MIT INCONTRA MAURO FORGHIERI

Mors optima rapit

Virgilio

“La morte si porta via i migliori”

 

Pronunciare il suo nome oggi, che se n’è andato, mi provoca pensieri ed emozioni contrastanti.

Ma di una cosa sono sicuro. Mauro Forghieri è (stato?) una persona, un uomo, una figura importante e non solo per il mondo della Formula 1.

Solitamente si dice che quando viene a mancare una persona meritevole di grande stima siamo tutti più poveri.

Invece credo che quando si tratta di Mauro Forghieri sia più opportuno dire che siamo tutti più ricchi.

E in qualche modo sono felice, pur nella tristezza della perdita, che abbia vissuto una vita così lunga e intensa, per la passione e la genialità che ha profuso a piene mani a chiunque l’abbia conosciuto.

 

Non sono qui per fare cronistorie o agiografie. Di quelle ce n’è in abbondanza (si trovano svariati libri su Forghieri e di Forghieri) e so che le figure importanti non ne hanno bisogno.

Le figure importanti sono tali anche e soprattutto perché grazie a loro i fili dei nostri ricordi si annodano tra loro in modi impensabili e contribuiscono a creare la nostra personalità in modi che ci sorprendono.

Per questo sono importanti, no?

 

Della biografia professionale mi interessa, in questa sede, soltanto l’inizio: a soli 27 anni Ferrari lo nomina direttore tecnico del reparto corse, sia F1 che prototipi.

Basta questo per dire di Mauro Forghieri che nasce già padre, padre delle vetture che progetta e della squadra che dirige.

Un padre giovane e come tutti i padri giovani deve imparare sulla sua pelle tante cose in poco tempo, magari tra qualche buon viso a cattivo gioco e, why not?, cattivo viso a buon gioco. Sarà anche giovane e inesperto ma lui, lì, ci vuole rimanere.

E ci rimane, come ben sappiamo, nel migliore dei modi perché i risultati non mentono: tra piloti e costruttori la somma dà il numero 11 che in settant’anni di storia della F1 mi pare percentuale piuttosto significativa.

Personalmente l’ho incontrato due volte. Ed entrambe, le volte, curiosamente, in un bar.

La prima ero un microbo, un inverno imprecisato, forse l’80 o l’81. Di ritorno da un piccolo lavoro domenicale nella sede di un suo cliente mio padre mi volle con sé per aiutarlo con gli innumerevoli floppy disk e le fisarmoniche di stampe che al tempo erano imprescindibile bagaglio con cui trafficare se si sapeva di informatica. Ma era solo una scusa: la appena acquistata (a suon di cambiali e litigate con la mamma che non pensava avremmo potuto permettercela) Lancia Beta Trevi aveva bisogno di rodaggio! E mentre viaggiavamo io mi divertivo a pigiare i pulsanti di quel cruscotto fantascientifico.

La nebbia ci impedì di testare velocità e tenuta di strada ma poco male: ci sarebbe stato tempo. Ci fermammo così nel centro del paese della bassa modenese in cui ci trovavamo per entrare in un bar. Mio padre voleva prendere un caffè e mi disse di scegliere le paste da portare a casa per fare una sorpresa a mia madre e ai mie due fratelli più piccoli. Con il naso attaccato al banco per cercare di carpire gli odori della crema e dalla cioccolata non mi accorsi che mio padre si era messo a chiacchierare con una persona. Era proprio lui, il “Furia”. Era lì, con altre persone, forse suoi parenti? (ah! il ricordo è annebbiato come lo era quella giornata!) e mio padre lo riconobbe. Scambiarono alcuni convenevoli, suppongo complimenti, e poi mio padre me lo presentò:

lo sai chi è questo signore? è quello che fa la macchina di Gilles Villeneuve!

I miei occhi s’illuminarono immediatamente e cominciai a bombardare Forghieri di domande su Villeneuve: “ma è vero che è il più veloce del mondo? è il pilota più bravo del mondo? è il più velocissimissimo che vince tutte le gare? o è più forte Mario Andretti [che completava il trio dei miei idoli d’infanzia insieme a Niki Lauda]? ma se Mario Andretti viene alla Ferrari vince lui o Villnèv? la Ferrari fa i 270 o i 280?” e alla via così.

Mio padre sorrise e si scusò con Forghieri per la mia insistenza. Ma Forghieri, con gesto tipico che si fa con i bambini di quell’età, mi scompigliò i capelli e rispose:

sì, Villnèv è il più forte di tutti.” Scimmiottando la mia faticosa pronuncia del cognome dell’idolo.

Ricordo che uno di coloro che erano con lui lo rimbrottò in dialetto e disse [ricostruisco con approssimazione che spero mi perdonerete]: “ma va là veh, te’ vdrè quan ch’ l’riva al francès!” [vedrai quando arriverà il francese!] e Forghieri si rialzò rispondendo a sua volta in dialetto ma non capii oppure, più semplicemente, non mi ricordo. Però ricordo abbastanza distintamente che quel commento ci fu. E indubbiamente fu curioso, no? Di chi stavano parlando? Logica vorrebbe che si trattasse di Pironi (il periodo era quello) ma nel mio confuso ricordo qualche dubbio mi viene perché il tono non sembrava qualcosa di riferito alla Ferrari. Chissà. Forse stavano parlando di Prost?

Il mistero rimarrà tale.

Il mio immaginario di appassionato di Formula 1 non può prescindere da Mauro Forghieri. L’aver vissuto la sua carriera soprattutto da bambino l’ha elevato a figura quasi mitologica. Il genio che immagina qualcosa che altri non riescono a immaginare. Un moderno Dedalo, dedito al lavoro e alle passioni, capace di invenzioni al limite dell’umano Mauro Forghieri l’ho sempre dipinto nella mia mente come un campione della fantasia scientifica e tecnologica che però trovava applicazione immediata e concreta nelle piste su cui faceva correre le sue vetture.

La mia trimurti dei tecnici più geniali della storia della Formula 1 lo vede seduto allo stesso tavolo con Colin Chapman e Adrian Newey. Lo vedo a quel tavolo, il “Furia”, fare da anfitrione agli altri gesticolando davanti ad una zuppiera fumante di aromi appetitosi a far bella mostra di sé. Spiega la tecnica per fare i tortellini, il modo in cui la pasta si avvolge attorno al dito della ‘zdora con i lembi di pasta che infine si toccano a formare il bellissimo ed elegantissimo sacchettino che ne risulta. Continua la sua spiegazione, il “Furia”, con la leggenda che vi sta dietro e di come i suoi antenati, dispersi nella nebbia della pianura, non si accontentassero di attaccare tra loro dei rettangolini di pasta per esser mero contenitore del ripieno ma volevano che quel piatto di pasta fosse bello. E facevano correre l’immaginazione – lontano – lontano – lontano – fino a quei nomi di cui non avevano granché contezza, spersi nelle parole di questo o quel profesòr, decisero che se quella Venere era così bella come dicevano quelli là allora anche quel pezzetto di pasta lo sarebbe stato.

Perché tutti sono capaci di mettere un ripieno tra due pezzetti di pasta ma nessuno saprà farlo anche elegante e bellissimo, degno della più bella delle dee, anzi disegnato proprio su di lei. Bello, dunque. Anzi: bellissimo! proprio come l’ombelico di Venere!

Bello, sì, ma anche buono. Il più buono del mondo.

Ed eccolo lì, il Furia, a spiegare ai suoi commensali la storia dell’ombelico di Venere e a paragonarla alla storia delle Ferrari 312T. Spiega le idee, quel momento in cui, lo sapete no?, quello che ti balena in testa un’idea, e poi un’altra e poi un’altra ancora e non riesci a smettere più di pensarci e poi cominci a disegnare e a provare soluzioni l’una sull’altra, a migliorare quel particolare, quella presa d’aria, quell’alettone e poi ancora a pensare come si adatta il telaio, il motore, il cambio: quella volta lo volli trasversale, dice, ci stava proprio bene lì in mezzo!

E adesso vi dico una cosa, dice.

Anzi.

Adèss av’ deg un quèl

Vedete, dice, non basta che la 312T sia bella e veloce – deve anche vincere.

Perché quello là si sta anche un po’ stufando, sapete? È dal ‘64 che non vince.

Adèss av’ deg un elter quèl”

Con quella macchina, abbiamo vinto.

Chapman annuisce e commenta, fa domande, mangia tutto contento, sorpreso, meravigliato e appagato.

Adrian Newey invece è completamente immobile: il suo momento per parlare ed interagire con loro arriverà più avanti.

La seconda volta che incontrai Forghieri fu in centro a Bologna, anni 90, anche in quell’occasione profondo inverno, Senna se n’era andato da poco quindi forse fu proprio l’inverno del 94. Facevo lo spanizzo con la bella di turno ed entrammo in uno di quei bar eleganti del centro, praticamente sotto le due torri. Volevo fare l’elegante tombeur de femme e tra me e me stabilii che un tavolino di quelli piccoli ed eleganti nella saletta apposita ci avrebbe tenuti lontani dal farfuglio perennemente confuso dei bar intorno all’università che, ero sicuro, l’avrebbero distratta dalle mie chiacchiere. Ero ingenuamente convinto che in un tête-à-tête in quell’atmosfera elegante avrei potuto carpire meglio la sua attenzione. Di certo c’era che volevo a tutti i costi che quegli occhi guardassero soltanto i miei, senza farsi distrarre da quelli degli altri studenti.  (ah, beata gioventù! avere allora la consapevolezza di oggi! oh Metrodoro! ma non capivi che il solo fatto che avesse accettato il tuo invito era già quel segno che cercavi? stupido ingenuo!). Baldanzoso e aitante, libri sottobraccio e la bella al seguito entrai in quel bar come se ne fossi stato il padrone, al contempo studiando in un angolo della mia mente quali argomenti e quali parole avrebbero maggiormente affascinato “begli-occhi”. Il caldo improvviso che trovammo nel bar costrinse la bella al mio fianco a togliersi il pesante berretto di lana e l’ancor più pesante giaccone. Sapeva come vestirsi, begli-occhi, con l’attillato e lungo maglione di lana a disegnare la sua silhouette fino a formare una morbida e ben calcolata sorta di minigonna. Begli-occhi non aveva belli soltanto gli occhi, evidentemente, perché tutto il bar si girò a guardarla. Io, preso da un fremito che saliva direttamente dalle profondità ataviche di centinaia di migliaia di anni di evoluzione squadrai ogni volto, con espressione al contempo soddisfatta, come a dire che “sì, cari miei, costei è qui con me” e minacciosa, come a dire… be’ nulla! perché il mio appena accennato ma chiaramente percepibile animalesco digrigno dei denti non ammetteva alcun fraintendimento. Durò pochi istanti quel mio sguardo ferino perché tra i volti inebetiti dall’epifania di begli-occhi ne scorsi uno familiare. E in una frazione di secondo anche la mia espressione cambiò. Era proprio lui! Mauro Forghieri! il “Furia” in persona!

Ora, cari signori, mettetevi nei miei panni di quel freddo ma foriero di belle speranze pomeriggio bolognese: la bella o il Forghieri?

Be’, ça va sans dire: Forghieri!

Forse in quel momento immemore dell’incontro d’infanzia, lo “agganciai” e cominciai a tempestarlo di complimenti e di domande come se fossi stato ancora il microbo di tanti anni prima! Incurante del fatto che lui fosse insieme ad altre persone (peraltro il ricordo che si affaccia ora alla memoria mi fa vedere tanto il Furia quanto gli altri con lui vestiti piuttosto eleganti: chissà che occasione era) non mi resi conto che lo stavo pure infastidendo. Non ricordo le domande quanto le battute, inopportune, che feci: “E non le posso domandare della Ferrari, eh?” oppure “Non è che torna? perché Barnard dice dice ma alla fine sempre indietro stiamo!” oppure “E Alesi? Ne vincerà una?!” e amenità varie dello stesso genere. (a questo punto sono quasi sicuro che fosse l’inverno 94/95). Lui fu un po’ meno paziente rispetto al precedente incontro ma qualche parola la scambiò e tra un “grazie” e un “no ma vedrà che si rifaranno” riuscì infine a sganciarsi per tornare alla combriccola di elegantoni che ciarlava alto-vociante con gli aperitivi d’ordinanza tra le mani. Non mancai, prima che se ne andasse, di stringergli la mano con una certa verve, trattenendola per un tempo che leggi non scritte dell’educazione vogliono sconveniente, sperando che tramite quel formale contatto un poco del suo genio traslasse per qualche esoterica magia fin dentro di me.

È un peccato che al tempo i cellulari non ci fossero: sarebbe stata la ghiotta occasione per portarmi a casa un selfie con il Furia da ingigantire e piazzare ornato di cornice d’oro alla parete di ogni casa che abiterò fino alla fine dei miei giorni.

Begli-occhi! Per Giove! Me l’ero quasi dimenticata! E manco l’avevo presentata a Forghieri (che poi…)!

Ci sedemmo infine a quel tavolino che sino a pochi minuti prima ritenevo la rampa di lancio per dar concretezza alle mie romantiche aspirazioni ma non ci fu verso. Infatti, riempii l’ora successiva di tutte le meraviglie che Forghieri aveva creato. Tra un caffè e una B3, tra una pasta alla crema e i primi alettoni di Formula 1, un cioccolatino e la T4 a effetto suolo la poveretta si sorbì 20 anni di storia Ferrari con tanto di snocciolamento, cantilenando come idiot savant, di tutte le vittorie e mondiali conquistati dal Furia, eccitato più dall’incontro con la leggenda che dalla profondità dello sguardo di begli-occhi.

Stereotipi.

Modena, Ferrari, Tortellini.

Oh, che banalità, verrebbe da dire.

Eppure Mauro Forghieri li incarna pienamente, quegli stereotipi. Anzi, si può dire che ne è un pilastro fondante. È homo aemilianus, conio nemmeno tanto cacofonico, fino in fondo tanto che la sua definizione la si può disegnare sul “Furia” senza timore né di offendere né di sbagliare. Modena è stretta tra il Secchia e il Panaro, acqua che fluisce un po’ stanca e si dirama in mille rivoli, torrenti e canali a tramare la pianura con massa sufficiente per condensare, quando le temperature cominciano a calare, nella bianca oscurità della nebbia. La gravità acquosa del Po la fa inevitabilmente cadere nel centro d’attrazione degli Estensi che decidono di possederla, vedendo da non molto lontano che sotto la Ghirlandina avrebbero potuto trovare rifugio se le bellicose velleità di Veneziani e Papalini avessero infine stritolato la risplendente ma fragile Ferrara. E così fu, perché dopo tre secoli di morbido dominio Modena accolse la casata degli Este costretta a fuggire da Porta degli Angeli a causa delle ire dei papi-guerrieri di quel tempo. Ma se lo splendore rinascimentale di Ferrara si rintanerà sempre più nel buio delle soffocanti braci del tempo, per Modena invece comincia un percorso inedito e stupefacente. Le affinità ducatine tra le due città, acqua e nebbia, sono il brodo ideale in cui cuocere insieme i loro attributi storici. Arte, scienza e letteratura che a Ferrara splendevano protette dal maestoso incedere del Po approdano nello stretto delle anse convergenti, in similare protezione, di Secchia e Panaro e si mescolano con l’operosità meticolosa, la orgogliosa determinazione e la piacevole bonomia di una Modena che ancora stentava ad uscire dal medioevo.

Persino le parlate lo testimoniano.

Il dialetto modenese si ammorbidisce, importando lessico e qualche finezza dal ferrarese: basta di questo arrotondare le O e inclinare le A ed ecco che la parlata di quello si allunga. Le vocali infinite la fanno diventare franca e aperta e correre ritmata in una cantilena alle volte persino fastidiosa per chi non vi è abituato. Se vi chiedete dove sono finite le asprezze fonetiche e la pronuncia rude del medioevo modenese bisogna bussare alla porta dei cugini che stanno 25 kilometri più in là, quella delle “teste quadre”, eponimo che onomatopeizza spigoli e angoli che nel dialetto modenese non ci sono più già da qualche secolo.

E di questa gioiosa commistione Modena ne gode subito i frutti.

In tutte le culture i grandi poemi celebrano le epopee di eroi senza macchia e senza paura, in una celebrazione fatta di gloria che si vuole imperitura che narra aulicamente di destinali battaglie, viaggi immaginifici, mostri infernali e manufatti misteriosi. Invece lo sposalizio tra Ferrara e Modena sortisce il più grottesco degli aedi: Alessandro Tassoni. La celebrazione del glorioso passato viene filtrata dal Tassoni che usa questi occhiali neo-estensi per descrivere come fosse antica gloria la rivalità tra Modenesi e Bolognesi, tra burle, scherzi, gag, malintesi che girano intorno all’oggetto del contendere tra le due città. Non il vello d’oro, nessuna Durlindana, altro che nodi gordiani o labirinti minoici ma un semplicissimo e banalissimo oggetto di uso quotidiano: una secchia. La secchia rapita è il poema che poteva nascere solo qui. Impregnato com’è di satira e burla, pur mai troppo pesante o eccessiva, testimone privilegiato dell’animus  che muove gli abitanti di queste terre. Sì, ci sono anche le battaglie ma sembrano più scazzottate da bar che epici certami e in cui tutti i protagonisti finiscono per mangiare e gozzovigliare assieme, pur tra qualche intrigo e qualche figuraccia, quelle sì epocali. Non disdegna, il Tassoni, costrutti letterari anche sofisticati con rime ariostesche, qualche richiamo virgiliano e una strizzatina d’occhio al Tasso quali retaggio della bellezza che fuggiva dalle torri del Castello Estense. E sta pure bene attento, il cantore neo-estense, a non ridicolizzare troppo: satira ce n’è, eccome, ma la attenta lettura di quelle rime mostra come in fondo alla bonomia e al divertimento ci sia un limite che non si valica. La secchia sarà anche un pretesto ridicolo, se confrontato ai grandi poemi del passato, le battaglie non saranno così sanguinose come quelle dell’antichità e gli dei che vi assistono saranno anche poco rispettosi dei protagonisti ma quel rustico sbracciarsi intorno alla secchia è anche un segnale. State attenti, dice Tassoni, che se questi si menano così affannosamente per una semplice secchia forse potrebbero fare di peggio se in ballo ci fosse qualcosa di realmente prezioso. Ne emerge una sim-patia di fondo che trafigge il lettore attento con la rivelazione che si può essere bonari, comprensivi e anche un po’ zuzzurelloni ma l’ostinazione e la determinazione che si manifesta tra le righe è più dura del granito su cui si fonda il Duomo di Modena: se ci sbatti contro ti fai male, molto male.

Così, l’homo aemilianus prende definitivamente forma. Di lì in avanti è tutto un movimento, pacato e danzante al tempo stesso. Si ride e si studia. Si gigioneggia e si costruisce. Si danza e si inventa. E ci si ritrova sempre, pur se in mezzo alla nebbia che non limita lo sguardo altro che otticamente, come se ci fosse un filo invisibile la cui tensione prova la presenza del vicino. E poi quella nebbia è in realtà una immensa siepe di Leopardi, che permette di immaginare gli interminati spazi di là da quella con gli occhi della fantasia. Fantasia che, all’homo aemilianus, non manca di certo.

In questi luoghi e in questo clima nascono Enzo Ferrari e Mauro Forghieri uniti dalla stessa, ostinata, passione. Il primo con gli entusiasmi sempre più smussati dalle asprezze della sua vita ma implacabilmente determinato fino alla fine, il secondo ligio esecutore delle proprie idee e sempre pronto, a dispetto di ogni caduta a rialzarsi più entusiasta e determinato di prima. Ché solo così avrebbe potuto resistere alla corte del Drake per così tanto tempo e solo così avrebbe potuto ricavare dal suo genio le monoposto tra le più belle e vincenti della storia. E con tutti e due dovevi stare attento: se pensavi di fare la voce grossa con loro, magari andandogli contro con un po’ troppa foga, allora ti facevi male, molto male. Da che pensate che derivi il soprannome “Furia”?

 

Stereotipi.

Modena, Ferrari, Tortellini e pure la nebbia.

Dicevo.

 

Oh veh! Cal motàur lè an va minga bein acsè. ‘Sa fàmia ?!

 

[quel motore non va mica bene così. Cosa facciamo?!]

 

La risposta del Furia alla domanda del Drake è semplice:

stiamo qui e ci sbattiamo la testa sopra fino a che non lo facciamo andare come si deve.

 

Perché c’è un corollario a tutto il panegirico scritto prima sull’homo aemilianus allargando leggermente la geografia di base di tutto questo discorso a tutto quel lembo d’Italia che sta tra il Po e gli Appennini perché, in fondo, la rettilinea che il console Marco Emilio Lepido fece costruire 2200 anni fa per collegare Piacenza a Rimini affinché in quel tratto le comunicazioni viaggiassero il più veloci possibile è simbolo che in questo discorso non può non risaltare nel suo colore (ovviamente rosso) più acceso. Se quelli fanno i ravioli noi facciamo i tortellini, se quelli fanno un campanile noi lo facciamo più alto, se quelli vanno veloce allora noi andremo più veloci.

Noi andremo più veloci.

L’ho visto ancora, stavolta virtualmente, il Furia, in qualche bel video su Youtube, che raccontava storie tratte dalla sua lunga esperienza pungolato da Leo Turrini in veste di suo ideale cantore o tra vecchi compagni d’avventura. Lo vedi e lo ascolti e rivedi quelle storie. Ma vedi e rivedi anche i secoli passati di cui lui è fondamento e frutto stereotipico applicato alla Formula 1. La nebbia come slancio e non come ostacolo. La saggia capacità di sapere quando portare pazienza e quando no. La bonomia e l’ostinazione insieme che talvolta fanno luccicare, con un baluginio che si scorge appena, causa levigazione erosiva del tempo, un animo duro come il granito. E anche la sua infinita capacità di comprensione dell’animo umano.

D’altra parte fu lui, in quel pomeriggio giapponese di tanti anni fa, che capì prima e meglio di tutti perché Niki si ritirò. E la sua profonda e umana comprensione non poteva altro che sortire la ormai celeberrima domanda:

Non preoccuparti, Niki, dico alla stampa che hai avuto problemi elettrici?

La risposta di Lauda e i suoi perché, tuttavia, sono un’altra storia.

 

È morto Mauro Forghieri, dopo una lunga e intensa vita.

È morto Mauro Forghieri e mi vengono in mente le due volte che l’ho incontrato.

Come si vede non sono stati incontri epocali o particolarmente significativi.

Ma hanno significato per me.

È morto Mauro Forghieri e mi viene in mente mio padre. Quel giorno che, io bambino, me lo presentò, aveva occhi che brillavano della stessa, meravigliosa, luce di forza e consapevolezza. Luce che in Forghieri ha brillato fino all’ultimo istante e che in mio padre, invece, sta svanendo poco a poco a causa di quel morbo della vecchiaia così terribile da farmelo scrivere solo con la sua iniziale: A. Mentre scrivevo le righe di cui sopra l’ho chiamato, mio padre, per chiedergli se si ricordava in quale paese si svolse quell’incontro. Ma lui, di quell’incontro, non solo non se ne ricordava, menchemeno se si fosse svolto a Mirandola o a Nonantola che sono i luoghi che la mia annebbiata memoria mi suggerisce ma, per qualche agghiacciante istante, non si è ricordato nemmeno chi fossi io.

 

È singolare come un ricordo d’infanzia possa essere straordinario e gioioso e, al contempo, terribile e commovente.

 

È Morto Mauro Forghieri e mi viene in mente quel pomeriggio bolognese. A 22 anni si ha il mondo in mano, stereotipizzo ancora!, e quella volta fu scostante. Lo fu certamente per colpa mia e delle mie inopportune battute e insistenze ma mi piace pensare, in un impeto giovanilistico, che lo fosse stato anche per la malcelata invidia causata dalla vista della graziosa compagnia che mi portavo appresso. Perché, non si fosse capito, “begli-occhi” era così bella che quando camminava chiunque, uomo donna o bambino, si spostava per ammirarla mentre passava e su come proseguì quel pomeriggio lascio la (dovuta) suspense.

Qui il ricordo è fiero e anche un po’ divertente per le sue romantiche implicazioni.

 

 

È morto Mauro Forghieri e mi sono sorpreso a riflettere sui secoli di storia delle terre che l’hanno generato, creandolo simbolo ed eponimo di una passione sportiva in cui ha trasferito il carattere di un intero popolo.

Ci sono certe figure pubbliche, come Mauro Forghieri, che hanno valore di per sé e sono anche la punta (di purissimo diamante) di un movimento che si insinua, nel suo caso con forza e risultati, nella storia, quella con la S maiuscola. E, al contempo, scopro che il suo incarnare così profondamente l’homo aemilianus lo rende imprescindibile patrimonio personale, sì proprio così, personale!, di chi emiliano lo è perché lo aiuta a comprendere la complessità proteiforme della sua identità, plasmandone le avventurose gioie e ammorbidendone gli inevitabili dolori, e di chi invece emiliano non lo è affinché scorga nella sua simbolica figura uno dei tòpos principali che caratterizza non solo gli emiliani ma tutti gli abitanti di questa nostra amata penisola, ben più omogenei di quanto essi stessi credano. Che siano tutti, infine, capaci di essere quel padre giovane che si fa forza della storia in cui è immerso non per rimirarla con malinconica disperazione o per esibirla con stanca e vacua superbia agli occhi di un mondo affamato d’altro ma per guardare creativamente al futuro consapevoli che se ogni tanto si trova qualche intoppo, anziché stare a lamentarsi, stiamo qui e ci sbattiamo la testa sopra fino a che non lo facciamo andare come si deve.

 

E per questo che Mauro Forghieri, per ciò che è stato e per ciò che ha fatto e per ciò che ha rappresentato, ci ha reso tutti più ricchi. Non lo dimenticheremo e non dobbiamo lasciare che scompaia l’afflato simbolico del suo aver attraversato le nostre vite.

Io lo faccio così. Torno quel bambino che giocherellava con il futuristico cruscotto della Trevi e col petto gonfio, il sorriso soddisfatto e ampio e goffo gesticolare me ne faccio un gran vanto, ebbene sì care signore e cari signori!, mi faccio gran vanto di aver stretto la mano alla leggenda e, più indietro nel tempo, di essermi fatto scompigliare i capelli dal genio.

E infine…

Scopro che su quegli stessi capelli poggia un cappello ideale che mi voglio togliere.

Anzi, non un cappello ma un cappellino, di color rosso vivo e con l’effige di un cavallino rampante a far bella mostra di sé sopra la tesa.

Me lo tolgo con delicatezza e m’inchino per onorare, oggi, la straordinaria vita e il meraviglioso ingegno di Mauro Forghieri.

 

Con commosso ossequio.

 

Metrodoro il Teorematico