MIT’S CORNER: NIKI E LA PAUSA CAFFE’

Mi chiedono di contribuire al Blog e io volentieri mi accingo a scrivere quattro righe per dare qualche spunto di riflessione.

La mia prima difficoltà è stata chiedermi cosa diavolo avrei mai potuto scrivere per interessare gli appassionati che non fosse già nei report delle gare e le interessanti discussioni che si dipanavano nei commenti ai post.

E il foglio è rimasto bianco per un bel po’.

Sino a che non mi sono concentrato sul nome stesso del blog: nordschleife1976.

Un nome che per gli appassionati rappresenta l’evocazione più mitica, originaria, direi persino atavica dell’essenza di questo sport.

Già, perché non è (solo) la velocità a caratterizzare il girare di queste belle macchinine con gli alettoni intorno ad una pista. Così fosse sarebbe sufficiente una gara di dragster oppure i GP sarebbero solo degli infiniti Q1, Q2, Q3….Qn.

No.

Non è (solo) la velocità.

 

E’ la perfezione.

 

Ogni appassionato che anche una volta sola nella vita ha girato su una pista di go-kart se n’è accorto.

Non gli basta la velocità, per quanto emozionante sia.

Egli cerca la perfezione.

E la cerca negli angoli, nelle curve, negli assetti, nella tecnica, nei cordoli, nel motore, nelle traiettorie.

“alla fine del rettilineo freno un po’ più tardi, entro un po’ più largo in curva così esco stretto e faccio più veloce la chicane successiva – sono 2 decimi in meno al giro”

Dite la verità: l’avete pensato mille volte vero?

Anche alla rotonda in fondo a viale Cavour, quando non c’è nessuno (mi raccomando eh!): quella scalatina non necessaria, tutte e due le mani che tengono ben salda la presa sul volante, entri-esci dalla rotonda come fosse la variante Ascari e poi in tranquillità fino a Corso Garibaldi a 40 all’ora ma con un sorrisino stampato sul volto che solo voi potete capire.

 

 

Ad ogni modo, eccoci qui.

 

Il Niki Lauda del 1976 sembra un pilota perfetto.

Arriva da una stagione vincente. La macchina è vincente poi salta su quella nuova e continua a vincere.

Gestisce alla perfezione tutte le situazioni

“computer” lo chiamano e, nonostante la strenua resistenza di Hunt e Scheckter, la stagione sembra già indirizzata verso il bis del titolo.

Niki Lauda, infatti, si presenta al via del gran premio di Germania, da corrersi sulla mitica Nordschleife per l’appunto, con più di 30 punti di vantaggio sul secondo: un’infinità col sistema di punteggio di allora e con sole 6 gare al termine della stagione. Basta controllare gli avversari e il gioco è fatto.

 

La perfezione, però, non la si raggiunge mai.

 

Perché poi Lauda ha un incidente.

Anzi ha L’incidente.

Le immagini sgranate dell’epoca sono tuttora facilmente reperibili sul Tubo.

La macchina che sbanda pericolosamente per poi finire sui guard-rail con una fiammata.

Un paio di vorticosi testa-coda che proiettano la vettura di nuovo verso il centro della pista mentre il fuoco già la avvolge.

Il pilota rimane dentro, non esce. Un’altra vettura impatta spaventosamente contro l’inerme Ferrari di Lauda.

L’agghiacciante scena termina con il drammatico intervento degli altri piloti che si fermano e che riescono a estrarre il povero Niki dalle fiamme e a distenderlo lontano dal nugolo di fiamme e di schiuma disperata d’estintore che era diventata la sua macchina.

 

La perfezione, non è umanamente possibile.

 

Immaginarsi i rumori è facile – un po’ meno, forse, gli odori.

Mi immagino quella pista come un fiume di montagna, l’aria tersa che manda lampi frizzanti di acqua tumultuosa che al contempo si stempera nell’odore di resina dei boschi che incombono sulle sue rive.

L’incidente di Niki scuote l’idilliaco quadretto.

Corrompe il bouquet di effluvi balsamici della foresta con l’irruzione di acri e sferzanti odori della miscela di carburante che brucia intorno alle lamiere.

Ancora oggi, nonostante dell’incidente si sappia tutto, nonostante si conoscano gli esiti e tutto il resto della storia, lo scorrere dei fotogrammi rallenta, e con lui il respiro di chi guarda, che si blocca, infine, in quell’attimo di incertezza, tragica e sublime al tempo stesso, che ti confonde sulla sorte del pilota.

Il tutto si chiude con un piccolo sentore ferroso – gusto e non olfatto stavolta: mi sono morso l’interno della guancia un po’ troppo forte.

 

 

La perfezione, forse, è solo una tensione asintotica.

 

 

Ci hanno fatto pure un film su quella stagione.

(peraltro bello, considerando la difficoltà di sceneggiatura che tutte le storie di sport comportano quando le si vogliono mettere sul grande schermo)

Si può romanzare un poco quel che successe dopo l’incidente.

Sappiamo che la gara si annulla e si deve rifare.

Sappiamo che ripartono e c’è un altro nugolo di incidenti.

Sappiamo che ne esce vincitore Hunt davanti all’altro contendente al titolo Scheckter.

Sappiamo che mentre la gara si svolge Lauda viene trasportato in elicottero all’ospedale più vicino.

Sappiamo che i medici devono solo sperare: non l’impatto, non il fuoco, non le ustioni bensì i fumi infuocati respirati in quei tragici momenti sono il pericolo che più tiene sotto scacco il sistema respiratorio di Niki e con esso la sua vita.

Sappiamo che mentre Lauda lotta tra la vita e la morte a Maranello arriva una telefonata ferale: “difficilmente supererà la notte”

 

La perfezione è sempre appena oltre la portata del braccio teso per cercare di toccarla.

 

Quel che NON sappiamo è cosa è turbinato nella mente del vecchio Enzo. Perché sembra impietosa e cinica, la reazione del “Drake”, ma deve aver sentito anche lui, quel 1 Agosto 1976, l’irruzione dei fumi acri della T2 in fiamme giungere sino a Maranello a scompigliare l’afa sonnacchiosa del suo ufficio. Il suo vecchio naso conosce sin troppo bene quell’odore. Getta uno sguardo, tanto fugace quanto l’amaro sospiro che l’accompagna, alle foto appese al muro in diverse file, ognuna corredata di due date di cui la seconda appare sempre troppo prossima alla prima. Vede che c’è ancora spazio in quella parete e dopo aver scosso sconsolatamente la testa si abbandona alla mesta abitudine a questi scenari che solo lui può comprendere. Questo, e non altro, muove il successivo comando che spinge un piccolo nugolo di impiegati a scandagliare rubriche telefoniche e schedari pieni di fogli di carta nella febbrile ricerca del numero di telefono di Carlos Reutemann.

 

Perfezione deriva dal latino “per-fectus”, participio di “per-ficere”: compiere, completare, finire.

 

Usciamo dalle romanzate angustie del “Drake”, rimettiamo il rullo sul proiettore e andiamo avanti veloce.

Lauda NON muore.

Anzi, perde solo due gare e con ancora le bende sanguinanti a coprigli il capo indossa il casco già a Monza.  Si attacca coi denti al campionato. Il vantaggio si è di molto assottigliato ma è ancora davanti. James Hunt sta facendo il campionato della vita, l’occasione è unica e non se la sta facendo sfuggire.

Hunt vince tre gare ma Lauda raccatta un po’ di punti qui e là e prima dell’ultima gara, in Giappone circuito del Fuji, si ritrova sorprendentemente ancora in testa alla classifica con 3 punti di vantaggio.

Ed eccoci di nuovo qui, come alla partenza del Nurburgring: basta controllare un poco la corsa e il gioco è fatto.

Però da quando è tornato tutto ha un sapore strano. Credeva che tutti l’avrebbero aiutato ed esaltato, e la stampa lo fa subito, ma in squadra i visi hanno espressioni indecifrabili. Clay, senza rinnovo, intravedeva forse la possibilità di rientrare, come s’usa dire, dalla finestra e Reutemann aveva accettato l’ingaggio da Monza in avanti purché si fosse d’accordo anche per la stagione 77. Ma il ritorno di Lauda ha scombinato tutto.

Sembra quasi che Niki sia fuori posto nel senso più letterale: lui non dovrebbe essere lì.

Ma c’è, come ci sono i 3 punti di vantaggio.

Quel che non c’è sono gli alleati, la squadra appare confusa e lui non si fida poi così tanto vista la fretta con cui si sono mossi per sostituirlo quando era in ospedale. Gli altri nel paddock lo guardano strano e nonostante tutto quel che ha fatto per tornare sembrano tifare per James Hunt, idolo delle folle e delle ragazzine, personaggio spettacolare ben più del freddo, “computer”, Niki Lauda. Anche la stampa gli volta le spalle: dopo gli inevitabili panegirici del suo rientro a Monza sembrano un po’ tutti interdetti perché nelle interviste fa apparire normale, invece che eroico, il suo atteggiamento. Le omeriche concioni che hanno narrato le sue gesta brianzole sono sfumate via via in perplessi, disillusi e financo scostanti articoli che sembrano raccontare di un impiegato che va al lavoro di mercoledì che non di un Achille che si appresta a sfondare le mura di Troia. Così non va bene, pensano tutti senza dirlo.

Si ritrova senza alleati tranne uno.

Mario “piedone” Andretti da qualche gara sembra più convinto, più costante, più veloce e porta il muso della sua Lotus JPS là davanti più spesso di quanto ci si aspetti. L’espressione del campione italo-americano è di quelle che non fanno sconti. Dopo tante stagioni a correre di qua e di là dall’oceano, spizzicando la Formula 1 come se fosse il boccettino dei salatini di un cocktail-bar, questa volta decide di fare sul serio. Forse sa che la mente di quel geniaccio di Chapman ha già in mente uno sviluppo sorprendente e vuole tenere ben saldo il posto. Quindi lì in Giappone decide che non ce n’è per nessuno. Tutte le sessioni davanti, pole position e sembra dire che del campionato degli altri non glie ne frega nulla: “io vinco, poi vedetevela voi”.

Niki lo scorge, lo annusa, lo vede sicuro e si compiace dei numeri che vede sui cronometri. Poi vede che Hunt inizia le sessioni col “braccino” e anche se alla fine delle qualifiche riesce a piazzare la sua McLaren tra lui e Andretti non si preoccupa: se la bocca di Hunt sorride i suoi occhi no. Ha paura.

A questo punto il piano è fatto. Il “computer” disegna nella sua mente tutto lo svolgimento della gara: parto senza affanni e lo marco stretto. Il Piedone là davanti piuttosto che farlo passare lo butta fuori e quindi lui sarà costretto ad accodarsi. Io mi accodo a mia volta e lo tengo sotto pressione così Andretti andrà via. Clay parte troppo dietro e non mi darà problemi, devo solo stare attento che Scheckter non faccia qualche pazzia delle sue e vinco il mondiale.

Poi viene giù il diluvio.

 

 

Perfezione, dicevamo, è ciò che porta al compimento, al completamento, alla fine ma “fine” significa anche obiettivo, meta, scopo.

 

 

La piccola cittadina di Nurburg è sovrastata da un’alta collina sulla cui cima si trova un antico castello le cui vestigia dominano non solo la cittadina ma anche il circuito da cui siamo partiti e che da il nome a questo sito. L’epoca della sua costruzione non è certa e si pensa che risalga almeno all’epoca delle sue prime citazioni che gli storici hanno rinvenuto in un documento di nomina imperiale di tale Conte Ullrich e di suo padre, conte Teodorico di Are che si suppone abbia ordinato, per l’appunto, la costruzione del castello. Teodorico di Are era nipote di Odone di Toul, vescovo/conte/condottiero, figura dai contorni sfumati, di difficile collocazione biografica di cui però si sa aver reclamato per sé e per i suoi sodali vescovi di Metz e di Treviri,  la regione di Are. L’istituzione della regione, nesso imprescindibile per poterne reclamare il governo e tramandarne il titolo alla discendenza, avvenne con bolla imperiale in un anno imprecisato tra il 1052 e il 1065 nientepopodimeno che dall’imperatore del Sacro Romano Impero Enrico IV.

Sì, proprio lui, quello che qualche anno dopo fu costretto ad andare a piedi a Canossa a umiliarsi davanti a Matilde per ottenere la revoca della scomunica.

Mi piace pensare, giocando di fantasia, che in questo tortuoso richiamo di riferimenti storici e geografici Enrico IV, nella sua lunga e penitenziale camminata dalla Germani a Canossa, sia passato per Maranello (in fondo non è improbabile: anche allora il Brennero era imprescindibile punto di accesso all’Italia) e qui abbia brevemente sostato per bere un sorso d’acqua, magari presa da un pozzo che mai si sarebbe immaginato essere giusto sotto l’ufficio che nove secoli dopo sarà di Enzo Ferrari.

Tre giorni ha dovuto penare Enrico IV, prima che Matilde gli desse udienza. Umiliazione talmente grande che passerà alla storia anche come idiomatico modo di dire.

E mi piace pensare che Niki Lauda, quel giorno sotto il diluvio, stesse pensando a qualcosa di simile all’umiliazione di Enrico IV. Avrebbe vinto il mondiale e tutti coloro che non ci avevano creduto, tutti coloro che l’avevano dato per morto, che non lo volevano più in Formula 1, che non gli hanno dato neanche il beneficio d’inventario di vedere il suo corpo in una bara, tutti ma proprio tutti avrebbero dovuto prostrarsi ai suoi piedi e chiedergli perdono.

Venite pure a Canossa, infedeli che non siete altro!, voi della squadra, voi del paddock, voi giornalisti e vieni anche tu, Enzo, che già stavi cercando chiodi e martello per mettere la mia foto su quella parete là.

Venite a inginocchiarvi davanti a me, mentre inforco il gommone di alloro che mi proclama campione del mondo.

Venite.

 

Sarà il finale perfetto per questa stagione. Perfectus

 

Ma.

 

La paura di vincere che aveva scorto negli occhi di James, contraltare disperato al suo sorriso larger-than-life che tanto faceva impazzire le ragazze, se la vide comparire specchiata dalla visiera del suo stesso casco, accompagnata da qualcosa di ancora più profondo e atavico.

La paura della morte.

 

Niki parte male, nel diluvio.

Non vede nulla e non capisce più nulla. La paura non è più quella del brivido della velocità, quella la sa gestire. No. Quello è terrore, timor panico e, in definitiva, la paura che il destino che aveva schivato al Nurburgring stia per pararsi innanzi a lui sotto la beffarda forma di una bandiera a scacchi definitiva. Il compimento, il completamento, la fine della sua vita era lì davanti a lui, pronta a manifestarsi ad ogni scintillio delle candele del suo 12 cilindri a V.

 

Cosa è perfetto? Cosa è Per-fectus? La fine?

 

Tutto è cominciato con una imperfezione: la sbandata al Nurburgring che ha generato l’incidente.

Ma continua, Niki, con l’imperfezione: non muore. Doveva morire, tutti si aspettavano che morisse, la perfezione, ossia il compimento di quanto accaduto con l’incidente, proprio quello richiedeva ma lui non muore. E’ ancora lì.

E continua ancora: doveva stare a casa, riposarsi e riprendersi. Ma lui no, ritorna in fretta. Persino il riposo è imperfetto.

E poi ancora più imperfetto: si presenta al via dell’ultimo GP in testa alla classifica ma lui non doveva essere lì.

Imperfetto, poi, è il suo atteggiamento: no, signori, no. Non c’è nessun eroismo in quel che faccio. Sto facendo solo il mio lavoro.

E se perfezione significa portare tutto a compimento e completamento allora sapete che faccio? Sarò, ancora una volta, imperfetto.

Sarò imperfetto esattamente come lo sono stato quando ho sbandato al Nurburgring prima di stamparmi contro il guardrail.

L’ho sbagliata, quella S, sì. L’ho sbagliata, sono stato imperfetto.

Sono passati solo 2 giri, mi fermo, chissenefrega, bravo James se tira dritto fino in fondo e vince, mi fermo, non ne ho bisogno, chi me lo fa fare? Mi fermo subito, andate avanti voi, poi saluto tutti.

 

(c’è poi un uomo, anzi un Uomo, che quando vede fermarsi la Ferrari numero 1 ai box capisce tutto subito)

 

“diciamo che è un problema elettrico, ok?”

“no, Mauro, va bene così, ci vediamo mercoledì in ufficio che mi offri il caffè”

 

Scorrendo la classifica dei primi  otto arrivati al Nurburgring 1976 si vede che cinque sono morti prematuramente:

James Hunt, divorato dai suoi fantasmi, viene trovato morto in casa nel 1993 a 45 anni

Carlos Pace, in un incidente su un aereo privato, nel 1977 a 32 anni.

Gunnar Nilsson, portato via da un male incurabile, nel 1978 a 29 anni.

Rolf Stommelen, un grave incidente in gara prototipi, nel 1983 a 39 anni.

Tom Pryce, un orribile incidente a Kyalami, nel 1977 a 27 anni

 

Scorrendo la classifica dei primi otto arrivati a Fuji 1976, oltre a Hunt e Nilsson vediamo anche:

Patrick Depailler, perito in un grave incidente nel 1980 a 35 anni

 

Pure Clay Regazzoni compare nelle due classifiche: un incidente a Long Beach nel 1980 lo rende paraplegico per il resto della sua vita conclusasi, ironia del destino, con un incidente in autostrada, nel 2006.

 

Per-fectus non è la fine, è IL fine: portare a casa la pellaccia.

Giochiamo con il destino dentro quei circuiti ma la vita non è un gioco. Tutti gli sport si prestano a metafore ove vittoria=vita e sconfitta=morte ma dopo ogni partita si ricomincia. Nella Formula 1, purtroppo e troppo spesso, quella metafora perde il suo senso retorico e si tramuta in qualcosa di reale. La ricerca della perfezione è il suo fascino più grande perché confina, spaventosamente, con la linea più estrema di tutte.

Mentiremmo a noi stessi se non sapessimo che nel profondo è questo tipo di perfezione che cerchiamo quando, ogni domenica in ogni circuito, ci sediamo nella monoposto insieme ai piloti. Vorremmo provare le loro stesse emozioni, giriamo un volante ideale, nell’aria, disegnando quella curva nel miglior modo possibile, sentiamo il piede sinistro avere un fremito prima della staccata durante un camera car. La cerchiamo anche noi, quella perfezione. Ma quella perfezione è anche il limite da non toccare mai.

 

Ce lo ha insegnato Niki: se lo tocchi ti bruci.

Letteralmente.

Meglio essere un po’ imperfetti.

In tutti i sensi.

 

Almeno…

 

… se vuoi avere qualcosa da raccontare mercoledì prossimo, in ufficio, davanti a un caffè.

 

Metrodoro il Teorematico