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GOING NOWHERE FAST EP.2 – LA VITA È L’OMBRA DI UN SOGNO SFUGGENTE

Avete mai pensato “La vita fa schifo” al termine di una brutta giornata? Sappiate che in F1 negli anni Novanta gareggiò l’esatta incarnazione di questo mood. Oggi parlerò di una delle avventure più deliranti visionarie della storia del circus: la storia della Life F1.

Atto I: The feeling begins

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La Life nacque dall’incontro fortuito tra menti visionarie.

Lamberto Leoni era il proprietario di un team di F3000, la First Racing. Data la congiuntura economica e tecnica (abolizione dei motori turbocompressi) favorevole, nel 1988 decise di compiere il grande passo: avrebbe gareggiato nel mondiale di F1.  L’abolizione dei motori turbocompressi da parte della FISA rese più conveniente il processo.

L’idea era di adattare il telaio della March 88B di F3000 (disegnato da un certo Adrian Newey) alle regolazioni della F1. Richard Divila fu il progettista designato. A causa della scarsità di fondi tuttavia emerse in fretta che le possibilità di sviluppo erano minime. Divila intuì la piega che stavano prendendo gli eventi e decise di salvarsi: “Leoni era un temerario. Ma non aveva soldi per pagarmi, pagare i fornitori…Non ne aveva per nessuno. Così ho deciso di passare alla Ligier, che si offrì al tempo. Ho visto che nella F189 c’erano problemi da sistemare, ma senza soldi sarebbe stato impossibile, ed io non volevo lavorare in quel modo.”

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Leoni proseguì testardamente e fece rattoppare la scocca con del carbonio. Cambio e motore furono montati assieme alla meno peggio, le sospensioni assemblate e montate fuori dai mounting point prestabiliti ed il “manichino” fu pronto, dotato dello stesso V8 Judd montato dalla March 88B. Gianni Marelli (ex Autodelta, Ferrari e Zakspeed) fu infine chiamato a rendere la macchina presentabile per il Motor Show di Bologna.

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Gareggiando al MotorShow, Gabriele Tarquini (pilota per la FIRST in F3000) sbatté contro il muro, piegando la sospensione e chiudendo il primo atto della neonata First F189.  Il vero colpo di scena si ebbe quando le telecamere della kermesse bolognese inquadrarono Richard Divila, intento ad osservare la vettura esanime, ferma a bordo del mini-circuito della fiera: notò che il cambio era inserito male, vi erano dei difetti nei punti d’aggancio delle sospensioni, il piantone dello sterzo era decisamente poco sicuro etc. Il progettista non fu tenero con la sua creatura: la definì “bomba a orologeria” e “trappola mortale”, preconizzò che non avrebbe mai passato i crash test, avvertì Tarquini della situazione e più tardi intraprese un’azione legale per rimuovere il suo nome dal progetto.  Non è un buon inizio.

E continuò peggio. Come prevedibile, la vettura non passò i crash test imposti per partecipare al campionato; Gabriele Tarquini, giustamente terrorizzato, si rifiutò di guidare; il team non aveva i soldi per ridisegnare il telaio. L’avventura della FIRST fallì ancor prima di iniziare. Ma la loro storia continuò.

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Negli anni Ottanta in F1 per vincere dovevi montare un motore turbo. Almeno fino a quando non vennero bannati, nel 1988. Questa norma scoperchiò un piccolo vaso di Pandora: nel 1989 i team, incerti sulla migliore soluzione tecnica, sfoderarono una vasta gamma di soluzioni tecniche, che andava dai leggeri V8 ai potenti e assetati V12.

Franco Rocchi in passato era stato uno storico motorista della Ferrari (considerato il padre del V12 iridato con Lauda e Sheckter), ma per motivi di salute dovette lasciare le competizioni al termine del ’74. Nel corso degli anni continuò a progettare motori da indipendente. Rocchi captò il clima effervescente di fine anni Ottanta e capì che era giunto il momento di realizzare il suo sogno nel cassetto: un motore W a 12 cilindri, quattro per bancata. L’architettura era particolarmente originale (soprattutto nel motorsport) anche se non nuova, in quanto già applicata in campo aeronautica. Questa disposizione innovativa in teoria avrebbe garantito la potenza di un classico V12 con gli ingombri longitudinali di un V8 (a prezzo di un’altezza maggiore). Il progetto c’era, Rocchi avrebbe dovuto solo trovare un investitore pronto a scommettere sulla sua tecnologia.

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Ernesto Vita era un imprenditore che rimase folgorato dall’idea del connazionale. Il piano era semplice: acquistare i diritti del W12, vendere il motore ai team di F1 confidando che gli acquirenti sperimentassero un’epifania simile alla sua, incassare. L’unico ostacolo che si frappose tra Vita e il suo obiettivo era il fatto che tutti rifiutarono i suoi W12. Apparentemente nessuna squadra voleva mettersi nelle mani di un imprenditore sconosciuto, senza esperienza sportiva, senza mezzi finanziari significativi, senza risorse tecniche di nessun tipo. Anche i team che ritorneranno in questa rubrica, come Coloni, AGS e EuroBrun, declinarono.

Vita, che aveva già speso una quantità considerevole di denaro, si trovò di fronte a un bivio: accettare la sconfitta, sbolognare i diritti di questo motore che neanche i team più scalcinati volevano e riciclarsi in un business più redditizio. Oppure spendere ancora di più, crearsi un proprio team di F1, provare al mondo intero che aveva ragione performando brillantemente nel 1990 e assicurarsi un contratto di fornitura con una scuderia vera nel 1991. Contrariamente a ogni logica Vita scelse la seconda.

Atto II: Before Night Falls

 

Una macchina tuttavia non è fatta di solo motore. Il problema fu risolto in fretta: Vita acquistò la fallimentare FIRST F189 (intendo letteralmente LA First: la loro unica vettura, tanto che aveva ancora la sospensione malconcia dell’incidente al motorshow) e fondò il team Life, motorizzato dalla Life Racing Engines, la cui sede sarebbe stata a Formigine, vicino Maranello.

Ricapitolando: un team di F1 fondato solo con l’idea di fare soldi grazie a un motore ingarbugliato a livelli comici montato su un telaio che per ammissione del suo stesso progettista poteva rivelarsi una trappola mortale. Andrà tutto bene…

La Life iniziò la sua avventura con pochissime parti di ricambio, 2 soli motori e delle modifiche da effettuare sulla vecchia F189. La monoposto infatti, per consentire l’installazione del nuovo propulsore (mai testato fino ad ora), dovette subire un grande rigonfiamento a causa della maggiore larghezza ed altezza del W12 rispetto al Judd V8 per cui fu pensata inizialmente. Per ragioni totalmente ignote a chi scrive, questa volta la macchina passò i crash test. Divila, mai tenero con la sua creazione, la definì stavolta “un’interessante fioriera”.

Sotto il profilo estetico la macchina si presentava bene: l’auto presentava due prese d’aria ai lati delle spalle del pilota (in stile Benetton), muso e pance strettissimi in ossequi ai principi aerodinamici in voga all’epoca ed era gradevole alla vista, seppur sia quest’ultimo un dettaglio del tutto ininfluente dal punto di vista prestazionale. Dato inoltre il colore rosso, da ferma e da lontano poteva ricordare la Ferrari dell’epoca. Il solo pilota designato era Gary Brabham, figlio del celebre Jack e campione di F3000 britannica.  Aveva anche uno sponsor: la PIC, una misconosciuta azienda bellica sovietica che, stando a Vita, era in affari con lui per convertirsi a produzioni civili e collaborare allo sviluppo della scuderia. Poteva andar peggio. La Life era pronta a gareggiare.

Circa.

Atto III: Passion

La griglia di partenza poteva infatti contenere solo 26 macchine, a fronte di 35 entranti, pertanto la FIA decise di recuperare la tortura delle Pre Qualifiche. Il Venerdì mattina alle 6 i nuovi team e i peggiori dell’annata precedente si sarebbero battuti per ottenere la possibilità di partecipare alle qualifiche. I migliori 4 passavano alla fase di qualifiche vera e propria, che ne avrebbe eliminate altre quattro. Nota: all’epoca non c’era la regola del 107%. Non importa quanto lento fossi, se risultavi più veloce degli altri eri ammesso alla gara.

Le prequalifiche sarebbero state una cartina al tornasole per verificare la competitività della macchina nei confronti degli avversari diretti – Coloni, Osella, EuroBrun etc. Fu positivo il fatto che la macchina riuscì a mettersi in moto e a uscire dalla pitlane. Il tempo da battere era il 1:33:331 della Larrousse di Aguri Suzuki. Quando Brabham uscì dall’ultima curva e prese la bandiera a scacchi, apparve chiaro quanto TUTTO fosse terribilmente inadeguato – il motore, la macchina, il team.

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  1. BRABHAM – 2:07.147

Esatto: la macchina è risultata ben 34 (!!!!!) secondi più lenta anche solo della soglia limite per superare le PreQualifiche, e di 30 secondi più lenta della già disastrosa EuroBrun. Per dare l’idea, è la differenza che intercorre tra una LMP1 e una GTPro, oppure il doppio della distanza media tra il poleman del 2020 e l’ultimo qualificato del 1990. Lascio la parola al collaudatore della Life Franco Scapini per la descrizione dei difetti del progetto: ”In sintesi, il problema della Life fu principalmente il motore, che aveva problemi di sviluppo a causa dei risicati mezzi economici a disposizione. Si rompeva sempre una delle bielle laterali per via delle vibrazioni che facevano “ruotare” le bronzine tanto da arrivare a tappare i fori di lubrificazione sul collegamento con l’albero motore. Quindi, per cercare di non rompere, bisognava impostare un regime di rotazione di 10.000 giri/min massimo, in luogo dei dovuti 12.500 con relativa perdita di potenza.

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Il motore oltre a essere sovrappeso era enormemente meno potente degli avversari: il V10 Honda che vinse il campionato era in grado di sviluppare circa 700 cavalli, mentre il Life W12 aveva 400 cavalli come picco, il che significa che correva con 380 cv per non farlo fondere dopo due giri (altro che “Gp2 engine”: almeno il motore delle F3000 dell’epoca produceva 450 cv). Questo dato fu evidente anche nelle speed trap: la velocità massima che la Life toccò nel weekend australiano fu di 185 km/h, mentre la top speed fu di 271 km/h. Lo chassis non era comunque tanto migliore, mancavano i pezzi di ricambio e l’equipe era motivata come l’esercito francese alla fine della Campagna di Russia. Il weekend era finito ancor prima di cominciare, la macchina era a 40 secondi dal poleman, il motore non era in grado di compiere 5 giri prima di fondere. Al confronto della Life la Forti o la Lola MasterCard erano la Mercedes del 2014. La cattiva notizia? Fu il weekend migliore della stagione.

1990 Brazilian Grand Prix.
Interlagos, Sao Paulo, Brazil.
23-25 March 1990.
Gary Brabham (Life 190). He failed to pre-qualify.
Ref-90 BRA 13.
World Copyright – LAT Photographic

Nel secondo appuntamento in Brasile Brabham non riuscì neanche a completare un giro nelle prequalifiche a causa dei problemi di lubrificazione già descritti sopra. La Life non era il buffone di corte, era l’intero circo. Gary Brabham, che si aspettava un livello di competitività diverso dal “non esistente”, scappò dopo la trasferta sudamericana. L’ostruzionismo della FIA nei confronti della Life (Gary Brabham era un nome “importante”) significò che il collaudatore Franco Scapini ottenne la Superlicenza solo la mattina delle Prequalifiche; la Life nel frattempo aveva già messo sotto contratto Bruno Giacomelli (che non toccava una F1 dal 1983).

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A Imola andò in onda una delle qualifiche più divertenti della storia della F1. Ayrton Senna con la Mclaren-Honda segnò la pole con 1:23:220. Il miglior giro di Giacomelli fu un incredibile 7:16:212 (!!!!!). Yep, sei minuti off the pace. Conti alla mano, emerge una media oraria di 41 km/h. Seriamente con una Panda si avrebbe fatto di meglio, e forse ci sarebbe riuscito anche un ciclista professionista. Ok, sarà stato il risultato di un problema tecnico, però è un buon esempio di come tutto quello che combinasse la Life riuscisse a essere tragedia e farsa in contemporanea.

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Come ovvio dalle premesse, la macchina non avrà mai la sensazione di una speranza di una possibilità di buttare un occhio a passare le prequalifiche: 14s più lenti del penultimo a Montecarlo (più lenti di tutte le F3000), 20s in Canada, 14 a Silverstone, 22 ad Hockenheim e 27 a Monza. La Nissan a trazione anteriore della Le Mans 2015 al confronto fu un successo travolgente.

Atto IV: The Promise Of Shadows

A questo punto si vide Ecclestone andare da Rocchi e Vita per cercare di dissuadere i due a continuare la loro avventura. Ma Vita aveva un asso nella manica: abbandonare il fallimentare W12 (del quale ne aveva le scatole piene pure lui) e montare il classico V8 Judd, lo stesso della concorrenza. Come ormai avrete intuito, il team non riuscì a passare 5 minuti senza coprirsi di ridicolo.

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La cronica assenza di fondi impedì di riprogettare il cofano motore alle nuove esigenze del motore, quindi lo sistemarono a martellate appena prima di far entrare in pista la macchina. Secondo voi come sarà andata a finire? La F190 (nel frattempo rinominata L190) perse il cofano motore in pieno rettilineo, Visto che la Life aveva 1 macchina, 1 motore, 1 di qualunque cosa, il cofano danneggiato significava che il loro weekend, ancora una volta, era terminato ancor prima di iniziare.

In Spagna a Jerez le cose andarono meglio: quantomeno riuscirono a partecipare alle prequalifiche, e stavolta montavano un motore decente. I risultati furono però gli stessi: 18s più lenti del tempo limite delle prequalifiche. Mi affido di nuovo a Scapini: “Anche il telaio era un problema: montato il Judd V8 ex Leyton House che spingeva davvero, la macchina non stava in pista. Inoltre l’abitacolo era strettissimo: io e Giacomelli, rispettivamente 172 cm e 168 cm di altezza, non potevamo avere il sedile perché semplicemente non ci stava. Eravamo seduti sulla scocca e li legati. Anche il cambio, seppure progettato dall’Ing. Salvarani ‘papà’ dei favolosi trasversali delle plurivittoriose Ferrari anni ’70, era durissimo e di difficile manovrabilità”. A questo punto Vita ne aveva avuto abbastanza e terminò l’avventura della Life F1 (che in seguito sarà riesumata in un festival di Goodwood).

Atto V: It Is Accomplished

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L’obiettivo della Life era di promuovere i motori W12 nel tentativo di venderli a un team di F1 la stagione dopo. Se la Life ha mai ottenuto un qualche risultato, è stato proprio l’opposto dell’obiettivo. Le ragioni principali del fallimento della Life possono essere riassunte in quattro punti:

  1. Tutto quanto
  2. Vedi sopra
  3. Vedi punto 2
  4. Quattro

L’unico risultato positivo della storia della Life, meme a parte, fu che non si fece male nessuno; considerando il divario di prestazioni che la rendeva letteralmente una chicane mobile, l’accrocchio infernale che era quel motore e la progettazione criminale della macchina, è comunque qualcosa. Ernesto Vita voleva scrivere la storia; a suo modo ci è riuscito.

[Immagine di copertina tratta da AutoMotorFargio.com]

Lorenzo Giammarini, a.k.a. LG Montoya