7 SETTIMANE (DI NOIA?) ALL’ALBA

Viviamo nell’era del cosiddetto “tempo reale” che alimenta i Socials sui quali commentiamo stagioni di F1 da 20 e più Gran Premi (dei quali generalmente diciamo peste e corna a stagione in corso, e la MB che domina, e il DRS, e la Safety Car, e frizzi lazzi e mazzi, e non ci son più le mezze stagioni, etc) eppure è il primo anno che la pausa invernale si dimostra di una noia mortale tale da mettere a dura prova anche il più entusiasta degli appassionati.

La cosa è doppiamente curiosa visto che alle porte c’è un cambio regolamentare epocale, Aerodinamica e gomme sì ma anche Power Units a sviluppo libero seppur limitate a sole 4 per stagione. Con però escamotage da circo come quello della MB con LH44 a Spa 2016 vietati ora dal regolamento. Nulla, l’apatia generale è talmente serrante che rimpiango quando più o meno 1 anno fa il mio amico Filippo era incontenibile perchè Vettel, su vetture 2015 e Pirelli da bagnato 2016, aveva dato paga a tutti nei test al Ricard allagato artificialmente.

E dire che quel burlone di Nico Rosberg c’aveva provato a dare un pizzico di pepe alla pausa invernale eh. Ritirandosi 1 settimana dopo essersi laureato WDC 2016 e lasciando libero il sedile più ambito in assoluto in F1. Forse non è un caso che, in perfetta linea col sentimento pervadente di questa pausa invernale, suddetto sedile sia finito a Bottas (sic) denotando da parte di MB una propensione al rischio pari a quella di un pensionato indeciso se acquistare 1 o 2 cartelle del bingo la domenica pomeriggio. E che poi, in perfetto stile MB, ne acquista 1 che coi 50 centesimi risparmiati non si sa mai.

Il mese che si è appena aperto si chiuderà con la presentazione delle F1 Model year 2017 che poi dal 27 si sposteranno al Montmelò per la prima delle due sessioni di test prestagionali. La cosa che sta tenendo maggiormente banco circa le nuove vetture è se Mclaren tornerà o meno al glorioso Orange e se Ferrari casserà il bianco a favore di un più aggressivo nero, specie sulle ali. Argomenti da finissimi pensatori (quali siamo eh, NDR) che soppiantano tranquillamente i vari discorsi sull’aumento di downforce che ci si aspetta e tutto il resto.

Qualche barlume di interesse s’è avuto quando la FIA, peraltro abbastanza di sottecchi (per forza, prima sdoganano i regolamenti poi si chiedono se sia stata cosa buona e giusta), ha stilato una lista di curve appartenenti a vari circuiti del Mondiale le cui barriere/vie di fuga devono essere rimaneggiate/aumentate/etc. Ma onestamente i pochi trafiletti qua e là non han generato grossi dibattiti in merito. Sarà cinico chi scrive ma tutta la baracca resterà in piedi, modifiche regolamentari incluse, se nessuno si torce un capello. Come sempre chi scrive naturalmente si augura.

Parlando di sicurezza son giunte a mozzichi e bocconi informazioni sparse su come le vetture 2017 saranno decisamente più impegnative dal punto di vista fisico per i piloti. Ovviamente si parla degli extra G in curva e di dove andranno a farsi sentire sul fisico degli stessi. Mi è capitato di scrivere più volte di Tambay e del fatto che la downforce della 126C2 nel 1982 lo fece fisicamente a pezzi. Ora: ok che i piloti di oggi son molto più atleti di quelli di allora ma Patrick era un pilota in attività che guidava delle wing car. E che fu messo KO da una wing car all’apice del suo sviluppo stagionale. Ergo non sottovaluterei il problema “fisico” nel 2017, perlomeno all’inizio non mi sorprenderebbe se nei test prestagionali fosse tutta una fioritura di torcicolli e nimesulide.

Col buon Ross Brawn che, fresco di inserimento nello Staff di Liberty Media, già parla di stagioni con 25GP (o giù di lì) presumo che ipotizzare stagioni agonistiche da Febbraio a Novembre non sia poi una cosa così campata per aria. In un’ipotetica (leggasi sopra: c’è sempre il rischio che coi nuovi regolamenti la FIA abbia fatto il passo più lungo della gamba) continuità regolamentare 2 mesi a motori spenti a cavallo dell’anno bastano ed avanzano. Magari questa domenica si corresse anzichè dover spulciare il web alla ricerca di qualcosa che possa ammazzare questa maledetta noia.

La Redazione

 

Honda NS-X

NS-X.

Una sigla che qualsiasi appassionato di auto conosce…

Un’auto iconica, indimenticabile; è stata definita molto spesso “la risposta della Honda alla Ferrari 348”, ma in realtà quest’auto è molto di più, ma soprattutto è molto diversa.

Probabilmente sconta il fatto di essere nata nello stesso periodo, ed ecco che il pubblico ha creato il dualismo; un dualismo che, come vedremo, non ha alcuna base reale…

Siamo agli inizi degli anni ’80… Honda è una affermata fabbrica di automobili, ma la sua immagine aziendale è stranamente “duale”; da una parte le vetture per le strade di tutti i giorni, ottimi prodotti per un pubblico vasto e tradizionale. Dall’altra il suo impegno in F1 al fianco di scuderie prestigiose, in grado di portarla fino alla conquista di titoli mondiali, motorizzando realtà del calibro di Lotus, McLaren, Tyrrel e Williams.

Manca, nel listino di Honda Automobili, una vettura sportiva per eccellenza, quella che oggi verrebbe definita una “supercar”. E nessuno confida che Honda possa fare una vettura così…

Per volere di Soichiro Honda in persona, fondatore dell’azienda nonché capo supremo, nel 1984 viene formato un team di progettisti cui affida un compito arduo, ma soprattutto senza possibilità di deroga dal target di base: progettare e costruire la prima Honda ultrasportiva, un’auto che non potesse essere confusa né paragonata ad altre già esistenti.

La vettura deve essere vincente, dirompente. Non in senso agonistico – quello verrà casomai dopo – ma in senso di rottura con gli schemi che danno della Honda l’immagine di una ottima vettura per famiglie, ma niente di più.

Viene deciso un layout del tutto inusuale, mai affrontato prima dall’azienda: un corpo vettura con abitacolo avanzato – quello in seguito verrà adottato da molti altri costruttori di supercar, denominandolo “cab-forward” – motore centrale-posteriore, trazione posteriore.

La sfida è veramente ardua, perché fino ad allora Honda non ha mai costruito vetture con questa impostazione, quindi il know how è veramente minimo, per non dire inesistente.

Gli studi aerodinamici prendono spunto da qualcosa di veramente unico: il profilo della nuova vettura deriverà addirittura da un aereo da caccia, il mitico F16 Fighting Falcon !

Nei primi bozzetti grafici l’abitacolo viene immaginato come una “bolla” di cristallo e acciaio, appoggiata sul corpo vettura e perfettamente integrata ad esso. In seguito, al momento di andare in produzione, il già scarno tettuccio metallico della NS-X verrà verniciato rigorosamente in nero in tutte le versioni, così da accentuare ancora di più la sua idea di cockpit aeronautico…

Fatte le debite proporzioni, in questi due disegni si nota bene come l’abitacolo riprenda il concetto di “bolla di cristallo” tipico del cockpit dell’aereo, ma anche come tutto il corpo vettura si ispiri alla linea del caccia: il muso basso e affusolato, l’abitacolo in rilievo, poi il “corpo” che si abbassa un attimo per poi riprendere quota nell’alettone posteriore, così come avviene nell’impennaggio di coda del caccia americano.

Schermata 2017-01-23 alle 19.42.55

Schermata 2017-01-24 alle 15.11.43

Ma si sa, i designer esprimono le loro idee, poi sta agli ingegneri farle diventare realtà…

Honda voleva che la sua supercar fosse, come detto, diversa dalle altre, e allora…e allora bisognava fare qualcosa di nuovo, di raro, di particolarmente efficiente ed efficace.

Tutti costruivano, a quel tempo, i telai vettura in acciaio… era un modo sperimentato, efficiente di fare un telaio rigido e stabile, e soprattutto industrialmente economico.

Honda decise che no, l’acciaio non andava bene; troppo pesante. Una vettura che doveva esaltare l’handling, il dialogo continuo tra pilota e mezzo meccanico, doveva essere il più leggera possibile.

La nuova vettura avrebbe avuto il telaio interamente in alluminio !

La decisione creò non pochi grattacapi…non c’erano, a quel tempo, le macchine per costruire quello che Honda voleva costruire, e le competenze in merito erano soprattutto quelle in campo aeronautico; e Honda, al contrario per esempio di Mitsubishi o Kawasaki, non aveva mai costruito aerei.

Ma un’azienda come Honda non poteva certo fermarsi di fronte a certi ”dettagli”… l’alluminio richiedeva saldature speciali ? Si sarebbero costruite macchine speciali per costruire un’auto speciale, e addirittura…una nuova fabbrica, speciale anch’essa, sarebbe stata costruita appositamente per costruire e assemblare questa nuova meraviglia !

Le migliori maestranze vennero selezionate e addestrate per la costruzione di quella che doveva essere la prova al mondo che Honda non faceva solo buone berline per famiglia…persino la catena di montaggio fu rivoluzionata: gli addetti non operavano uno dopo l’altro in sequenza, ma in apposite isole nelle quali ogni vettura veniva assemblata su una specie di gigantesco “piatto rotante” con la partecipazione di diversi specialisti contemporaneamente. Ogni telaio era assemblato a mano per quanto era possibile, riservando alle macchine – allora ancora non c’erano i robot – solo le operazioni più pesanti.

Nacque così quello che sarebbe diventato il primo telaio monoscocca in alluminio (prima grande differenza con la Ferrari 348 di cui sopra, che usava uno scatolato in acciaio più dei sottotelai in tubi) per una vettura a larga diffusione.

Dopo alcuni mesi i progettisti erano soddisfatti: il loro telaio monoscocca in alluminio era pronto. Le prove al banco dicevano che la rigidità non era inferiore a quella di un equivalente telaio in acciaio, ma il peso era il 40% in meno !

In effetti, il risultato era eclatante: il telaio nudo pesava 205 kg. soltanto. Vestito da una carrozzeria anch’essa completamente in alluminio, con un CX di 0,32 (risultato record per i tempi), dava origine ad una vettura dalla linea eccezionale.

Nel frattempo il reparto ricerca e sviluppo meccanica aveva esaminato varie opzioni per il motore: V6 aspirato, V6 turbo, V8. Quest’ultimo fu scartato per il peso eccessivo – il goal era di avere una distribuzione di pesi di 42%-58% tra anteriore e posteriore, la stessa della vettura McLaren Honda di F1  – il turbo per il suo allora inevitabile problema di lag…alla fine venne scelto il V6 aspirato di 3 litri, che nella configurazione VTEC – altra invenzione Honda, che consente di avere quasi due motori in uno, variando il tempo e l’alzata delle cammes che comandano le valvole – poteva garantire una potenza notevole per quei tempi, pari a 270cv (90cv/litro), a 8.000 giri.

Altra sostanziale differenza con la 348 che, come sappiamo, monta un V8 3,5 litri da 300 cv.

(Piccolo inciso su Ferrari…già nel lontano 1955 il mai dimenticato Dino Ferrari raccomandava al padre lo studio di un motore plurifrazionato e addirittura dell’iniezione diretta, all’inseguimento del traguardo dei 100cv/litro…traguardo che i motori Honda raggiungeranno nel 1991 con la nascita del 4 cilindri denominato B16A2, installato su una specifica versione della Civic, la CR-X).

Alcuni esemplari di prova vennero assemblati e messi nelle mani dei collaudatori Honda, provati su vari circuiti privati – tra cui ovviamente Suzuka – e ogni volta le risposte erano entusiaste.

Handling meraviglioso, abitacolo comodo e avvolgente, motore eccellente…tutti i confort – aria condizionata, stereo, vetri elettrici – che non sempre si trovavano sulle equivalenti supercar dell’epoca.

Eravamo ormai arrivati al 1989, più o meno a Febbraio. Gli ingegneri della Honda erano convinti di aver raggiunto il loro obbiettivo…

In quei giorni A. Senna, che allora guidava la McLaren motorizza appunto Honda, era sul circuito di Suzuka le prove della nuova F1; quale migliore occasione per i tecnici giapponesi per avere un parere qualificato, una conferma sulla loro nuova creatura ?

Senna si prestò molto volentieri, ma…l’entusiasmo dei tecnici Honda si spense di colpo quando Ayrton, scendendo dalla vettura dopo un paio di giri sul perfido circuito di Sukuka, li gelò dicendo loro, letteralmente: “io non so se sono il più adatto a valutare una vettura per il mercato di massa, ma per me questa vettura non è abbastanza rigida” !

Conoscendo la natura dei giap e certe loro abitudini, non si può escludere che ci siano stati alcuni “seppuku” tra i piloti collaudatori che si erano alternati allo sviluppo della vettura…fatto sta che i tecnici giapponesi si rimisero al lavoro, alcuni esemplari furono spediti in segreto in Europa e ripetutamente testati al Nurburgring – benedetto ‘Ring, se non ci fossi stato tu le supercar dove sarebbero potute nascere ? – e il loro meraviglioso telaio in alluminio nel giro di ulteriori 6 mesi fu completamente rivisitato, riportando un incremento di rigidità di quasi il 50% !

La vettura era finalmente pronta a sfidare le sue pari livello di tutto il mondo occidentale. Prima vettura giapponese a sfidare le varie Ferrari, Porsche, Jaguar, Lotus…e senza alcuna soggezione né complesso di inferiorità !

Ormai, dopo quasi 5 anni dall’inizio del progetto voluto da Soichiro Honda, le prime 300 vetture erano pronte ad essere esportate negli USA, primo mercato in cui si sarebbe misurato il livello di tecnologia davvero raggiungibile da Honda in un’auto “per tutti”; il momento era topico…la vettura sarebbe stata distribuita con il marchio di elite di Honda, Acura, con il nome di Acura NS-X.

Soichiro Honda era universalmente noto per la sua tenacia e per la sua ossessiva ricerca della perfezione; il suo credo era un concetto che diceva più o meno così: “un nostro cliente comprerà una nostra vettura; se la troverà difettosa sarà autorizzato a pensare che tutte lo siano. Quindi dobbiamo far si che ogni vettura sia perfetta”.

E anche stavolta, al momento di deliberare l’invio delle vetture ai concessionari USA, la sua mania della perfezione colpisce: il signor Honda si accorge che lo stemma Acura applicato sul muso della vettura non è perfetto…e questo non è accettabile.

La spedizione viene fermata, rinviata di una settimana; i trecento stemmi vengono sostituiti con altrettanti – stavolta adeguati – e viene dato ordine di distruggere quelli sbagliati !

Le 300 vetture arrivano finalmente negli USA ed i concessionari le accolgono con entusiasmo; insieme alle vetture Honda offriva un corso di guida e di “conoscenza” con la vettura della durata di due giorni, così che i proprietari di questo meraviglioso giocattolo potessero apprezzarne al meglio le capacità, all’occorrenza anche parlando con alcuni progettisti che avevano seguito i primi esemplari negli USA proprio per rispondere alle domande e avere le prime impressioni dagli utenti.

Era nata una nuova supercar.

N(ew) S(portscar) for X (unknown word)

Honda NS-X

P.S. Tanti spot parlano di auto, ma io uno così bello non l’ho ancora ritrovato…

https://www.youtube.com/watch?v=53c6o_cNPEo

Riccardo

Peter Collins, il destino di un cavaliere

“Eravamo tutti coscienti il giovedì, quando andavamo via da casa, che forse non saremmo rientrati la domenica, lo sapevano anche le nostre famiglie. Eravamo pazzi, eravamo piloti del Gran Premio, erano una posizione e un privilegio unici”. Lo disse l’ex ferrarista Patrick Tambay alcuni anni dopo la fine della propria carriera, con i capelli grigi e la consapevolezza di avercela fatta, di aver sconfitto il nemico più insidioso. Il francese non era pazzo, come tanti suoi colleghi era animato da una passione che lo spingeva ogni volta a mettersi al volante con la consapevolezza del fatto che la morte facesse parte del gioco, un pensiero che per molti oggi potrebbe apparire folle ma che per loro non lo era affatto e ancora meno lo era per i Cavalieri del rischio che negli anni cinquanta scrissero i primi capitoli della storia della Formula 1, lasciando ai posteri pagine in bianco e nero di racconti e aneddoti indimenticabili.

Capelli biondi, sorriso da copertina patinata, sposato con l’attrice Louise King: potrebbe sembrare l’introduzione per un divo di Hollywood, ma a Peter John Collins piacevano le macchine da corsa e il suo mestiere era quello del pilota: nato a Kidderminster nel 1931, suo padre possedeva una società di trasporti e un garage, aspetti che probabilmente favorirono la sua conoscenza delle auto, che presto divennero una grande passione per il giovane Peter, capace di guadagnarsi un test drive a Silverstone che gli fruttò un contratto sia con Aston Martin che con HWM. Mentre in Formula 1 la sua carriera stentava a decollare, in altre competizioni riuscì a far emergere il proprio talento, al punto da convincere un pilota del calibro di Stirling Moss ad ingaggiarlo per la Targa Florio del 1955, competizione che tra l’altro i due si aggiudicarono. Nel 1957, anno in cui il compagno di squadra Castellotti perse la vita durante un test, venne affiancato alla Ferrari dall’amico Mike Hawthorn, un altro personaggio dallo stile inconfondibile, con il fare elegante e quel papillon con cui era solito correre; dal 1958, con l’ottima 246 F1, i due potevano pensare seriamente al titolo, da contendere alla Vanwall di Moss e al compagno di squadra Musso. Nel team non c’era una prima guida e nacque un’intensa rivalità sportiva, l’allora fidanzata di Musso dichiarò addirittura che i due inglesi si accordarono per dividersi i premi in caso di vittoria di uno dei due, per motivarsi a stare davanti al pilota italiano.

Luigi Musso era considerato uno dei piloti più promettenti dell’epoca e la sua stagione iniziò nel migliore dei modi, con due secondi posti a Buenos Aires e Montecarlo poi, dopo due gare deludenti, si arrivò a Reims dove purtroppo tuttò ando storto: il pilota italiano partì secondo alle spalle di Hawthorn che prese il largo, il ritmo di gara era tiratissimo, Musso non ne voleva sapere di lasciarlo scappare, ma al decimo giro uscì di strada alla Curva del Calvaire e finì nel fossato, venne trasportato in ospedale con ferite alla testa molto gravi, troppo, per lui purtroppo non ci fu nulla da fare, aveva 34 anni ed era la seconda vittima di quella stagione dopo Pat O’Connor, deceduto a causa di un incidente al via della 500 miglia di Indianapolis, allora in calendario iridato. La gara proseguì e Hawthorn vinse agevolmente compiendo tra l’altro un gesto nobile: poco prima del traguardo raggiunse Fangio ma rallentò e gli consentì di transitare prima di lui per evitargli l’onta del doppiaggio, una mossa semplice ma dal grande significato, anche perché per l’asso argentino fu l’ultima presenza: a fine gara infatti tornò ai box, guardo i suoi meccanici e disse semplicemente “è finita”. A quasi 50 anni e con cinque mondiali in tasca decise che ne aveva abbastanza.

Il gesto di rispetto dell’elegante pilota inglese nei confronti di Fangio a Reims esemplifica quanto fossero “umani” i romantici condottieri degli anni cinquanta, e a rendere ancor più l’idea di questo aspetto è un fatto accaduto proprio all’amico di Mike, ovvero Peter Collins, motivo per cui è necessario tornare al 1956. In quella stagione la Ferrari schierò la D50, vettura progettata dalla Lancia, la quale si ritirò dal mondiale e cedette tutto alla casa del Cavallino in seguito alla tragica scomparsa di Alberto Ascari, avvenuta l’anno precedente a Monza mentre il pilota era intento a provare una vettura Sport. I piloti di punta di Maranello per quella stagione sarebbero stati Luigi Musso, proveniente dalla Maserati, Eugenio Castellotti, il grande Juan Manuel Fangio e il giovane Collins, “fiutato” da Enzo Ferrari nonostante fino a quel momento non avesse ancora ottenuto punti iridati. Il Drake voleva in squadra un campione di razza ma non amava Fangio, che in un’epoca dove una stretta di mano valeva più di contratto era invece molto preparato e attento politicamente, tanto abile in pista quanto nella scelta della vettura e del contratto migliori, al punto da riuscire a strappare ad Enzo Ferrari condizioni fino ad allora mai prese in considerazione. Ben diverso il rapporto del Grande Vecchio con l’inglese Collins, cui venne addirittura regalata una bellissima 250GT; ora che correva per Maranello avrebbe dovuto mettere da parte la Lancia Flaminia con cui era solito circolare.

Il mondiale prese il via e in Argentina furono Fangio e Musso a vincere, dividendosi auto e punteggio (all’epoca il regolamento lo permetteva), situazione analoga a quella di Montecarlo dove a condividere il secondo posto alle spalle di Stirling Moss furono Fangio e Collins, che presto diventarono inaspettatamente rivali in quanto l’inglese, dopo la 500 miglia di Indianapolis, calò un bis di vittorie a Spa e Reims, cui l’argentino rispose con i successi a Silverstone e al Nurburgring; si arrivò quindi all’ultima gara, da disputarsi a Monza, con entrambi i piloti in lizza per il titolo e con un terzo incomodo molto pericoloso: Stirling Moss. Iniziò il Gran Premio: sul velocissimo circuito brianzolo, che all’epoca comprendeva sia il tracciato classico che l’anello ad alta velocità, si viaggiava ad oltre 200Km/h orari e causa la tenuta precaria di gomme e vetture non mancarono soste ai box e uscite di strada: Musso e Castellotti tentarono di prendere il largo, poi fu Fangio a passare in testa, ma prima venne superato da Moss e infine fu costretto a fermarsi per noie allo sterzo; con un pretesto venne richiamato ai box Musso per cedere la vettura all’argentino, ma il pilota italiano ripartì subito senza ubbidire alle direttive del team. Peter Collins era ancora in pista e con Fangio fuori dai giochi aveva concrete possibilità di conquistare il titolo, ma ad un certo punto rientrò ai box, scese dall’auto e fece cenno di salire al compagno di squadra, che partì immediatamente lanciandosi con successo all’inseguimento di quel titolo mondiale che sembrava ormai essergli sfuggito, una situazione ideale anche per Enzo Ferrari che dimostrò ancora una volta al suo pilota che la vittoria del campionato arrivò soprattutto grazie alla propria squadra.

A proposito si aprì un dibattito: alcuni nello staff di Maranello dissero in seguito che fosse stato Enzo Ferrari dietro le quinte ad organizzare e gestire la situazione, mentre il manager di Fangio sostenne invece di aver fermato personalmente Collins e che questi accettò l’ordine. La versione “ufficiale” rimase comunque quella dei piloti: Fangio, sempre riconoscente per il gesto del giovane amico, ammise con sincerità che a parti invertite nulla al mondo sarebbe riuscito a toglierlo dalla propria auto per lasciarla ad un collega,  Collins dichiarò invece di aver preso quella decisione serenamente: disse semplicemente a Fangio,  “Guarda, è più giusto che sia tu a vincere questo mondiale, io sono giovane e avrò altre occasioni”. Purtroppo non andò così.

Collins correva anche fuori dalle piste: amante delle donne e della bella vita, conobbe l’attrice Louise King e se ne innamorò a prima vista, due giorni dopo il primo appuntamento la portò in un Hotel a Miami e le chiese la mano, con celebrazione avvenuta una settimana più tardi tra lo stupore di famiglie e amici. In quel periodo stava spostando la propria attenzione anche su altri aspetti esterni alle corse, come il progetto di una nuova casa e alcuni investimenti tra i quali l’ambizione di aprire una concessionaria Ferrari insieme al padre, traslocò inoltre da Maranello andando a vivere con la moglie di uno yacht a Montecarlo, scelta che il Drake non apprezzò. La carriera di Collins proseguì con un deludente 1957 mentre Fangio passò in Maserati e, ironia della sorte, vinse il suo quinto e ultimo titolo mondiale, contrariamente alle previsioni dell’ex compagno di squadra, nonostante l’età ebbe un’ultima occasione iridata.

Torniamo al 1958: superato lo shock per la scomparsa di Musso, Collins non poteva certo dirsi soddisfatto del proprio rendimento fino a quel punto della stagione, con un solo podio e qualche ritiro di troppo, mentre Hawthorn sembrava involarsi sempre più deciso verso l’iride. Nel gran premio di casa fu però Collins a imporsi con un netto vantaggio sul compagno di squadra, anche se la classifica vedeva i due distaccati di 16 punti con sole quattro gare da disputare, quattro battaglie da vincere a partire dal primo scontro diretto: la temibile Nordschleife, più di nove minuti di curve e cambi di pendenza tra prati, colline e alberi, un inferno verde. Il 3 agosto del 1958 Collins partì quarto e si lanciò come una furia all’inseguimento del leader Brooks, ma nel corso del decimo giro uscì di pista a Pflanzgarten davanti agli occhi di Hawthorn schiantandosi contro un albero; morì poco dopo, a 27 anni, durante il trasporto in ospedale. Mike Hawthorn rimase sconvolto, tanto che subito dopo aver vinto il titolo mondiale annunciò il proprio ritiro dalle corse, in una stagione maledetta che pagò un ultimo tributo di sangue con la scomparsa di Lewis Evans nella prova conclusiva disputata in Marocco. Hawthorn era atteso a sua volta da un tragico destino: morì pochi mesi più tardi in un incidente automobilistico. Alcune fonti parlano di un sorpasso finito male mentre era intento a sfidarsi in strada con Rob Walker, signore del Whisky, e anche se le indagini non chiarirono definitivamente l’accaduto la versione è accettata e tramandata da tutti, forse perché rende l’idea di Hawthorn scomparso mentre faceva ciò che amava, correre in macchina, proprio come Collins.

Quel titolo regalato Collins non riuscì mai a conquistarlo, ma il suo gesto è di quelli che eccitano la fantasia popolare e vengono tramandati come un poema epico, si tratta di un episodio più unico che raro di sportività, amicizia e generosità, ma ai fan della Formula 1 non piacciono solo i bravi, amano tutte le storie che da sempre riguardano i propri beniamini: i sogni infranti di chi ha perso la vita inseguendo un sogno, il coraggio di chi torna in pista quaranta giorni dopo un rogo terribile e poche settimane più tardi ammette di avere paura sotto un diluvio ai piedi del monte Fuji, la passione di chi è disposto a correre su tre ruote tentando di vincere un Gran Premio, quella di chi sviene spingendo una macchina, fino a quelli che pur di surclassare un rivale o un compagno di squadra odiato, temuto e rispettato, hanno spinto sull’acceleratore fino ad accompagnarlo nella sabbia o contro un muretto.

Forse Tambay aveva ragione, erano pazzi,  ma è proprio quella pazzia radicata nel dna dei Cavalieri del rischio ad aver reso la Formula 1 uno sport così popolare e c’è un fattore indispensabile che la F1 2.0 ossessionata dallo share e dallo show ha completamente dimenticato, ciò che nel bene e nel male, con pregi e difetti, entusiasmava davvero i tifosi del Circus dei Gran Premi: l’uomo.

Mister Brown

Chissà cosa avrebbe pensato Mario Poltronieri delle coppie piloti 2017

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Mario Poltronieri ci ha lasciato. Per la quasi totalità di noi è stato la prima voce che abbiamo sentito commentare un GP in televisione. La voce dell’era dei Cavalieri del Rischio che ha commentato tutti i GP corsi da Gilles dal primo all’ultimo: tanta ma tanta roba davvero. Il magone che ci attanaglia per la sua scomparsa è quello che rappresenta la scomparsa di un’era che non c’è più e, cosa peggiore, mai più tornerà. Addio Mario, lassù con Gilles, Ayrton e Stefan avrai di che tenerti occupato.

Veniamo ora a note talmente più leggere da sembrare in confronto inconsistenti. Con l’annuncio a sorpresa (sic) di Bottas in MB i tasselli per il 2017 sono andati tutti a posto o quasi. Vediamo come:

MERCEDES AMG PETRONAS F1 TEAM

Lewis Hamilton & Valtteri Bottas

La sensazione netta è che il Nero potrà farsi tutti i weekend romantici che vuole con Justin Bieber nel 2017 e vincere comunque il Mondiale prima della pausa estiva o giù di lì. Bottas non è un fermo (se mai ne esistano ancora in F1 NDR) ma nemmeno uno nella categoria di Nico Rosberg, ossia qualcuno sottovalutato dal suddetto Nero nel 2016 con gli splendidi risultati che ancora rammentiamo. Ergo tutto l’Instagram di questo mondo non potrà sottrarre a LH44 un’imbarazzante indigestione di pole e vittorie.

REDBULL RACING

Daniel Ricciardo & Max Verstappen

A parere di chi scrive di gran lunga la coppia più forte ai nastri di partenza del Mondiale 2017. Ad occhio e croce a Milton Keynes se si mangiano le unghie dall’ansia non è per la nota modifica coatta alla sospensione anteriore ma piuttosto per la Power Unit Renault (TAG HEUER, vabbè, tanto contrariamente ai piani iniziali uguale al Renault era e resta……..) rifatta da 0 durante l’inverno. Tant’è che fanno dichiarazioni prudenziali circa la loro competitività all’inizio, c’è caso che ciurlino nel manico ma meglio così che il tristemente noto ormai “a Melbourne andiamo a comandare” col quale un’altra scuderia a caso approcciò l’inizio della stagione 2016. Il che ci porta a……..

SCUDERIA FERRARI

Sebastian Vettel & Kimi Raikkonen

Al terzo anno assieme i due hanno sicuramente un buon amalgama. Chi scrive ritiene abbastanza sterile la solfa “non sono i piloti il problema della Ferrari” in quanto pensa che la Scuderia dovrebbe schierare la miglior coppia di piloti possibile e che quella attuale non lo sia affatto. Vettel va a scadenza a fine 2017, l’augurio è che rinnovi e che accanto gli mettano qualcuno con il suo stesso killer instinct. Ovviamente non accadrà, più probabile che la Ferrari nel disperato tentativo di scimmiottare l’era Schumacher gli metta accanto un altra vittima sacrificale. Escludo che Vettel cambi aria per il semplice motivo che basta vinca una gara prima dell’estate e rinnoverà il contratto per altri 2 anni. Garantito

SAHARA FORCE INDIA F1 TEAM

Sergio Perez & Esteban Ocon

Impossibile cominciare a parlare della coppia piloti 2017 senza fare un sincero applauso al Team per il 2016. Poca spesa tanta resa: macchina e strategie son stati di prim’ordine, per dirla come va detta con un muretto come quello Force India il buon Vettel lo scorso anno Melbourne e Montreal le portava a casa in carrozza. Con Carlos Slim sempre con la margherita in mano (compro/non compro, ma intanto Stroll Sr altrove ha dimostrato ben altra determinazione NDR) il team di fatto è un ottima vetrina (tant’è che Perez è in odore di Ferrari per il 2018) ed Ocon può sicuramente rallegrarsi di aver fatto le scarpe a Wehrlein per il secondo sedile. La coppia di piloti è molto buona e c’è caso che il quasi-debuttante possa già segnare il primo podio in carriera in questo 2017

WILLIAMS MARTINI RACING

Felipe Massa & Lance Stroll

L’esperto ed il debuttante. Ed alle spalle il vento che è decisamente cambiato per il team di Grove: ci sono i molti soldi di Stroll Sr e tutti quelli arrivati per liberare Bottas. Romanticamente parlando sarebbe bello che Massa segnasse una vittoria quest’anno in modo da zittire tutti quelli che han storto il naso quando è stato richiamato in attività fresco di ritiro. Molto difficile accada. Stroll ha vinto in tutte le categorie propedeutiche alle quali ha partecipato sia pure coi noti mezzi alle spalle, è atteso con curiosità al debutto in F1

MCLAREN HONDA

Fernando Alonso & Stoffel Vandoorne

Al netto della partigianeria ferrarista chi scrive è convinto che sia questa la seconda coppia più forte ai nastri di partenza del Mondiale 2017. L’Asturiano vale Hamilton/Vettel ma Vandoorne è un’altra categoria rispetto a Bottas e vale Kimi Raikkonen, quello di 15 anni fa però. Peccato per la quasi certezza di non poter assistere nuovamente ad un altro 2007 visto che è oltremodo probabile che la Mecca Honda 2017 sia da Q3/podio e nulla più. Ma mai dire mai

SCUDERIA TORO ROSSO

Carlos Sainz jr & Daniil Kvyat

Coppia di piloti forte e dall’esperienza in via di consolidamento. Avranno a disposizione una vettura molto più simile a quella della Casa Madre rispetto a quella dello scorso anno e, sia pure trattandosi di Renault, una PU dell’anno corrente anzichè di un anno vecchia. C’è caso si leveranno delle soddisfazioni

HAAS F1 TEAM

Romain Grosjean & Kevin Magnussen

Una coppia di piloti che rischia di finire nel dimenticatoio della F1. Grosjean è stato in odore di Ferrari ad inizio 2016 ma poi non se n’è fatto nulla. Mentre per K-MAG i tempi del podio all’esordio in F1 a Melbourne 2014 sembrano lontanissimi, ma il talento c’è e di sicuro non era la Renault del 2016 il posto dove metterlo in mostra. Chissà

RENAULT SPORT F1 TEAM

Nico Hulkenberg & Jolyon Palmer

La coppia perfetta per il team in questione. Della nebbia in mezzo a dell’altra nebbia. Hulkenberg che ha perso il treno Ferrari per il 2014 e quello MB per il 2016 si ritrova in un team che è un grosso punto interrogativo senza aver mai fatto un podio in 7 anni di F1. Palmer beh, penso l’abbiano tenuto a fini cosmetico/ornamentali. Mah

SAUBER F1 TEAM

Pascal Wehrlein & Marcus Ericsson

Ossia il trombato (da Ocon in Force India e da Bottas in MB) ed il trombante (Nasr ringrazia, e dire che i punti Sauber 2016 furono i suoi). In una squadra guidata da una Team Principal che è una sciagura ambulante (cosa risaputa nell’ambiente) che userà una PU Ferrari del 2016 in un clima al risparmio. Probabile un lento e costante scivolamento verso la decima fila dello schieramento, che peraltro (vedasi sotto) rischia pure di essere l’ultima. Già in trattativa con Honda per una fornitura 2018, probabilmente pensano di pagarla col grasso di Monisha Kaltenborn per farne delle saponette (cit. Fight Club)

MANOR GP F1

Al momento si vocifera di una trattativa di acquisto da parte di KFC che consentirebbe al team di presentarsi al via dopo aver saltato i primi GP. Cosa importante, usando un telaio 2017 anzichè quello 2016 come consentito dalla deroga data dalla FIA a seguito del precipitare della situazione economica ad iscrizione già avvenuta. Probabili Haryanto e King come piloti. Auguri (in ogni senso)

La Redazione

L’arma di una leggenda: la 312 T2

Ci sono auto che rappresentano più di altre un’epoca, per un pilota, per una squadra o per la F1 intera.

Una di queste è rossa, ha due inusuali prese d’aria ai lati dell’abitacolo, fasce tricolori, e un caratteristico cupolino bianco. Ha fatto sognare da bambini tanti di noi, contribuendo a far nascere una passione che ci saremmo portati dietro per tutta la vita.

Signore e signori, ecco a voi la splendida 312 T2, che a partire dal GP di Spagna del 1976 e fino al GP del Brasile 1978 ha collezionato 8 vittorie, la maggior parte delle quali ottenute dal pilota che con essa ha viaggiato dal paradiso all’inferno e ritorno: Niki Lauda.

La storia di questa mitica vettura comincia nel 1975, quando Forghieri progetta la 312 T, monoposto innovativa rispetto alla pur vincente 312 B3 seconda edizione, che riportò in alto la Ferrari dopo anni molto bui, dando la prima vittoria a Niki Lauda e sfiorando il titolo mondiale con il grande Clay Regazzoni, recentemente ricordato su queste pagine. La 312 T era un progetto completamente diverso dalla B3, sia per il ritorno al telaio in tubi, dopo il non felicissimo esperimento della monoscocca fatta costruire in Inghilterra, sia per l’utilizzo del cambio trasversale, che aveva lo scopo di concentrare le masse sospese, dando maggiore equilibrio alla monoposto. All’epoca l’aerodinamica influiva ancora poco sull’assetto, e il bilanciamento veniva ricercato lavorando sulla distribuzione dei pesi e sulla meccanica. Da questo punto di vista, l’altro elemento importante della vettura era il motore boxer, che non era solo più potente rispetto al Cosworth utilizzato da quasi tutti gli avversari, ma consentiva anche di abbassare il baricentro della vettura.

La 312 T si dimostrò da subito una vettura vincente, e consentì a Niki Lauda di vincere il suo primo titolo. Andò in pista anche nella stagione successiva (come usava all’epoca), vincendo le prime 3 gare, ma dal GP di Spagna cambiò il regolamento e vennero abolite le vistose prese d’aria motore che da qualche anno caratterizzavano le vetture di F1. Fu quello il momento di schierare la 312 T2, che ne riprendeva forme e colori ma ovviamente non presentava la presa d’aria dietro l’abitacolo, sostituita in modo molto originale da due grandi prese NACA poste ai lati dell’abitacolo.

In generale, la nuova vettura rappresentava un affinamento del progetto precedente, di cui riprendeva completamente la filosofia. Ma il suo progettista, Mauro Forghieri, non era uno che dormiva sugli allori: sapeva sviluppare le soluzioni vincenti senza rinunciare a provarne di nuove. E, infatti, alla presentazione la T2 sfoggiava anche due copriruota all’anteriore, che in teoria dovevano essere prese d’aria dei freni ma che avevano ovvie funzioni aerodinamiche, e per questo furono vietati.

La T2 continuò la striscia vincente iniziata dalla T. Fino a quando Lauda non fu vittima del terribile incidente al Nurburgring, sul quale tanto è stato detto, scritto e anche rappresentato. Lauda ha sempre sostenuto che a causare l’incidente fu un cedimento della sospensione (teoria ripresa anche nel film di Ron Howard), mentre la Ferrari ha sempre sposato la tesi dell’errore del pilota, con tanto di perizia di un esperto pubblicata sui giornali a dimostrare che la vettura non solo non aveva ceduto, ma era anche dotata di tutti i dispositivi di sicurezza richiesti.

Sicuramente, a partire proprio da questo episodio, la Ferrari fece in modo di perdere quel mondiale praticamente già vinto, preoccupandosi più di sostituire il pilota infortunato che non di salvaguardarne la tranquillità e la leadership in campionato. L’esito di questa strategia lo sappiamo tutti, il mondiale andò ad una vettura e ad un pilota che di sicuro lo meritavano molto meno rispetto a Lauda e alla T2. Ciò detto con il massimo rispetto per James Hunt e per la McLaren M23, che pure era una grande macchina.

La T2 ebbe modo di rifarsi nella stagione successiva, nella quale venne schierata con ulteriori affinamenti fra i quali il più vistoso era sicuramente il rimpicciolimento delle prese NACA anteriori. La concorrenza si era nel frattempo avvicinata molto, con la neonata Wolf vincente al debutto, e la Lotus che schierò la prima wing-car, la 78, la quale soffriva però spesso di problemi di affidabilità.

Affidabilità che invece non mancava alla T2, e che, unita alla superiorità di Lauda come pilota, consentì a lui e alla Ferrari di portare a casa il mondiale, con 3 vittorie all’attivo (all’epoca potevano essere sufficienti). Dopodichè Niki se ne andò anzitempo, stanco di un ambiente che gli sembrava non avere più fiducia in lui. E allettato dai soldi offerti da Ecclestone. Come andò per lui e per la Ferrari nei due anni successivi lo sappiamo tutti.

Per la T2 però la carriera non era finita, e venne ripresentata in pista per le prime due gare della stagione 1978, vincendo la seconda in Brasile, grazie anche alle gomme Michelin che si adattarono benissimo al torrido clima di Rio. In questo modo la T2 vinse sia la sua prima gara che l’ultima, totalizzando 8 vittorie, 6 con Lauda e 2 con Reutemann. Il quale non gradì per nulla il passaggio alla 312 T3, chiedendo insistentemente a Forghieri di ritornare al modello precedente, ovviamente senza successo.

La T2 è stata guidata da Niki Lauda, Clay Regazzoni, Carlos Reutemann e Gilles Villeneuve. 4 piloti mitici, diversissimi fra di loro, che hanno consacrato questa vettura fra le più significative dell’intera storia della Formula 1. Riguardarla oggi nelle videocronache dei GP di 40 anni fa sempre venire tanta nostalgia dei tempi andati, quando un manipolo di persone appassionate e competenti erano in grado di progettare, costruire e gestire in pista vetture destinate a ritagliarsi un posto nella storia, assieme ai piloti che le guidavano.

P.S.
Nel 1977 venne anche provata una versione della T2, denominata T6, con ruote posteriori gemellate modello camion, che non fu mai portata in gara perchè non rispettava le misure della carreggiata imposte dal regolamento.
Circolò pure una foto, divenuta famosa, di una versione con 8 ruote. Si trattava di una bufala mediatica ante-litteram, ma furono in molti a credere che una vettura simile avesse girato a Fiorano.