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GOING NOWHERE FAST EP.3 – THE AMERICAN NIGHTMARE

Benritrovati, compagni di sventura. Oggi parlerò della USF1, una grande avventura americana che purtroppo non è mai esistita. Prima di procedere con ordine, un piccolo disclaimer: rispetto al solito vedrete poche immagini. La colpa non è mia, ma spiegarvi il motivo comporterebbe spoiler. Allo stesso modo, debbo avvertirvi che l’immagine di copertina non c’entra nulla con l’argomento dell’articolo (è una A1GP), ma dovevo pur mettere qualcosa.

[COURTESY OF LASTWORDONSPORTS.COM]

Gli ultimi Duemila furono anni di fuoco per la F1. Da una parte le tensioni tra FOTA e FIA portarono i team a un passo dalla scissione, dall’altra la crisi finanziaria e economica di fine 2008 indusse BMW, Toyota e Honda a smobilitare le squadre corsa. Non sorprende quindi che Ecclestone nel 2009 facesse la corte chiunque avesse intenzione di entrare in F1. Oggi può apparire strano, ma i team interessati erano in gran numero e andavano dal ridicolo (come MyF1Dream.com, una scuderia il cui business plan si basava sulle donazioni dei fan – un kickstarter ante litteram) al solido (come la Virgin o la Lola). A Febbraio 2009 venne annunciata la prima nuova squadra ad essere ufficialmente ammessa al campionato 2010, e a sorpresa fu la USF1, il sogno di Ken Anderson (ex Onyx e Ligier) e del celebre giornalista Peter Windsor.

La USF1 si annunciò con magniloquenza (leitmotiv della vicenda) come il primo team di F1 dall’anima totalmente a stelle e striscie, una sorta di nazionale statunitense di F1. Adesso la presenza americana in F1 è significativa (Haas, il COTA, Liberty Media), ma all’epoca i rapporti con gli USA erano freddini – anche a causa del fallimento di Indianapolis. In pieno stile States, Anderson e Windsor videro nel disinteresse degli yankees una grande opportunità di crescita. Ma si sa, il cammino dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi.

Il primo ostacolo del progetto era ovvio. La grande maggioranza dei team di F1 ha da sempre stretti collegamenti con la Gran Bretagna (o similmente con l’Italia), per motivi storici ma soprattutto logistici – tra l’Oxfordshire e le Midlands si possono trovare fornitori di ogni cosa, dalle sospensioni al cambio ai freni. La USF1 invece voleva essere un progetto “all american”, quindi con base negli Stati Uniti.

Il team impiantò quindi il quartier generale a Charlotte, North Carolina. Non era una cattiva idea: Charlotte era la patria della NASCAR e in pochi chilometri si trovavano gli head quarter dei team più importanti. Visto che però sarebbe stato folle fare avanti e indietro America-Europa per i weekend di gara, la USF1 avrebbe impiantato una seconda base operativa in Spagna, vicino al Motorland Aragon (del resto la Haas ha una struttura simile: la sede ufficiale è a Kannapolis ma la sede operativa è a Banbury, in UK).

[COURTESY OF F1GRANDPRIX.COM]

Il team -e il suo guerilla marketing- colpì l’immaginazione della stampa, che subito iniziò a fantasticare sul progetto. Anderson e Windsor furono felici di alimentare i rumors e raccontarono di aver preso contatti con una quantità di personalità del motorsport americano – come Kyle Busch, Danica Patrick e Scott Speed. Dall’esterno le cose sembravano filare liscio: per il motore avevano firmato un accordo di fornitura con la Cosworth; mr. YouTube, Chad Hurley, si mostrò interessato a partecipare al progetto; Charlie Whiting ispezionò la fabbrica e rimase soddisfatto. La presenza di un budget cap (frutto del braccio di ferro FIA-FOTA) li avrebbe inoltre messi in condizioni di competere ad armi pari con i team con più risorse ed esperienza. L’euforia durò poco.

Dopo mesi di schermaglie Team e FIA trovarono un accordo che fu suggellato dalla firma di un nuovo Patto della Concordia nel quale (tra le varie cose) non c’era più traccia di alcun budget cap. Per la USF1 fu una catastrofe: non avrebbero avuto nessuna speranza contro i team maggiori e le spese sarebbero esplose le spese verso l’alto. Inoltre l’attesa del verdetto fece perdere alla USF1 un mese di preparazione.

Proprio di questo si iniziò a parlare. Windsor e Anderson saranno pure stati motivati e esperti, ma appariva chiaro che sarebbe servito un miracolo per essere pronti in tempo. Tutto stava progressivamente sfuggendo dalla tabella di marcia; per fare un confronto, mentre Virgin e Lotus (questa sì arrivata all’ultimo momento) avevano già annunciato la line up completa, in USF1 non avevano nominato nemmeno un pilota (no, le 38 nomine farlocche di prima non contano). Inoltre, malgrado YouTube e altri investitori tra cui la agenzia di pubblicità Goodby, il flusso monetario pareva scarso.

[COURTESY OF RACECARENGENEERING.COM]

Certo, il settore marketing continuava a dare l’impressione di fare qualcosa, con frequenti post sui social media, comunicati stampa su ogni minuzia -come il classico “USF1 pay fee to FIA”- , interviste con i proprietari, immagini e video della fabbrica (dove sono in bella vista i macchinari col logo HAAS), del processo di progettazione e perfino del musetto, l’unica cosa tangibile prodotta finora.

A Novembre la FIA ricevette la soffiata che il team sarebbe stato “incapable” di gareggiare in Bahrain. Ecclestone stesso ventilò dei dubbi al proposito, constatando il silenzio proveniente dal fronte dello sviluppo della macchina o del team, che dopo l’annuncio della partnership con Hurley sembrava essere scomparso. Windsor rispose negando che il team fosse in cattive acque, lamentandosi che “Such are the demands of modern media (…) if you’re not saying something, you’re not doing anything. (…) I think everyone and every company is entitled to its heads-down time” e, rispondendo alle persone che gli chiedevano il motivo dell’inattività “One, while the F1 politics were sorting themselves out there was very little that we could do or say.” e [vi avviso, questa merita] “Second, since August, we have been building our ‘house’. Literally. We gutted the ex-Hall of Fame Racing/Joe Gibbs NASCAR shop, re-painted it, re-floored it, re-wired it, re-lit it and re-designed it. In three weeks. And then, once we had a building (and even before we had one), we began to design parts and to hire our team. Again we were building. People wanted to know what was going on. We replied that we were ‘putting together the team.’ It’s a bit like building a new house“.

[COURTESY OF USF1 VIA FACEBOOK.COM]

Lo stesso giorno il team varò il sito internet e l’account Twitter. Dopo sei mesi avevano ammobiliato il quartier generale, presentato un logo e costruito un musetto. Almeno ci furono progressi sul fronte piloti: in origine c’era la volontà di far correre due piloti americani, ma presto si dovette ricorrere a un compromesso, incarnato dalla figura del 27enne argentino José Maria Lopez, che avrebbe portato in dote 8 milioni di dollari grazie al supporto dello Stato. Il team “All American” sarebbe stato controllato dall’Argentina – How the turntables…

Giunto Dicembre, la situazione diventò drammatica, ma mai seria. Il personale intuì che la “Type 1” non ce l’avrebbe fatta in tempo per i test e neanche per il Bahrain. I progetti semplicemente non arrivavano – e questo era dovuto anche alla gestione del progetto da parte di Anderson, che voleva visionare ogni singolo progetto prima di esprimere un parere. Le risorse erano scarse; il production manager rassicurò l’equipe tecnico con la frase: “Well, Ken has a plan“. Intorno a metà Dicembre era previsto un intensificarsi dei lavori, ma i progetti non arrivarono mai. Impossibilitato a lavorare, lo staff iniziò a progettare  prototipi di toaster per passare il tempo.

Per illustrare meglio la situazione, ecco un aneddoto. A Febbraio Windsor visitò il quartier generale a Charlotte e rivolse all’intera equipe la domanda, nelle sue intenzioni retorica: “Chi di voi crede che non ce la faremo in tempo per il Bahrain?” Ogni singolo dipendente alzò la mano. Peter ci rimase male.

[COURTESY OF WTF1.COM]

Intuendo la mala parata, Anderson, Windsor e Hurley chiesero una deroga alla FIA, chiedendo se potevano mancare alle prime quattro gare della stagione. La FIA acconsentì a patto di ricevere una nuova ispezione di Charlie Whiting. Quello che l’esperto race director scoprì fu una scuderia in “no position to race” (del resto bastava guardare i video del canale ufficiale: inquadrano sempre quattro tizi che annuiscono, Windsor in giacca e cravatta, tre computer e l’onnipresente musetto).

Hurley, all’oscuro del duo proprietario, cercò disperatamente una fusione con la Stefan GP (un’altra scuderia della quale dovrei parlare), ma l’operazione fu osteggiata da tutte le parti in causa e si risolse in nulla di fatto. Hurley e Lopez decisero di disimpegnarsi. Il team era così impreparato che avrebbero fatto fatica addirittura a mandare un container di tavoli e sedie in Bahrain, come fece la Stefan GP.

[COURTESY OF USF1 VIA FACEBOOK.COM]

A metà Febbraio un dipendente denunciò la gestione confusionaria del team : “La situazione è caotica. Le notizie che arrivano alla gente sono tutt’altro che vere e stiamo solo costruendo una grande bugia. Ci servirebbero altri due mesi per completare la macchina e se avessimo avuto soldi e risorse umane per completarla prima, non abbiamo avuto dirigenti capaci di prendere delle decisioni. Anche con i pagamenti delle buste paga siamo già indietro: lunedì ci hanno pagato metà mese e l’altro lunedì ci hanno promesso l’altra metà. Due terzi del personale lavora già metà di quanto previsto, ma chi può biasimarli, c’è poco da lavorare.

Non abbiamo ancora ricevuto neppure un motore dalla Cosworth, dato che gli dobbiamo circa 2,5 milioni di euro. I ragazzi che lavorano il carbonio non hanno le attrezzature che servono per realizzare il telaio, figuriamoci la macchina intera. Quello che è stato fatto fino ad ora era solo per inviarlo alla FIA per i crash test.

[COURTESY OF USF1 VIA FACEBOOK.COM]

Povero Lopez, si è presentato qui ieri e non c’è nessuna macchina sulla quale farlo sedere. Poverino, ha esclamato “Succede, quando i soldi arrivano in ritardo…”. La verità è che Peter e Ken sono i due peggiori dirigenti che la F1 potesse mai avere. Si sono convinti d’essere due grandi imprenditori, quando non hanno le basi per comprendere come formare una squadra del genere, delegando le responsabilità a persone che non sanno quello che devono fare, mentre chi lo sa non è autorizzato ad aprire bocca.

Il reparto marketing ha alimentato ancora di più le bugie, perché tutto quello che avete visto è ben lontano dalla realtà. Quando Ken [Anderson] non ha potuto fare le buste paga, è andato a Daytona in cerca di gentlman drivers che gli hanno messo un mucchio di soldi in tasca, pensando di investire in qualcosa di buono e ritrovandosi con un pugno di mosche in mano.

A questo punto è tutto così triste, ma l’occasione è stata persa e gli investitori truffati. Tutto frutto di una cattiva gestione, affidata più all’ego di Ken e Peter che ad altro. Togliendo loro due, forse con gli investimenti fatti si poteva anche arriva in Spagna per i test…”

Dichiarazioni che fanno sembrare Ernesto Vita il Ron Dennis italiano. La FIA aveva visto abbastanza: inflisse al team una multa di 309.000 euro e, più importante, lo bandì permanentemente da tutte le sue competizioni.

[COURTESY OF CDN.MOTOR1.COM]

Dopo un anno di protratti sviluppi, tutto quello che la squadra poteva offrire era mezza scocca, degli stampi lasciati a metà, account su ogni tipo di social in uso all’epoca, dei fighissimi tostapane e IL musetto. Che andò distrutto in un crash test fallito.

[COURTESY OF USF1 VIA YOUTUBE.COM]

Le informazioni sull’USF1 in realtà sono così poche che non è neanche chiaro il motivo del fallimento. Alla base c’è di sicuro il disinteresse del pubblico americano per le formule europee e l’indiscussa incapacità manageriale di Windsor e Anderson, ma non anche le giravolte sul budget cap ebbero una parte rilevante sul disastro dell’esperienza. Di sicuro l’ambizione del progetto avrebbe richiesto più tempo, più denaro e persone migliori. Per finire, non aiutò il fatto che volessero costruire tutto quanto in casa – almeno la Campos e la Stefan GP si erano appoggiate a fornitori esterni. Loro furono l’opposto della Haas: volevano fare tutto loro, arrivarono all’improvviso e in pompa magna e morirono senza che nessuno se ne accorgesse.

La USF1 ottenne pertanto l’ambito record di essere stato l’unico team collassato su sé stesso e bannato da ogni competizione ancor prima di avvitare una ruota. Ad aggiungere danno alla beffa, la USF1 rubò il posto a gente che probabilmente sarebbe stata in grado di presentare una macchina funzionante, come la Lola o la Prodrive (nelle intenzioni un team B della McLaren), che forse ci avrebbe garantito uno spettacolo migliore di quello di Lotus, Virgin, HRT.

La prossima volta parlerò dell’unico altro team nella storia che riuscì a farsi bandire da tutte le competizioni FIA, la mitica Andrea Moda. Stay Tuned!

[Immagine di copertina tratta da autoevolution.com]

Lorenzo Giammarini a.k.a. LG Montoya

 

 

 

 

 

Lotta per il potere in F1: la guerra FISA-FOCA

Correva l’anno 1980. 20 alla fine del millennio. La F1 era una categoria in piena ascesa, veniva da un decennio in cui tutto era stato grande, le imprese, le tragedie, l’evoluzione tecnologica, l’aumento dell’attenzione mediatica. Da un lato il progresso sul fronte dei motori, con la coraggiosa introduzione del turbo da parte della Renault, e dall’altro l’esasperazione aerodinamica portata da Colin Chapman, frutto della necessità da parte dei team inglesi (o garagisti, come li chiamava Enzo Ferrari) di sopperire alla mancanza di cavalli del motore Cosworth.

Gli inglesi erano sempre stati convinti che la F1 dovesse essere cosa loro. Capeggiati da Bernie Ecclestone, che per primo aveva capito il grande potenziale commerciale della categoria, i team si erano costituiti in una associazione denominata FOCA (Formula One Constructors Association), il cui obbiettivo era tutelare i diritti degli stessi in maniera organizzata, costituendo un’unica entità con la quale trattare con il potere sportivo, rappresentato dalla FISA (Fédération Internationale du Sport Automobile ), emanazione della FIA. La FISA era guidata da una sorta di despota dai tratti fra il comico e il grottesco che di nome faceva Jean Marie Balestre.

Le questioni da affrontare erano tante, e andavano dalla definizione della spartizione dei ricavi fino ai regolamenti tecnici. Perchè di soldi ne iniziavano a girare parecchi. Da qualche anno la F1 godeva di una copertura televisiva continua in moltissime nazioni. C’erano quindi diritti televisivi da gestire, trattative da fare, con organizzatori, televisioni e sponsor, e colui che più degli altri aveva ben chiaro il da farsi era proprio Bernie Ecclestone.

Ma, ovviamente, c’era chi non voleva lasciare in mano tutto agli inglesi, e il fronte contrapposto era costituito dal sopra citato Jean Marie Balestre e, ovviamente, da Enzo Ferrari, che era al tempo stesso stimato e detestato dai team di oltremanica. Soprattutto nell’ultima parte degli anni 70, quando la Ferrari era tornata prepotentemente a vincere.

Come in tutte le guerre, c’è un fattore scatenante, la scintilla che dà il via alle ostilità, e nel nostro caso questa scintilla ha il nome di un vestito femminile molto di moda negli anni precedenti: la minigonna. O, meglio, le minigonne. Una delle tante furbate che gli inglesi mettevano in pista all’epoca per potere stare davanti alla Ferrari. O, se proprio non vogliamo considerarle furbate, possiamo definirle “interpretazioni al limite del regolamento”. Limite che Ferrari non voleva mai nemmeno sfiorare. Le suddette minigonne erano state introdotte da Colin Chapman sulla prima vera wing-car, la Lotus 79, ed erano palesemente irregolari, essendo appendici mobili con funzione aerodinamica. Da Maranello partirono veementi le proteste, motivate non solo da questioni regolamentari ma anche dal fatto che quel motore 12 cilindri a V di 180° che negli anni precedenti era stato il punto di forza delle rosse, non consentiva, per l’ampiezza dell’angolo fra le bancate, di realizzare una wing-car perfetta, ed era così diventato improvvisamente un punto di debolezza.

E, in più, a Ferrari l’idea che il motore non fosse l’elemento vincente di un’auto non piaceva troppo. Si creò così il cosiddetto fronte dei “legalisti”, costituito dai team che pretendevano il rispetto totale del regolamento tecnico deciso dalla FISA. Niente minigonne e niente furberie similari. E, magari, meno potere agli inglesi. Questo fronte coincideva con il gruppo dei costruttori all’epoca impegnati in F1, Ferrari, Renault e Alfa Romeo, cui si aggiunsero nel tempo altri team minori non inglesi, come la Osella.

Lo scontro fra i due fronti era quindi nominalmente dovuto a questioni regolamentari, ma il vero motivo erano ovviamente i soldi e la gestione della F1 più in generale.

La guerra fra legalisti+FISA da una parte, e FOCA dall’altra, iniziò alla fine del 1979 e si protrasse per poco più di due anni, anche dopo la firma di quel Patto della Concordia che dal 1981 regola la F1, e che continuerà a farlo almeno fino al 2020, attraversando quindi 4 decenni, caratterizzati da mutamenti del contesto economico internazionale, della tecnologia, dei gusti del pubblico, dei mezzi di comunicazione. Avendo, almeno fino ad ora, due punti fermi: Ecclestone e la Ferrari. Con il primo che riuscì abilmente a fare assegnare alla FOCA (e quindi a se stesso) la gestione dei lucrativi diritti televisivi, e con la seconda destinataria di un bonus permanente garantito. Facendo inoltre arricchire in modo spropositato molti (non tutti) fra coloro che parteciparono alla costituzione dell’accordo.

Alcune delle battaglie di questa guerra si svolsero sulle piste. Ci furono GP corsi con solo i team di un fronte o solo quelli dell’altro: il GP di Spagna del 1980 e quello del Sudafrica del 1981, entrambi corsi dai soli team inglesi, e il GP di San Marino del 1982 corso ad Imola, cui parteciparono i soli team legalisti con l’aggiunta della Tyrrell che aveva sponsor italiano. I primi due non ebbero validità mondiale e furono entrambi vinti dalla Williams, con Jones e Reutemann, e il terzo è passato alla storia per il nefasto duello Pironi-Villeneuve.

Se nel caso del GP di Spagna e di quello di San Marino il forfait di parte dei team fu una forma di protesta decisa durante il week-end di gara o poco prima, il GP del Sudafrica del 1981 fu un atto di sfida pianificato nei confronti della FISA, volendo essere, in effetti la prima prova di un campionato alternativo organizzato da Ecclestone e a cui avrebbero dovuto partecipare i team appartenenti alla FOCA. Si corse con un regolamento che non era quello previsto dalla FISA per quell’anno, e non ebbe un particolare successo.

Nel 1981 la prospettiva di avere due campionati fu quindi concreta, e in effetti vennero divulgati i due calendari, quello della FISA e quello della FOCA. Ma, visto anche lo scarso successo del GP del Sudafrica, le parti compresero che nella divisione entrambe ci avrebbero perso (come in effetti successe tanti anni dopo negli Stati Uniti con lo split fra Cart e IRL, avvenuto per motivi in un certo senso analoghi e che ha poi comportato la distruzione di un campionato che negli anni ’80 e ’90 era arrivato a fare concorrenza alla F1 stessa).

Fu quindi trovato l’accordo per correre tutti assieme nel 1981. La Ferrari ottenne l’abolizione delle minigonne e l’imposizione dell’altezza minima da terra di 6 cm, ma i team inglesi aggirarono subito la norma grazie ai martinetti idraulici. E il campionato si concluse con la vittoria della Brabham di Ecclestone. E così per il 1982 fu abolita la regola dell’altezza da terra, di fatto inefficace, e si tornò al regolamento del 1980. Non passò però la richiesta degli inglesi di ridurre la cilindrata dei motori turbo. Nel corso di quell’anno il divario fra turbo e aspirati era diventato di un centinaio di cavalli, troppi per essere compensati con l’aerodinamica. E così si inventarono il trucco dei serbatoi di raffreddamento dei freni, giocando sul fatto che il peso minimo si misurava dopo avere rabboccato i liquidi di qualsiasi tipo, carburante escluso. Di fatto Williams, Brabham e compagnia correvano con decine di kg in meno rispetto alle legalissime Ferrari e Renault, e riuscirono a tenerne il passo nelle prime gare. Ma, dopo le forti proteste dei legalisti stessi, la FISA tolse loro i risultati ottenuti e per protesta gli inglesi disertarono in massa il GP di San Marino ad Imola. Ma quella fu l’ultima battaglia, anche perchè subito dopo iniziarono le tragedie e diventò chiaro a tutti che l’accoppiata turbo+wing car era eccessivamente pericolosa. Saggiamente, le parti in conflitto decisero di fare l’interesse della F1 fermando le ostilità e dando priorità alle questioni più urgenti, tenendo fede al patto della Concordia firmato l’anno precedente. Furono abolite le wing-car, con l’imposizione del fondo piatto, e i principali team FOCA siglarono accordi di fornitura con grandi costruttori (Honda, Porsche, BMW) eliminando il problema del gap prestazionale, e trasformando definitivamente la F1 da categoria per assemblatori a luogo nel quale le grandi case automobilistiche potevano mostrare al mondo le loro capacità.

Nei decenni successivi vi sono stati altri momenti nei quali si è paventata la costituzione di un campionato alternativo, ma a guidare le fronda erano le case automobilistiche, stanche di incamerare solo una piccola parte dei grandi ricavi che la F1 produce. Perchè i cordoni della borsa li ha sempre avuti in mano Ecclestone, e lui ha sempre trovato il modo di riportare la pace, evitando che dalle intenzioni si passasse ai fatti.

Alla fine non sono stati i costruttori a togliere a Mr E il potere ma coloro che hanno comprato l’intero (o quasi) business. Evidentemente è sempre stato chiaro a tutti il fatto che Bernie, pur gestendo l’azienda quasi come un’impresa familiare, in primissima persona, curando tutti gli aspetti e circondandosi di collaboratori fedelissimi anche se dal curriculum a volte discutibile, ha sempre ottenuto e fatto ottenere a tutti ciò che si aspettavano, e cioè una montagna di soldi. Ma adesso, da qualche giorno, il comando è affidato ad altri.

La conclusione che vogliamo trarre da questo sintetico excursus sulla prima guerra di potere avvenuta in F1 è che se all’epoca le manovre di Ecclestone sembravano quelle di un intraprendente uomo d’affari impegnato a fregare FISA e Ferrari per fare gli interessi suoi e quelli dei suoi amici inglesi, la storia ha poi dimostrato che è proprio grazie a lui se la F1 è diventato un business in grado di generare profitti notevoli per la maggior parte di coloro che vi hanno partecipato. E’ vero che in anni recenti la sua gestione è sembrata non adattarsi al mutato contesto del mercato, è anche vero che, specialmente negli ultimi anni, sono piovute critiche sul Patto della Concordia e sulle modalità di spartizione dei soldi, ma in fin dei conti la F1 ha sempre continuato a portare sulla griglia di partenza un numero più che accettabile di partecipanti laddove altre categorie (MotoGP compresa) soffrivano. E’ ciò è dovuto al fatto che Mr E ha sempre avuto ben chiaro quale fosse l’interesse primario del business, e seguendo la sua linea ha, in fondo, sempre fatto l’interesse di tutti, o, almeno, della maggior parte. Prova ne sia il fatto che i precedenti azionisti di maggioranza hanno comunque voluto che fosse lui a mandare avanti operativamente gli affari. E, dalle voci che girano, la defenestrazione è stata oggetto di accese discussioni fra nuovi e vecchi azionisti.

Terminiamo con una domanda: la triade che è subentrata a Mister E, costituita da due perfetti sconosciuti (per il mondo della F1) e da un conosciutissimo storico nemico di Ecclestone, ancorchè persona estremamente esperta e competente, che di nome fa Ross Brawn, sarà capace di mantenere unita la F1 come di fatto è successo negli ultimi 4 decenni? O, fatto fuori il grande capo, si scatenerà una vera e propria guerra civile, come sempre succede quando un dittatore viene deposto? Se quest’ultima è la risposta, a nostro parere la F1 ha molte meno probabilità di riuscire a sopravvivere come entità unica rispetto a quante ne avesse all’epoca della prima guerra di potere, quella fra FISA e FOCA.

L’aspirapolvere più veloce della storia: la Brabham BT46B

Si dice che la necessità aguzzi l’ingegno. E c’è chi di ingegno, ma soprattutto di furbizia, ne ha da vendere.

Questa è la storia dell’unica monoposto di F.1 che vanti una percentuale di vittorie del 100%, frutto della mente geniale, ma in questo caso soprattutto furba, di Gordon Murray, uno dei migliori progettisti di un’epoca nella quale le auto nascevano dalla matita di una o al massimo due persone, e dove un team fra ufficio progettazione e squadra da inviare sui campi di gara faceva al massimo una decina di persone. Continua la lettura di L’aspirapolvere più veloce della storia: la Brabham BT46B