Nella linea del tempo della storia esiste sempre un “prima” e un “dopo”.
Per la F1 la linea di demarcazione fra il “prima ” e il “dopo” è senza ombra di dubbio il week-end del 1° maggio 1994.
Questo non vuole essere il solito ricordo di coloro che quel giorno caddero, non ne sarei degno, bensì una riflessione su cosa hanno significato quegli sventurati tre giorni trascorsi, ironia della sorte, in una delle zone del mondo dove la passione per i motori raggiunge i suoi massimi.
Il mondo della Formula 1 a quel week-end arrivò ormai disabituato a ciò che fino a non molti anni prima era una eventualità tutt’altro che improbabile: quella di stilare il bollettino di guerra alla domenica pomeriggio. L’abitudine era tale che a rileggere oggi i settimanali specializzati usciti dopo uno dei tanti week-end segnati da tragedie ci si meraviglia di come queste, anziché occupare le prime sei pagine, venissero sovente relegate ad una singola pagina dopo la cronaca della corsa e descritte quasi come un normale episodio di gara.
Ad un certo punto, all’inizio degli anni ’80, una soluzione tecnologica nata per risolvere un problema di prestazione, la cronica torsione dei telai in alluminio sottoposti alle enormi forze generate dalle wing-car, si rivelò, inaspettatamente, molto efficace anche per proteggere il pilota. Quella soluzione era la fibra di carbonio, e dette la dimostrazione della sua forza a Monza nel 1981, quando la McLaren MP4 di Watson si schiantò dopo la seconda di Lesmo dividendosi in due all’altezza del motore, e l’ex-barbuto John ne uscì come se niente fosse.
All’epoca il pilota viaggiava seduto in una vasca che gli copriva sì e no il bacino. La maggior parte degli urti aveva conseguenze poco piacevoli, e un incidente come quello di Watson, con una scocca in alluminio, avrebbe avuto conseguenze ben peggiori. E, invece, niente ferite e niente fuoco, altra costante di quell’epoca.
Da lì a qualche anno tutte le macchine avrebbero utilizzato scocche avvolgenti in fibra di carbonio, e si sarebbe assistito ad urti tremendi dai quali il pilota usciva indenne o quasi. Il numero dei piloti feriti e morti nel periodo fra l’84 e il 93 fu enormemente più basso rispetto a quello del decennio precedente. Da qui la convinzione che, ormai, correre in Formula 1 (ma anche nelle altre categorie “formula”, che avevano adottato le stesse tecnologie) fosse diventato sicuro almeno quanto correre in bicicletta.
Ma era una convinzione frutto di tutto ciò che di tragico si era visto nei decenni precedenti, quando di fatto si correva a 300 e passa all’ora circondati da 4 tubi, 4 lamiere e centinaia di litri di benzina. Almeno ora c’era una scocca avvolgente fatta di un materiale molto robusto, e la benzina era dietro le spalle.
Ma… ma le macchine andavano sempre più veloci, le piste erano sempre quelle, il pilota guidava rannicchiato in uno spazio ridicolmente piccolo e con la testa e le spalle di fuori. Il tutto perché qualcuno aveva capito che stringendo la sezione frontale e alzando il muso si andava più forte. Guardate le macchine del 1994: assomigliano tutte alla Leyton House del 1988. Quel qualcuno era Adrian Newey, il quale aveva pure pensato di mettere i piedi del pilota uno sopra l’altro, per stringere ancora di più il muso. Per fortuna glielo avevano impedito. Ma nessuno aveva pensato di mettere una dimensione minima per gli abitacoli, che, quindi, erano stretti il più possibile e senza alcun tipo di protezione.
In altre parole, la sicurezza del pilota era ancora un “di cui” nell’ambito del pacchetto totale. Non solo per i progettisti, ma anche per la FIA. Nonostante questo, nulla di grave succedeva, quindi tutto ok. Fino a quando alla FIA stessa non venne l’idea di abolire un’altra soluzione che poteva contribuire a rendere quelle macchine un po’ più sicure: le sospensioni attive. E lo fece, ironia della sorte, proprio per ragioni di sicurezza. A qualcuno, in effetti, erano impazzite facendogli rischiare grosso, ma in realtà, proprio grazie ad esse, quelle vetture dall’aerodinamica estremamente sensibile potevano viaggiare ad un’altezza più costante, rimanendo più stabili.
Le macchine che corsero i primi GP del 1994 erano invece estremamente instabili. Compresa la ex astro-Williams, guidata quell’anno da Senna. Che, infatti, si lamentava parecchio di ciò che gli aveva dato il mago Newey. Il quale più tardi ammetterà di avere completamente sbagliato l’auto proprio a causa del cambio regolamentare.
Le piste, dicevamo. E qui arriviamo al tragico week-end di 25 anni fa. Imola era una pista veloce, e aveva (ma ha ancora) delle vie di fuga molto limitate. Qualsiasi problema o errore si paga duramente. E lo pagò, poco, Barrichello il venerdì. Lo pago, duramente, Ratzenberger il sabato. E lo pagò, altrettanto duramente, Senna la domenica.
Per tutti e tre una barriera arrivata troppo in fretta, e niente di niente a tenere ferma e a proteggere la loro testa. A pensarci con le conoscenze di oggi sembra una immensa stupidaggine. Eravamo nel 1994, non nel 1930. Possibile che nessuno si fosse reso conto di quanto vulnerabile fosse un pilota in quelle condizioni? Nessuno che avesse fatto un minimo di analisi dei rischi, prima che gli angeli custodi decidessero di prendersi in massa un week-end di ferie?
Nessuno l’aveva fatta. Punto.
E, infatti, lì finisce il “prima”. E finisce anche un’era, come in tanti hanno titolato il giorno dopo. L’era dei piloti “cavalieri del rischio” e del “motorsport is dangerous”. Quella F1 ha continuato a fare vittime per qualche mese ancora (senza, fortunatamente, risultare fatale) e poi la logica ha preso il sopravvento, probabilmente guidata da esigenze di marketing (le tragedie in diretta non erano più accettabili per gli sponsor) e/o assicurative, col risultato di rendere veramente la F1 uno sport più sicuro del ciclismo. E con lei, a cascata, anche le altre categorie. Tutto questo, ovviamente, se non si corre su ovale e se non si mettono di mezzo errori umani clamorosi e magari evitabilissimi.
Quando critichiamo gli ultimi ritrovati per la sicurezza, come l’Halo, ricordiamoci di cosa successe quel week-end di 25 anni fa. Del quale resta non solo il ricordo di chi non c’è più, campione o ultimo che sia, ma anche ciò che, a seguito di quegli eventi, è stato prodotto in termini di tecnologia e di metodologia per la sicurezza di chi è sulle piste, non solo sulla macchina ma anche fuori.
Pier Alberto
P.S. per chi fosse interessato ad approfondire il tema della sicurezza in F1, anche a seguito di quei tragici eventi, suggerisco la lettura del libro di Sid Watkins “Life at the Limit: Triumph and Tragedy in Formula One”.
Immagine copyright sconosciuto.
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