LA STATUA

LA STATUA

Una persona incontra il suo destino sulla strada che ha preso per evitarlo – Jean De La Fontaine

L’ho vista, anni fa, fuori dal tempo sportivo, in una giornata di tardo autunno quando il freddo odora già di inverno.

Da solo.

Me lo ricordo ancora quel giorno. Avevo un appuntamento di lavoro poco più in là, a Faenza. Chiacchiere vane con un potenziale cliente che dopo 10 minuti già mi resi conto che di “potenziale” non aveva nulla, figuriamoci del cliente. Cose che capitano nel mio mestiere, cose già viste. Certi (forse più di quanti ci si immagina, temo) imprenditori e manager-con-le-virgolette non li capisco proprio: credono di esser più furbi degli altri, tirando sui prezzi, tirando sul da fare. “perché devo spendere soldi per qualcosa che tanto già so che non mi serve? che tanto la Gina e Dino la fanno benissimo?”. E poi, quando capiscono di aver perso il treno fanno pasticci inenarrabili, in tutta fretta, senza alcuna strategia, facendo compromessi senza senso e così rimangono lì, sospesi tra l’idea (alle volte pure geniale, ci mancherebbe) che li ha portati sin lì e l’incapacità di svilupparla oltre.

Avevo già girato tutto il film nella mia testa e l’avevo proiettato in avanti per ben due anni. Se fosse un film dalla tipica durata di un’ora e mezza allora nei primi 10 minuti vedremmo riunioni, analisi, ancora riunioni, magari un PoC, qualche pranzo di lavoro, di nuovo riunioni e infine proposizione formalizzata del progetto. E i restanti ottanta minuti? Sei mesi di telefonate via via diradantesi, qualche email interlocutoria, sguardi persi nel vuoto. Quindi? Ne avete discusso? Ne avete parlato? Avete bisogno di ulteriori incontri delucidatori? Fino a che il tizio, il “manager”, non avrebbe cominciato a negarsi al telefono, a non rispondere alle email, a farsi di nebbia e così, di riflesso, pure io avrei cominciato a rimandare la telefonata, a rimandare l’email, a spostare la riga in fondo all’excel fino a che, un anno e mezzo o due in avanti, del nome di quell’azienda, non mi sarei più nemmeno ricordato. Dissolvenza. The end e thank you for watching! Niente festival di Cannes o di Venezia, non serve tirare in ballo Coppola o Bertolucci: basta la proiezione al cinema del prete.

(Quindi grazie o “manager”. Grazie per la tua faccia così leggibile, con l’espressione di colui che crede di conoscere le leggi del mondo e NON me ne farà dono. Grazie per avermi fatto risparmiare il tempo necessario a questo racconto)

No, non vale la pena insistere, pensai quindi tra me e me, e contrariamente al mio solito decisi di non realizzare il film e di troncare abbastanza rapidamente l’incontro.

Anche perché l’ideuzza di fermarmi a Imola ce l’avevo già. In quel periodo dell’anno il buio arriva presto e siccome, nonostante il freddo pungente, c’era un bel sole era comunque il momento buono per avvicinare quella statua. Sì, proprio quella. Quella di Ayrton Senna da Silva.

Quanto successe quel giorno, a questo sguardo mnestico, sembra ieri. Era il 28 Novembre 2005. Provo a riviverlo.

La mia Alfa 156 blu scuro metallizzato, quella con il 1.9 JTD che andava come una scheggia ma consumava così poco che nemmeno un lama della Ande, gracchia in modo preoccupante mentre decido se tornare in autostrada o percorrere la via Emilia. Non lo sapevo ma quei sinistri strepiti erano i prodromi della rottura del motore che di lì a qualche mese mi avrebbe forzato la sua sostituzione. Del resto, non avevo molto per cui recriminare: quel povero motore lo sforzavo troppo. Vedere la lancetta del tachimetro oltrepassare i 200 mi procurava ancora una certa emozione (lo so, non dovrei dirlo, lo facevo in relativa sicurezza, in autostrada e quando non c’era traffico, ma tant’è) e appena potevo trasformavo certe strade appenniniche poco battute nel mio personale Rally di Montecarlo. Ma che importa, ora?

Tempo ce n’è. Se evito l’autostrada mi ritrovo l’autodromo subito lì. Vada per la via Emilia. Non sembra più ieri, sembra oggi, sembra adesso.

La bocca è ancora impastata dall’orribile caffè da macchinetta offertomi dal “manager” e il retropensiero che il film che mi ero proiettato sia solo l’esito di un fatalismo imbronciato non vuole mollarmi.

Sono fermo ad un semaforo.

Bah.

Non sono eccitato per nulla per l’incontro con il campione. Già, perché me l’immagino come un incontro, non so perché. A dire il vero non so proprio cosa aspettarmi e sono nervoso. La passione per la Formula 1 è parte di me sin da quando ero “cinno”. Sarà per questo, penso. Cozza assai con le altre, tipo gli scacchi. Si può essere egualmente appassionati dello sport più veloce del mondo e di quello più lento? Formula 1 e Scacchi. Ma va là! Sarà meglio tenermelo per me che poi pensano che sono uno sfigato. I pensieri si accavallano vorticosamente. Provo a ragionare sul campionato concluso da poco. Quello lì, lo spagnolo, è uno tosto, sì, ma se al finlandese gli davano una McLaren più solida… Eh! Ma l’anno prossimo se ne vedranno delle belle. In Ferrari, in questa Ferrari, non sbaglieranno macchina per due stagioni a fila. Vedrai, Schumy, come ritornerà su. Oppure no? Si è smontato? L’asturiano è troppo più giovane, ha 12-13 anni in meno e proprio qui, a Imola, gli ha fatto capire che lui il timore reverenziale non sa nemmeno cosa sia. Oppure… Non è che Schumy si smonta come Kasparov dopo che perse contro Kramnik? Farà ancora qualche vittoria di tappa ma poi basta? No dai, basta che gli dai la macchina e li asfalta tutti come ha sempre fatto. Quello per batterlo lo devi buttar fuori a cannonate, figurati! Boh.

 

Anzi. Bah!

Supero Castel Bolognese, ormai a Imola manca poco. Apro il finestrino, getto una paglia e come sempre mi sento una merda mentre lo faccio. Sono un bell’ipocrita, penso. Tutti sti studi e ricerche, l’inquinamento, il cambiamento climatico, la differenziata fatta in modo maniacale e poi? La paglia fuori dal finestrino?! Ma va là! Mentre ci penso l’aria fredda entra nell’abitacolo. La giornata è bella ma fa un freddo esagerato, pungente oltremisura. La lascio entrare, l’aria fredda, ancora un poco: magari poi, il mood, cambia.

Quanto siamo fragili, penso.

Ma il mood non cambia. Chiudo il finestrino e capisco che oggi non c’è altro spazio che non sia quello per la malinconia. Dicono che la malinconia sia un sentimento dolce. Ma questa dolcezza, man mano che mi avvicino a Imola, io non la sento proprio. E poi così, con questo sole e con questo freddo, è ancora peggio. Sarebbe stata meglio la pioggia. Come quella volta a Montecarlo nell’84, come a Estoril l’anno dopo, come a Donington nel 93. Sì, sarebbe stato meglio. Più adatto all’occasione. Più adatta a lui. Forse con il cielo nero, con le nuvole a incombere in tetro abbraccio sopra la statua, con lacrime di pioggia a rigare le bronzee guance della sua figura allora sì che la malinconia sarebbe stata davvero quella del romanticismo e delle poesie.

for ever panting, and for ever young;                                 

all breathing human passion far above,                             

that leaves a heart high-sorrowful and cloy’d,                

a burning forehead and a parching tongue                     

per sempre anelante e per sempre giovane

superiore ad ogni viva passione umana

che lascia il cuore desolato e nauseato

la fronte in fiamme e la lingua arida.

John Keats, Ode sopra un’urna greca (versi 27-30). Antichi ricordi di scuola. Che lascia il cuore afflitto e nauseato. Sì, dai. Ci sta. E poi anche la lingua arida: sarà ancora quell’orribile caffè? Se prima avevo qualche dubbio su quale sarebbe stato il mood con cui affrontare questo incontro ora me lo sono definitivamente tolto. Bravo John! Che sia malinconia!

Bah!

Arrivo, finalmente. L’autodromo dovrebbe essere subito lì. No. L’entrata al paddock dalla Rivazza è chiusa. Torno indietro e attraverso il Santerno, giro un poco le vie cittadine lì dietro cercando l’accesso principale cui accedevo insieme al resto della fiumana di gente quando arrivavo in treno, anni prima, da ragazzino. Il giorno del Gran Premio di Imola il treno ci eruttava a fiotti in stazione. Un percorso guidato a piedi ci portava dritti al circuito. Tutti insieme. Tutti festanti. Bandiere rosse e gialle che sventolavano, panini pronti nello zaino e lo sguardo attento alla ricerca di un baracchino da cui comprare bibite gustose per accompagnarli. Ricordi? Così, riattraverso il Santerno e in un attimo sono all’ingresso principale, quello dietro al rettilineo. Non c’è nessuno. Poco oltre vedo anche un grosso cancello: è chiuso. E ora? Come si fa? Perché non mi sono informato prima? Credevi di arrivare così, come niente fosse, e girare in circuito sino a raggiungere il monumento? Sciocco! Ritorno indietro. Un veloce ragionamento: lì in mezzo al circuito c’è lo stadio, ci sono i campi da tennis, delle case. In qualche modo ci si arriverà. Scopro che basta proseguire per la stradina dopo il ponte. La strada, con un sottopasso, si infila in mezzo al circuito e mi porta sino all’ingresso del “Parco Acque Minerali”. Ecco. È proprio questo. Parcheggio proprio davanti all’entrata, il cancello è aperto e mi inoltro a piedi in mezzo agli alberi del parco. Non ci vorrà molto, penso.

l’entrata del parco

Non c’è nessuno. Sono le 15, infrasettimanale, ti aspetti un po’ di movimento. Magari dei ragazzi che giocano o che si allenano o una nonnina che passeggia col nipotino, un custode, qualcuno. No, nulla. Aguzzo la vista tra gli alberi e metto in modalità radar le orecchie. Ma non vedo nulla e non sento nulla di particolare, se non qualche vago e lontano rumore di traffico, talmente soffuso da farmi pensare che sia un’illusione uditiva. Sembra quasi che il tempo sia fermo e il freddo continua a pungere. Ecco, non l’ho ancora vista, la statua, ma già sto masticando amaro e qui, da solo e roso da questa rozza malinconia, non riesco proprio a rilassarmi. Nemmeno gli alberi mi addolciscono. Prima di incontrarlo, prima di incontrare lui, mi accorgo di essergli vicino perché nel vialetto del parco che porta al monumento, per terra trovo una sciarpa colorata assai malmessa. La raccolgo e la srotolo riconoscendovi subito il disegno della bandiera della Danimarca. Rossa e attraversata da una croce bianca a bracci lunghi. Che c’entra? C’entra. C’entra tutto.

Eccolo. Ci sono finalmente. Continuo a non vedere nessun altro in giro. Lo sguardo è attirato dalla rete che lo separa dalla pista. È piena di bandiere, vessilli, sciarpe, magliette, fogli scritti fittamente, fotografie e immagini varie, fiori, nastri. Tra le tante bandiere quelle brasiliane la fanno da padrone ma non così tanto come ci si aspetterebbe. Scorgo infatti quelle italiane, quella croata, spagnola, sudafricana, britannica, basca, quella di un paese mediorientale (Siria? Egitto? Giordania? Sono tutte uguali!), quella che mi pare della Tailandia, giapponese, slovena, rumena, marocchina. Lo sguardo si volge alla pista. Mi attacco alla rete e inevitabilmente i miei occhi sono attirati dal tracciato.

Mi rendo conto che il posizionamento del monumento non è casuale. Il ricordo corre a quel 1 Maggio 1994. Per noi appassionati di Formula 1, se l’età lo consente, c’è un prima e un dopo quel 1 Maggio. C’è anche la solita domanda: ma tu dov’eri? Ce lo ricordiamo tutti dov’eravamo quel giorno. Io ero a un pranzo di famiglia. C’erano i nonni materni, ancora sani come pesci. Ricordo secchiate di tagliatelle al ragù, salame all’aglio, quella torta di mele che era un miracolo culinario. Alle 14 il nonno era già spazientito: voleva tornare al centro sociale a curare il suo orto e a giocare a carte. Ma la torta e le rumorose chiacchiere lo tenevano inchiodato alla sedia. Il caffè era ancora da accendere. Mamma e nonna esibivano senza sosta e senza dar segni di cedimento il simpatico e morbido dialetto ereditato dalle generazioni che l’hanno creato, proprio sotto l’argine del Po. Papà le seguiva, certo nella comprensione, più incerto nella dizione. I fratelli scherzavano con l’impazienza del nonno prendendosi gioco delle sue difficoltà a spiegare in italiano e non in dialetto come si gioca a Trionfo e con non poche ragioni, temo, visto che tutt’oggi ignoro le regole di questo gioco di carte tipico della città in cui, infine e per puro caso, mi sono poi ritrovato a vivere. Io ero l’unico con lo sguardo attento sulla TV accesa in un angolo del piccolo ma affollato soggiorno. Ricordo la partenza, l’incidente in griglia che fa uscire quella strana Safety Car. Ricordo la ripartenza qualche minuto dopo e ricordo lo schianto. No. Non è un caso che il monumento sia qui. La Williams, dopo aver sbattuto violentemente sul muro all’esterno della curva detta Tamburello rimbalza più avanti e si ferma proprio qui, appena al di là della rete a cui, ora, sono aggrappato. Il ricordo più agghiacciante, ancora oggi, è quella ripresa dall’elicottero subito dopo lo schianto in cui si intravede il casco giallo fare un piccolo movimento, come se fosse vivo. Poi più nulla. Fermo. Immobile. L’inquadratura stacca. E di lì in avanti lo stillicidio dei soccorsi. Gli altri intorno a me capirono, dalla mia apprensione, che c’era qualcosa che non andava. Qualche replay fece capire la tremenda dinamica. Cus’è nat? Chiede il nonno. Cosa è successo? Senna ha avuto un incidente. Eh! Ma va là! Senna? Ma ‘n l’è brisa lù al più fort? Ma non è lui il più forte? Chiede nonna. Come se il più forte non potesse avere incidenti. Tutti sanno chi è Senna: lui vince le gare, mica fa incidenti. Poi gli altri si alzano, si preparano per uscire. Io no, rimango qui a guardare il gran premio. E per le successive ore rimasi senza parole, come ipnotizzato, incollato alla tv e attaccato ad ogni parola che sentivo proferire sino a che, in un confuso annuncio in diretta dall’ospedale di Bologna, non arrivarono quelle dell’annuncio fatale.

Sospiro, ora.

Distolgo lo sguardo dalla pista. Mi accorgo che proprio ai miei piedi, buttato per terra appena sotto il muretto, c’è un piccolo pupazzetto, di quelli per bambini piccoli. Forse è un personaggio di qualche cartone animato per piccini. Non so. È malconcio, rovinato e leggermente strappato ma non così tanto da lasciar presumere che sia lì da molto tempo. Il bambino che l’ha lasciato qui non poteva aver visto l’incidente. Non poteva aver visto lui: probabilmente non era ancora nato. Non lo conosceva, questo è certo. Quindi? Questo pupazzetto l’avrà perso? O l’avrà lasciato apposta? È il suo piccolo e dolce omaggio a lui? magari spinto a farlo da una malinconica carezza del padre? Forse è passato di qui solo qualche giorno fa. Oppure è stato qualche mese fa, in occasione del Gran Premio. Mi faccio un altro film in testa, con protagonista questo piccolo bambino che sente dal padre narrare le epiche gesta del pilota paulista e se ne va in giro per casa bofonchiando allegramente “BRUM BRUM” mentre fa compiere improbabili acrobazie ad una Lotus 97T in scala 1/43. Ma no, non serve a nulla. Nemmeno questo piccolo ritrovamento mi raddolcisce.

Bah.

Maledetta malinconia arida e nauseante! Maledetto Keats! Altro che dolcezza! Provo a leggere qualcuno dei fogli appesi. “Ci manchi”, “We miss you”. Ce n’è uno, in una custodia di plastica trasparente, con una fitta lettera. È scritto a mano e in portoghese-brasiliano sicché non lo intendo bene. Intuisco però una storia un po’ melensa, piena di “graças a Deus” che risaltano per lo stampatello strillante con cui vengono scritti. Dov’era “Deus” quel 1 Maggio? Rispettava la Festa dei lavoratori? Sorrido con ateistico ghigno, tanto subdolo quanto amaro. Mi soffermo di nuovo sulle bandiere, rimirandone i colori smunti dalle intemperie e poi mi accorgo che è già diversi minuti che sono di fianco a lui ma non l’ho ancora guardato. L’ho visto ma non l’ho guardato. Così, mi volto e cerco il suo sguardo. Devo andargli un poco più sotto. Lui è seduto lì, con lo sguardo abbassato, le gambe penzoloni sopra il blocco di bronzo che lo sostiene. Impreco socchiudendo appena appena le labbra. Perché? Che ti è saltato in mente?! Ma che hai combinato?! Proprio quella volta? Proprio quel giorno? Proprio in quel momento? Doveva essere il pianto per Roland Ratzenberger quello sul podio che ti aspettava e invece? Non ti vergogni?! Tiene lo sguardo basso. Non è stata colpa sua. Lo so. Ma in qualche modo lo incolpo lo stesso. Lo incolpo perché lo sport dev’essere gioia, esaltazione, partecipazione e quando è dolore è solo per la delusione di un mancato successo o persino per l’acredine che sale nel vedere i successi di un odiato rivale. Ma no! Non può essere questo. Non deve essere questo.

Lo guardo meglio. Lo so che non può rispondere. La scultura è eccellente. L’artista ha colto in modo sublime l’essenza del personaggio. Poteva copiarne un momento di esaltazione, le braccia alzate sul podio dopo una vittoria, un momento di guida particolarmente felice. Poteva giocare con il concetto di velocità, di abilità o con quella ossessiva ricerca della perfezione che è, in definitiva, l’essenza più propria della Formula 1 e che lui, lui!, ha incarnato nel modo più esaltante. Poteva fare tutto questo. E invece no. Ha scelto di tratteggiare il suo aspetto più profondo, che è allo stesso tempo personale e universale. L’ha collocato sopra un blocco in cui in basso rilievo si vedono richiami ai grandi piloti del passato e su un altro lato lui che, visto di spalle, entra nel blocco quasi a simboleggiare il suo triste addio e il suo inevitabile accoglimento in mezzo a questo pantheon. Lui è lì sopra, seduto quasi mestamente, con gli occhi bassi. E, con le gambe penzoloni, sta pensando. Così si coglie tanto l’elemento celebrativo, inevitabile per un monumento, quanto il memento mori che traspare inesorabilmente dal sapere chi è stato e come se n’è andato. Questo individuo era fuori da ogni schema e l’artista vi si è adeguato in modo perfetto.

Eri fuori da ogni schema. Com’è che venivi dal Brasile? Quell’altro, il carioca, il tuo nemico giurato, rideva sempre, ogni momento era buono per una battuta, era persino sguaiato. Era tutto quel che ci si aspetterebbe uscire dalle bianche spiagge delle coste oceaniche del Brasile di cui ne incarnava plasticamente ogni visione stereotipica. Tu no. Tu, invece, eri umbratile, teso, nervoso, riflessivo, pensoso, paranoico, rancoroso. Ogni tua parola era pesata, ragionata, dosata e intensa. Da dove sei saltato fuori?

Non ti ho mai visto sorridere.

Non ti ho visto sorridere in occasione del tuo primo podio, a Montecarlo 1984: avevi le tue ragioni, chiaro!, ma suvvia! Il tuo primo podio in Formula 1 santo cielo! Non hai sorriso quando hai vinto la prima, a Estoril l’anno successivo, e anche se lo avessi fatto, là in mezzo a quel diluvio, il tuo viso manco si scorgeva. Non hai sorriso quando dopo aver doppiato tutti ti sei schiantato al Portier, nel 1988, preso, stando alle tue parole, da una improbabile estasi mistica di cui giuravi il vero ogni volta che, poi, ne facevi menzione. Non hai sorriso nessuna delle due volte nell’89 e nel 90 a Suzuka, la seconda nemmeno di sottecchi quando ne avresti avuto ben donde. Non hai sorriso nemmeno per la prima, drammatica, vittoria in Brasile, nel 1991. Come potevi sorridere? Spossato, annientato dalla fatica sopportata per portare a termine il Gran Premio nonostante il cambio distrutto non potevi che mostrarci quel volto sofferente e dolorante mentre tentavi di sollevare quel trofeo tanto agognato. Figuriamoci poi, sulla griglia, quell’infausto 1 Maggio, mentre, col cuore afflitto, ti accertavi che la bandierina austriaca in onore di Roland Ratzenberger fosse ben fissata sotto il sedile. Non sorridevi mai. Perché?

 

A cosa pensavi?

Te lo dico io a cosa pensavi. E poi mi dirai se ho ragione o no. Ogni volta, prima di salire in macchina, guardavi il tuo casco come Ettore guardava il suo elmo prima di lanciarsi nella battaglia. Sapevi, come l’eroe omerico, che ogni volta avrebbe potuto essere l’ultima. Eri, ogni volta, davanti alle porte Scee e prima di allacciarti i guanti gettavi, come Ettore, uno sguardo alla tua Andromaca di turno sapendo avrebbe potuto essere l’ultimo. Non ti chinavi, fatalista com’eri, ma volevi affrontare il tuo destino al meglio delle tue possibilità e anche oltre. Magari, chissà?, per correre via, più veloce che potevi con il recondito ma disperato fine di sfuggirgli. In questo non potevano che esser comprese, è dura averne la consapevolezza, anche tutte le bassezze che servivano, le cattiverie agonistiche, le mosse alla va o la spacca e tutte le scorrettezze di cui eri capace. Ti pesava ma non ti facevi alcuno scrupolo, eh?! Ecco il dolore, ecco la sofferenza, ecco quello sguardo corrusco, lemma dall’ingannevole onomatopea, con cui ogni volta trafiggevi tanto la linea del traguardo quanto l’orizzonte pronto a imbrunire. Perché nessuno, se il mio punto fatal non giunse ancora, spingerommi a Pluton: ma nullo al mondo, sia vil sia forte, si sottragge al fato. (Omero, Iliade, canto VI, 645-648, traduzione di Vincenzo Monti). Era a questo che pensavi?

Ettore e Andromaca, Giorgio de Chirico, 1917

Bah!

Guarda che roba! Non bastava Keats e il suo for ever young ma persino l’Iliade di Omero! Guarda cosa mi fai tirar fuori! Ma lo so, lo so. Anche se non parli lo so che stai ascoltando e che, in quel blocco di bronzo, stai finalmente sorridendo di sottecchi. Perché ho ragione, vero? Tu non volevi soltanto vincere. Volevi dominare. Volevi fare l’impresa. Volevi essere l’eroe. E in quanto tale volevi essere ricordato. Non parlavi con i meccanici, con i giornalisti, con i tifosi, no. Tu predicavi. I tuoi continui richiami alla divinità non avevano nulla della tenerezza e della ingenuità che tanti tuoi connazionali ostentavano. Di questi, in particolare gli sportivi, non ho mai capito il perché ringraziassero l’essere supremo per i loro successi: perché mai costui dovrebbe favorire te e non un altro? Tu questo lo sapevi sicché non ringraziavi tout court, ma lo facevi solo per aver rinviato il momento fatale. Fatalismo greco e messianismo cristiano sono il terribile combinato disposto di tutta la tua carriera e, forse, dell’intera tua vita. Ti sentivi investito di un ruolo che andava oltre il mero risultato sportivo. Te lo sentivi addosso quel fato.

Bah!

Te lo ricordi?

Alle volte le gare finiscono a sei giri dal termine, alle volte alla prima curva

Tutti, me incluso, risero quando ti sentirono pronunciare quel commento a Suzuka 1990. Tutti credevano, me incluso, che l’understatement fosse il sarcastico riferimento a quanto successo l’anno prima sullo stesso circuito. Oggi invece, capisco che no, non c’era alcun sarcasmo. O, meglio, il sarcasmo era solo una facciata che nascondeva il suo reale significato. Quel commento, infatti, era da intendersi alla lettera come il richiamo a quel destino onnipresente a cui hai sempre tentato di sfuggire. Ne eri assolutamente convinto: è destino che alle volte le gare finiscano a sei giri dal termine ed è destino che alle volte finiscano alla prima curva. E quella volta, del destino ti eri fatto strumento. Quell’altro, il francese, non era solo il tuo più grande rivale. Era il tuo nemico, vero? Era ciò che il fato ti aveva messo davanti per metterti alla prova. Non hai fatto altro, da Montecarlo 1984 fino ad Adelaide 1993, che combattere contro di lui, vero? Prova a smentirmi! Non parli? Perché stai in silenzio? Ho ragione vero? Tu, Ettore, hai cercato di fare di lui il tuo (improbabile) Achille e volevi sovvertire il fato che, mettendotelo davanti, ti stava comunicando a gran voce che ti avrebbe seppellito sul campo di battaglia. A quello resistevi con tutte le tue forze? E come facevi a gestire l’ovvia sensazione che lui non la pensasse esattamente come te? Che lui, anziché combattere si limitava a correre? Perché quando le cose si facevano complicate lui si metteva in disparte? Lui! O’ cauteloso. Perché era così? Possibile che nessuno, oltre a te, si accorgesse che si trattava di una battaglia epica e non di una gara di macchine che girano in tondo su un circuito? Che c’entrano i motori, le gomme, le curve, le mappature, le qualifiche, i pit stop? Nulla! È tutta una grande battaglia! Ma nessuno ti seguiva in questi ragionamenti, vero? Ora lo capisco. Allora no. Capisco ma non condivido, ovviamente. Non possiamo struggerci ogni minuto in un mondo di fantasia che ci fa percepire ciò che non è. Il rischio è, oltre alla ovvia incomprensione di ciò che ci circonda, anche quello di reagire nel modo sbagliato, nel modo inappropriato, nel modo che anziché favorirci ci danneggia. Tuttavia, oggi che ho capito, so che tu non potevi fare altrimenti. So che se non avessi ammantato di questa tragica epica tutto ciò che ti circondava non avresti combinato nulla. Non saresti stato così perfezionista, così ossessionato dalla velocità, così maniacale in ogni particolare, così voracemente attaccato ad ogni più piccola frazione di quel tempo del quale sentivi la scansione decimo di secondo per decimo di secondo. Saresti affondato nei tuoi tetri pensieri e, da essi sopraffatto, non saresti mai sfuggito, per così tanto tempo, al destino di cui temevi il reclamo.

Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se tu guarderai a lungo in un abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, 1886.

Sei un mostro lo sai? Sì, un mostro, ma nel senso latino del termine. Monstrum. Un prodigio, un’eccezione, qualcosa di stra-ordinario. Ma forse anche nel senso moderno, quello negativo che tutti conosciamo. In quanto tale vivevi in un modo tutto tuo, isolato e solo. E non permettevi a nessuno di entrarci. Oh! quanti amici si è scoperto che avevi, dopo che te ne sei andato! Tutti intimi. Tutti, in assoluta buona fede, convinti di esserlo. Ma quanti di loro erano entrati, davvero, nel tuo mondo? Più ti guardo, più ti leggo, più ti capisco, più mi rendo conto che sfuggi ancora. Veloce, ovviamente. Nel tuo mondo non poteva entrare nessuno perché se qualcuno vi fosse entrato, davvero, ti avrebbe aperto gli occhi e non potevi concederti uno sguardo sincero sulla realtà. Ti saresti perso e non lo potevi permettere. Almeno sinché correvi. Ho ragione? Perché non fai un cenno? È mai possibile che l’essere un blocco di bronzo ti possa impedire di parlare?

(che poi… il nasone sarebbe il tuo Achille?! Dai, su. Per favore!)

fin dal primo momento

Bah.

Hai ragione a stare in silenzio. Non vuoi che rivangando tra i ricordi io giunga anche a vedere la lotta paranoica che avevi già cominciato a costruire contro la tua nuova nemesi. Avevi capito che con lui sarebbe stato diverso. Non come contro il leone dell’Isola di Man, che al massimo ti avrebbe impensierito con qualche exploit dei suoi. Non come contro Elio De Angelis, troppo signore per anche solo pensare di accodarsi al tuo furente traino. Non come contro Michele Alboreto, troppo fieramente attaccato ai valori antichi del motorsport. Non come contro o’ cauteloso, che di te aveva paura, che per quanto anche lui fosse fenomenale alla guida non aveva tuttavia la tua stessa determinazione né lo stesso senso della battaglia. Contro Michael, invece, era diverso. L’avevi capito. Avevi provato a spaventarlo, a indottrinarlo, a fare mind games, come quella volta a Magny Cours nel 1992. Ma qualunque cosa tu gli dicessi gli entrava da un orecchio e gli usciva dall’altro. Qualunque messaggio in pista gli mandassi lui non faceva una piega. Qualunque insinuazione e cattiveria da te detta fuori dalla pista non lo tangeva nemmeno di striscio. Lui era al tempo stesso uguale e diverso da te. Era uguale perché non si fermava davanti a nulla, come te, ed era diverso perché, ciononostante, non aveva alcuna epica battaglia da portare a termine. Lui aveva fame. Una fame atavica, selvaggia e indomabile. Ah! Che paradosso! Tu, ricco da un paese povero e lui, povero da un paese ricco! Se a te fosse andata male avresti potuto continuare da ricco imprenditore. Se a lui fosse andata male aveva al massimo un posto da custode per gestire la spazzatura di un circuito di go-kart, come suo padre. Da non credere, vero?  Tu non volevi sbagliare. Lui non poteva. Tutto questo l’avevi capito e non sapevi come affrontarlo, vero? La conferma definitiva l’hai avuta poche settimane prima di andartene, a Interlagos, GP del Brasile 1994. Tutta la parte finale di gara l’hai passata a pochi metri dalle sue gomme posteriori e lui non solo non si è spaventato, come avrebbe fatto chiunque altro, ma non mollava nemmeno un centimetro. Fosti tu, sconfitto, a commettere l’errore che tanti altri hanno commesso contro di te: o mollavano o andavano fuori. Tu sei andato fuori. Fu dura, vero?

 

Scivolo giù nel tempo, gli anni passano con una velocità sorprendente, passano anche i campioni del tuo sport, le vetture, le tecnologie. Hanno fatto in tempo a succedersi altre tre generazioni di piloti. La tua ultima nemesi, Michael Schumacher, un nome preciso e un cognome preciso, degno di risaltare in questo mesto ricordo, capace di imprese come le tue, ma insperate più che disperate, invece di godersi gli agi che la sua carriera gli ha garantito giace in un limbo ineffabile. Non puoi saperlo ma pochi anni dopo che te ne sei andato, in Italia, guarda caso!, a Monza anno 2000, vinse la sua quarantunesima corsa. Un giornalista, in conferenza stampa, gli fece notare che con questo risultato aveva raggiunto il tuo stesso numero di vittorie. Michael non disse praticamente nulla. Si coprì il volto e scoppiò in un pianto nervoso e irrefrenabile. L’atmosfera festosa mutò di colpo. Simbolo sinistro: lui era lì, dietro di te, a Imola, quando la Williams puntò tragicamente contro il muretto. Al suo fianco c’era quel finlandese dall’animo dolce e dal piede pesante che aveva preso il tuo posto in McLaren, altro sinistro simbolo. Nemmeno lui riuscì a dire qualcosa, commosso e prostrato dal ricordo di te così repentinamente riportato alla luce da quella fredda statistica, e passò la parola al terzo del podio, il fratello minore di Michael, che non si scompose più di tanto (oggi lo sappiamo: i suoi tormenti erano altri) e proteggendo il fratello con un asciugamano riuscì a pronunciare qualche parola di circostanza per chiudere rapidamente la mesta scena che stava andando in onda in mondovisione. A muovere il tutto fu sufficiente proferire il tuo nome. Invece il suo nome, oggi, nella fredda agonia dell’anno 2024, è già da undici anni coperto dalla coltre del tempo. Non provo alcun compiacimento nel riconoscere, nel suo calvario, il rovesciamento di ruoli del mito di Orfeo ed Euridice. È lui, novello Orfeo capace di far cantare i motori anziché la cetra, ad essere imprigionato in un Ade terreno ed è la sua Euridice che, invece di abbandonarsi al fato, tenta col suo richiamo colmo d’amore di trattenerlo a sé. Fallendo, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.

ogni giorno, ogni ora, ogni minuto

Bah!

E adesso? Cosa facciamo? Ci accontentiamo di leggere le decine di libri che ti raccontano? Di guardare e riguardare le tue imprese in film, filmati e documentari? Di guardare ossessivamente una tua foto ove il tuo sguardo umbratile rimarrà fermo fino a quando l’ultimo pilota di un mezzo a quattro ruote deciderà di piegare la resistenza di un circuito alla sua ferrea volontà di carpirne ogni più recondito segreto? In fondo è soltanto uno sport, no? Un divertimento per chi lo guarda, in fin dei conti, no? Perché gli attribuiamo così tanta importanza? Motorsport is dangerous, e dovremmo chiuderla lì. Succede! È un gran dispiacere quando accade ma è così. Domani è un altro giorno.

Quindi?

Fatalismo della più bassa lega? È così che mi giudichi? O è così che io dovrei giudicare te?

Ma forse è nel ricordare l’episodio più stonato, per certi versi, della tua carriera che si scorge il senso di tutto questo ragionare. Ti immagino sempre a Imola, nel week end del relativo Gran Premio del 1984. Primo anno in Formula 1 e ti eri già fatto notare. Ma qualche buon risultato d’esordio non ti bastava e cominciasti subito a litigare e dritta e a manca. Volevi cambiare gomme, tu, insignificante matricola 24enne con una vettura poco performante sapevi che in un quel mondo di uomini dalla scorza durissima nulla ti sarebbe stato concesso facilmente. Litighi subito, dunque, e nel marasma che avevi causato non riesci a trarre un crono decente dalle qualifiche e non riesci (non riesci!!) nemmeno a qualificarti per il Gran Premio, unica volta nella tua carriera. Che figuraccia! Che smacco! Proprio tu! Ti immagino il giorno della gara, fumante di rabbia e di frustrazione, da solo in un angolo del paddock, magari in un bagno ben chiuso a chiave. Ascolti il rumore frastornante dei motori degli altri che corrono. In quel momento, tra un’imprecazione e l’altra, ti appare te stesso più vecchio, vestito di tutto punto, smoking e farfallino per intenderci, che ti sorride con compiacenza e ti allunga un paio di bonarie pacche sulle spalle.

“che c’è Ayrton? Cosa ti angustia?”

Ti spaventi per la surreale apparizione e anche se sai già la risposta non puoi fare a meno di chiedere: “chi sei?! Come è possibile? Cosa vuoi? Che…”

“non l’hai ancora capito?” rispose quella inquietante figura “davvero non l’hai ancora capito?”

Ti getti in ginocchio improvvisando una preghiera, con lo sguardo fisso sulle tue mani per evitare di guardare quel tuo strano te del futuro di cui avevi già capito la natura nel momento stesso in cui le sue gelide mani toccavano la tua spalla.

“Stai lontano da me!” implori.

“Tranquillo, Ayrton, non devi aver paura. Io sono te, non vedi? Ho solo qualche ruga in più. E ho qualche consiglio da darti, qualche suggerimento, diciamo, utile, molto utile. Oggi non ti sei qualificato per il Gran Premio e posso garantirti che se le cose non cambiano, se non cambi le cose, questa delusione la proverai molte altre volte. Ti va di ascoltarmi?”

Ti immagino alzare timidamente lo sguardo. Ti immagino incuriosito. Ti immagino mentre tentenni e guardarti intorno in quel bugigattolo in cui nessuno può vederti. Ti immagino mentre soppesi tutti i pro e contro. Sei giovane, sei all’inizio, ma in quelle nebbiose solitudini che hai bazzicato per anni dopo che te ne sei andato da San Paolo del Brasile, hai avuto tempo per riflettere. Hai già capito cosa fare, come comportarti e cosa vuoi raggiungere. E infine ti immagino guardare l’apparizione e lasciando che un baluginio guizzante ti scorra tra gli occhi gli domandi:

“e quali sarebbero questi consigli?”

(D’altra parte, se eri così convinto di conversare con l’altissimo tra una curva e l’altra del circuito di Montecarlo è così assurdo se ti immagino conversare con il suo biblico oppositore in un bagno chimico dietro al paddock di Imola?)

Dimmi la verità: l’hai fatto quel patto? È per questo che hai trasformato tutta la tua carriera in questa folle battaglia contro il destino? Imola 1984 – Imola 1994. Dieci anni di vittorie e campionati del mondo erano il premio. Un premio vano, però, perché dieci anni di frustrazione, sofferenza, acredine, infelicità erano il pegno. Lo spartiacque, quello sì, è stato il vero premio. Diventare il punto di separazione tra un prima e un dopo sgorgando nella memoria di chiunque era ciò a cui puntavi. Volevi cambiare tutto. E ci sei riuscito.

Noi ti garantiamo l’efficacia vitale di ciò che compirai col nostro aiuto. Tu sarai guida, tu segnerai il cammino dell’avvenire, nel nome tuo giureranno i ragazzi che, grazie alla tua follia, non avranno più bisogno di essere folli. Della tua follia si nutriranno in piena salute, e in loro tu diventerai sano” Thomas Mann, Doktor Faustus, 1947

Bah! Oppure: bah?

Busso piano sul bronzo che ti costituisce e ricevo meno riverbero di quanto mi aspettassi. Sei ancora lì? Mi stai ascoltando? Riesci a leggere tutti questi pensieri, tutte queste riflessioni? Non è che ti infastidiscono? Tutti dicono che sei un mito: sarò pur libero di accostarti ad altri miti, no? La sai una cosa? Mi stavi pure antipatico! Lo sapevi questo? Dopo tutto questo panegirico te lo dico: mi stavi amaramente antipatico. Antipatia amara come cicoria selvatica, però, perché ti riconoscevo come il più grande, senza se e senza ma. A me è servito, in quegli anni così verdi, riconoscerti campionissimo pur in questa antipatia: riuscire a separare ragione e sentimento, allorché ci si disponga ad un giudizio, la vedevo come cosa da “grandi”. E mi è rimasto. Sarebbe bello vedere questa disposizione anche in altri campi che non siano lo sport ma temo che questa mia speranza sia tanto vana quanto quella che avevi tu di sopravvivere al fato avverso. Dopo questo pensiero, sento un ghigno sottile provenire da un punto imprecisato alle mie spalle. Tu sei lì, vicino ad un albero, piuttosto invecchiato, con smoking e farfallino d’ordinanza e mi guardi ammiccando in direzione della statua. Fitte rughe solcano il tuo volto e la sai una cosa? Così invecchiato sembri piuttosto anonimo e quel ghigno proprio non ti si addice. Mi mostri una mano, come invitandomi verso di te. Cambiare le cose? Non sono abbastanza forte, mi verrebbe da dire, o quantomeno non quanto te. Rifiuto con un gesto e sorrido scuotendo la testa.

Di nuovo scivolo giù nel tempo, in questo attimo che conclude il 2024, trentennale della tua scomparsa. Mi chiedo e ti chiedo: ne sarà valsa la pena? Sì, certo, se dopo trent’anni siamo ancora a parlare di te, in questo modo poi!, sembra proprio di sì. Ma mi piace più uscire dal mito e vedere che da quando te ne sei andato è cambiato tutto in Formula 1. Non è più il tremebondo circo dall’antico sapore tribale che è stato fino al 1994. I piloti e gli appassionati continuano ad accapigliarsi su chi è più veloce e chi meno ma non c’è più la paura. Tutto è più sicuro e non si contano gli incidenti gravi capitati in pista che, prima, avrebbero avuto tragiche conseguenze e, ora, non ne hanno nessuna. Certo che il “motorsport is dangerous” è ancora vero. Certo che possono ancora accadere (e ne sono accadute) tragedie. Ma se prima di te la regola era la paura e la sicurezza l’eccezione oggi è esattamente il contrario. È cambiato tutto perché invece di abbandonarsi ad un fatalismo malato e morboso, ogni circostanza passibile di pericolo viene immediatamente affrontata. Si dice che la Formula 1 abbia perso un (bel) po’ del suo fascino per questo cambio di atteggiamento. Non mi nascondo dietro a un dito: è vero. Ma se il prezzo del fascino dev’essere la paura allora, in tutta onestà, preferisco così. Se questo era lo spartiacque che volevi diventare, oltre il mito sportivo che rappresenti, allora sappilo: lo sei diventato.

Ora basta. L’incontro deve finire qui.

Prima di andarmene torno a cercare un’ultima volta il tuo sguardo. Mi accorgo che c’è un gruppo di ragazzi che si sta avvicinando quindi, per il pudore di non far cogliere la messe di pensieri ed emozioni che mi sta corrodendo, metto le mani in tasca e mi fingo incuriosito mentre mi metto in linea con i tuoi occhi, sotto la statua. Così colgo il tuo ultimo sospiro, che in questa ridda di pensieri, nell’ultima di queste spocchiose quanto malinconiche fantasie, si fa strada con lucida e terribile inesorabilità. E così, dopo aver capito tante cose ne capisco, infine, un’ultima che si manifesta nella irrazionale consapevolezza che tu, quel giorno, quel primo maggio 1994, sapessi già come sarebbe andata a finire. Nella terra con più passione per i motori, nel circuito intitolato a Enzo e Dino Ferrari, nella posizione che hai sempre agognato e tante volte conseguito, lì e solo lì, in quel momento, hai lasciato che il fato che da tanto tempo ti rincorreva finalmente ti prendesse.

Così saresti rimasto primo per sempre.

Ayrton Senna da Silva, 1960-1994