancora più crudele. Come in Brasile, le macchine ressero ma stavolta servì a poco: le due Forti vennero doppiate NOVE VOLTE (!!!), così tante da non completare il 90% della distanza di gara, pertanto non vennero classificate. Per indulgere in questa pornografia del disastro, si beccarono cinque giri anche dalla Simtek di Schiattarella, mentre il giro più veloce di Moreno fu 10s più lento di quello di Schumacher. Nell’arco di due gare il team Forti passò da novità promettente a barzelletta del circus.

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Se c’era una cosa che alla Forti non scarseggiava era denaro e buona volontà. Sergio Rinland (ex Brabham e Williams) si mise al lavoro, si spostò ad Alessandria per lavorare meglio, assunse i gradi di DT, litigò con tutto il management, lasciò il team. In Forti non si persero d’animo, e alla fine il lavoro del progettista Giorgio Stirano diede i suoi frutti: la macchina fu snellita di 60 kg, muso e sidepod vennero riprogettati, così come il telaio fu reso più resistente alla torsione. Non arrivò mai il cambio semiautomatico, ma comunque si riportarono in zona Pacific, che ogni tanto sconfissero in qualifica, ridussero i giri di distacco dal leader (con il vertice a Spa, dove vennero doppiati solo due volte da Schumacher) e mantennero un’ottima affidabilità per un team rookie. In Germania Diniz riuscì addirittura a sorpassare le McLaren di Hakkinen e Blundell! Ok, lui era su wet mentre loro su slick sulla pista bagnato, ma un sorpasso è un sorpasso.

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L’occasione dell’anno arrivò proprio nel corso dell’ultimo appuntamento in Australia. La macchina risultò fortissima, e 210.000 australiani assistettero a Moreno che influsse ben 8 decimi ai rivali della Pacific. La gara fu un gioco massacro: iniziò Coulthard, sbattendo contro il muretto mentre rientrava ai box da leader della corsa, ma uno a uno tutti i piloti venivano eliminati dal tracciato che non permetteva errori. Diniz si arrampicò fino alla 7a posizione , appena una al di fuori dei punti, quando all’ultimo giro la Ligier di Panis rallentò per una perdita d’olio. Il miracolo tuttavia non si concretizzò, e Diniz rimase l’unico pilota a non segnare punti quel giorno. Il risultato fu comunque importante e permise al team di concludere davanti ai rivali di Pacific e Simtek (che al massimo potevano vantare un ottavo posto come miglior piazzamento).

Per quanto l’anno sia stato l’opposto del successo in tutti i campi possibili, il team si trovava paradossalmente in una posizione di forza rispetto agli avversari all’inizio del 1996. La Pacific era fallita e Diniz aveva un contratto per altri due anni, il che significava un buon cash flow e una certa credibilità per sponsor e tecnici. Il team era stato sgrezzato e i miglioramenti erano stati significativi;  i risultati erano a portata di mano, e con qualche buona performance non avrebbero avuto problemi a trovare nuovi sponsor con cui rafforzare la propria presenza in campionato. Diniz jr inoltre nel 1995 si era mostrato piuttosto solido, riuscendo a completare ben 10 gare su 17. C’erano tenue speranze in vista del 1996.

Non ebbero neanche il tempo di iniziare a preoccuparsi: Diniz lasciò la scuderia con effetto immediato per la Ligier, portando il malloppo con sé. La luce in fondo al tunnel era quella del treno. Forti rimase fregato dal fatto di non aver mai stipulato un contratto scritto con la famiglia Diniz. Uno di quei “piccoli” errori di pianificazione che pesarono come macigni.

Luca Badoer (ITA) Forti FG03-96 Ford Cosworth Forti Corse – www.xpbimages.com, EMail: requests@xpbimages.com © Copyright: Photo4 / XPB Images

Con queste premesse il 1996 fu il correlativo oggettivo del detto “Dalle stelle alle stalle”. La Forti alla fine del 1995 aveva siglato un contratto con la Ford per usufruire del più potente JD Zetec-R V10, ma l’abbandono di Diniz indusse i vertici a concedergli solo la versione migliorata del V8 dell’anno prima. I piloti furono Andrea Montermini (che aveva vinto la F3000 con la Forti una vita prima) e Franck Lagorce, pilota pagante poco pilota e pure poco pagante, tanto che fu sostituito da Badoer ancor prima di iniziare.

Monte Carlo, Monaco.
16-19 May 1996.
Luca Badoer (Forti FG03 96 Ford) failed to finish the race after crashing into Villeneuve.
Ref-96 MON 29.
World Copyright – LAT Photographic

La macchina nuova sarebbe stata disegnata da Riccardo de Marco, al primo incarico come progettista di macchine da corsa, e ovviamente non fu pronta per l’inizio del campionato. A peggiorare la situazione, la F1 introdusse per la prima volta la regola del 107%, una legge ad personam contro la Forti in pratica. Per i primi tempi potevano affidarsi solo che al motore per passare la tagliola; ovviamente non fu sufficiente.

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La nuova FG03 arrivò solo a Imola per il solo Badoer, e permise all’italiano di qualificarsi per la gara, pur restando confinato nelle ultimissime posizioni. Nell’unica occasione in cui avrebbero potuto segnare punti, il famoso GP di Monaco dove arrivarono in tre, le due Forti rimasero invischiate in incidenti. La vettura era decente ma il team stava morendo; era solo questione di tempo. Dopo il GP monegasco tuttavia entrò in scena l’ultimo personaggio della tragedia, l’entità misteriosa conosciuta come “Shannon Racing”, un team irlandese di F3000 sussidiario della compagnia FinFirst. Stando ai comunicati stampa, era un gruppo industriale e finanziario italiano desideroso di farsi pubblicità. La Shannon acquistò il 51% delle quote del team e le due FG03 arrivarono a Barcellona con una nuova livrea bianca e verde, a testimonianza il cambio di governance. La situazione precipitò subito dopo.
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Shannon non pagò mai, quindi Guido Forti rescisse il contratto e ritornò al comando del team. La macchina era migliorata (Badoer si qualificò davanti a Rosset in Canada) ma la scuderia ormai era oberata di debiti, il più grande dei quali con la Cosworth, che smise di rifornire il team di motori nuovi. Per un paio di gare si arrangiarono con dei motori a fine vita, ma alla fine in Germania dovettero arrendersi. A rendere il tutto più farsesco ci fu anche la disputa legale tra Forti e Shannon per il controllo del team. Shannon vinse per insufficienza di prove, ottenne il 100% del team, che nel frattempo era morto. Decenni di militanza nel motorsport distrutti in neanche un anno. Nel corso degli anni la Forti aveva lanciato nomi che certo risulteranno familiari alle vostre orecchie: Teo Fabi, Nicola Larini, Mimmo Schiattarella, Giovanna Amati, Fabiano Vandone, Gianni Morbidelli, Fabrizio Giovanardi.
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La Shannon fu l’ultima grande truffa della storia della F1. Anche per questo la Forti ha chiuso un’epoca. Alla fine risultò essere un’entità fittizia (che rischiò di coinvolgere anche la Minardi, solo che i faentini, più smaliziati, intuirono la fregatura) che si ricollegava a Hermann Grantz, truffatore di professione ricercato da mezzo mondo (citato addirittura tra le carte del processo Publitalia su Berlusconi e Dell’Utri). FinFirst aveva acquisito diverse compagnìe, ma non garantì mai i soldi promessi. Probabilmente il coinvolgimento in F1 era solo un modo per rendersi credibile agli occhi degli investitori da ingannare.
[Recupero della memoria storica?]
Il peccato originale era stato usare il telaio della Fondmetal del 1992, troppo vecchio per combinare alcunché. In generale ormai erano cambiati i tempi: un team ben organizzato, composto da abili lavoratori, onesti e guidati dal sogno non poteva più entrare in F1 solo sulle proprie forze. Il fallimento della Forti terminò l’epopea dei garagisti. Peccato, poteva essere la storia dell’Eddie Jordan italiano.
Ci rivediamo la prossima settimana con la storia della Life e dell’inverecondo W12. Stay Tuned.
[Immagine in evidenza tratta dalla pagina Facebook della Forti Corse]
Lorenzo Giammarini a.k.a. LG Montoya