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Campioni del mondo e campioni delle occasioni perse

In attesa dell’inizio del mondiale, fra soli 7 giorni, smettiamo per un attimo di parlare del sottosterzo della SF70H  o dei presunti problemi della Mercedes, e occupiamoci dei guai del povero Fernando Alonso, che con quella che sta per iniziare farà 11 stagioni senza vincere il mondiale, una in più della ex squadra dei sogni, la Ferrari.

La storia della F1 è piena di quelli che potremmo definire i campioni delle occasioni perse, coloro cioè che sulla carta potevano meritare più mondiali di quelli che hanno poi effettivamente vinto, ma hanno sprecato occasioni con scelte e comportamenti sbagliati.

Partiamo proprio da Fernando, che nel 2006, anno della vittoria del suo secondo mondiale, pareva lanciato a raggiungere e superare, in breve tempo, il rivale dell’epoca, Michael Schumacher. Non è andata proprio così, anche per la sua incapacità di gestire le situazioni difficili interne alla squadra per la quale correva. Come invece sapeva fare Prost, uno di quelli che poteva diventare campione delle occasioni perse (ben 5 mondiali persi per pochissimo), ma ha avuto la grande abilità di fare tesoro dei propri errori e soprattutto di sapersi adattare anche nelle situazioni scomode, prima fra tutte quella con Senna nel 1989, quando vinse il mondiale di furbizia, sapendo di essere inferiore al brasiliano in pista, e di avere pure il team contro. E recuperando successivamente un’altra situazione potenzialmente in grado di troncargli la carriera, il licenziamento da parte della Ferrari nel 1991, che, col senno di poi, costò carissimo più alla Ferrari stessa che non a lui.

Un altro pilota al quale il proprio carattere ha impedito di raggiungere ben altri risultati rispetto a quelli con i quali è stato consegnato alla storia è Carlos Reutemann. Grande promessa a metà degli anni ’70, ha avuto l’abilità di passare dalla perdente Ferrari alla vincente Lotus proprio nel momento in cui i ruoli si sono invertiti. Dopodichè è riuscito a passare all’auto vincente del momento, la Williams, ma solo accettando un ruolo di seconda guida, che la squadra ha rispettato fino in fondo facendogli perdere il mondiale nel 1981.

E poi c’è Mansell. Che di occasioni nella sua carriera ne ha perse tantissime. Gomme esplose, dadi non fissati, incidenti.  E poi, quando la carriera sembrava finita, è arrivata quella giusta, con la favolosa Williams.

Se confrontiamo i piloti che le occasioni le hanno colte da quelli che le hanno perse, constatiamo facilmente che la differenza fra i primi e i secondi non è la velocità in pista ma la capacità di riconoscere le situazioni scomode, gestendole o anticipandole.

E qui ritorniamo all’attualità: Alonso aveva capito, 3 anni fa, che con la Ferrari non sarebbe andato da nessuna parte, ma ha fatto la scelta più comoda, e anche l’unica possibile, quella della McLaren-Honda, che si è poi rivelata un disastro e lo sarà anche quest’anno, per la terza stagione consecutiva. E avremo il pilota complessivamente più forte relegato alla lotta per il decimo posto. All’estremo opposto c’è Hamilton che è costretto a vincere il suo quarto mondiale, considerando che di fianco ha un pilota che nessuno considera un fenomeno, ed è appena stato battuto da un altro che fenomeno non era (considerato). E per di più guida un’astronave (dando per scontato, come pare evidente dalle varie analisi che sono circolate in questi giorni, che anche quest’anno sarà tale). Ma Lewis sembra proprio essere uno di quelli che le situazioni scomode le soffre, e se, per caso, Bottas dovesse rivelarsi un osso duro, potremmo assistere alla crisi di un campione.

Lasciando da parte i piloti Ferrari, visto che entrambi le loro occasioni le hanno colte e anche perse (soprattutto Kimi), la stagione che sta per iniziare ci dirà se Ricciardo assomiglia più a Reutemann o a Prost. Inutile dire che si trova in una situazione molto scomoda, dato il compagno di squadra che si ritrova. C’è un grosso punto interrogativo sulla competitività della Red Bull, è auspicabile che quel ritardo che i test hanno evidenziato si riveli in realtà molto minore rispetto alle stime che sono circolate, perchè in quel caso ne vedremo delle belle, con i due a battagliare duramente fra di loro e con gli avversari. Sicuramente il buon Daniel si merita di guidare un’auto competitiva e di raggiungere grandi risultati, ma è ormai alla sua settima stagione in F1, e all’attivo ha solo 4 vittorie. Questo per lui sarà inevitabilmente l’anno della verità.

E poi ci sono i giovani. In particolare Stroll e Ocon che hanno un mezzo in grado di farli arrivare costantemente a punti, e potenzialmente anche sul podio. Soprattutto il primo dei due avrà gli occhi addosso, essendo debuttante assoluto e sospettato (per usare un eufemismo) di essere un pay driver. A lui è stata data una grande occasione, vedremo se saprà sfruttarla.

Fra pochi giorni ne sapremo di più, e molti dubbi si trasformeranno, finalmente in certezze. Da molti anni non vi era un’attesa così alta per la prima gara, speriamo che venga ripagata da un adeguato spettacolo in pista, e, soprattutto, che il fattore umano torni a fare la differenza, come ci è stato promesso con l’avvento delle nuove auto. Perchè il dubbio più grande è proprio questo.

Sospensioni attive: quando il futuro ritorna al passato

Nella storia della F1 si sono viste tecnologie estremamente interessanti abolite per ragioni di costi e/o sicurezza, e che poi sono state successivamente reintrodotte. E’ il caso del motore turbo e vi potrebbe essere, il prossimo anno, quello delle sospensioni attive.

Il caso che si è creato recentemente a proposito dei sistemi sospensivi è stato spiegato molto bene in questa sede sia per quanto riguarda il quesito posto dalla Ferrari sia per la risposta della FIA. A scatenare la curiosità di Maranello sono state le soluzioni che Mercedes e Red Bull hanno già utilizzato nella passata stagione. Leggendo l’ottima spiegazione fornita, a chi scrive, che ha più dimestichezza con bit e byte rispetto a fisica e meccanica, è sorta spontanea una domanda: ma come si fa a definire una sospensione “passiva” in presenza di una retroazione che consente di modificare il comportamento di un tradizionale meccanismo basato su molla e ammortizzatore? Può questa retroazione essere demandata ad un fluido e a dispositivi meccanici, senza che ci sia una elaborazione che attivi degli attuatori che a loro volta regolano la pressione nel circuito idraulico? Perché è evidente che utilizzando una centralina elettronica questo (e anche di più) si potrebbe fare molto più facilmente ed efficacemente, ma il regolamento lo vieta dal lontano 1994, anno in cui furono bandite le cosiddette sospensioni attive.

E allora, anziché rispondere al suddetto quesito, il che richiederebbe l’intervento di un esperto qual chi scrive non è, può essere interessante, come facciamo ogni tanto, guardare al passato per capire dove potremo andare in futuro. E il passato in questo caso ci fa andare indietro di un numero di anni tondo tondo, esattamente 30. Era il 1987 quando un macchina gialla guidata da una futura leggenda della F1 portò per la prima volta alla vittoria un sistema di sospensioni controllate elettronicamente. Non a caso quella macchina era una Lotus. Perchè era stato il geniale Chapman a sviluppare un simile sistema su una vettura di F1, 5 anni prima. Chi aveva preso in carico il team aveva deciso di riprendere quel progetto e di svilupparlo per usarlo in gara.

Anno 1987, dicevamo. La Lotus aveva abbandonato il motore Renault. I giapponesi volevano iniziare la collaborazione con Ayrton Senna, e così arrivò il miglior motore del momento, l’Honda, anche se nella versione dell’anno precedente, visti gli accordi esistenti con la Williams. Dopo tanti anni cambiò anche il colore, dal nero JPS al giallo del nuovo sponsor tabaccaio. La macchina di quell’anno era siglata 99T, e passerà alla storia, oltre che per essere la prima auto con sospensioni attive a disputare una stagione intera, anche per essere l’ultima Lotus vincitrice di un GP. Negli anni successivi la competitività del team scemò rapidamente, e la storia in F1 di questo glorioso marchio si interruppe a metà degli anni 90 (non vanno considerati, ai fini dell’albo d’oro, gli utilizzi del marchio stesso fatti in tempi recenti).

Il vantaggio offerto da un sistema di sospensioni attive, è in teoria enorme. Una centralina elettronica, elaborando in tempo reale i dati rilevati da sensori in grado di “leggere” le forze agenti sulle ruote, nonchè l’assetto grazie ad una piattaforma inerziale, invia i comandi ad attuatori idraulici posizionati su ognuna delle 4 sospensioni, regolandole indipendentemente per consentire alla vettura di mantenere un assetto sempre costante in termini di altezza da terra. Con grandi benefici sia dal punto della stabilità che dell’aerodinamica. Negli anni ’80 la tecnologia consentiva già di realizzare sistemi efficienti e miniaturizzati al punto giusto per potere essere montati su una vettura di F1, dove dimensione e peso sono parametri di vitale importanza.

La 99T consentì ad Ayrton Senna di ottenere 6 podi (sarebbero stati 7 senza la squalifica nell’ultima gara in Australia), con due vittorie non casualmente ottenute nei due circuiti con l’asfalto più irregolare, Montecarlo e Detroit. Il brasiliano si piazzò terzo in campionato, decisamente un ottimo risultato per una vettura spinta da un motore dell’anno prima e dotata di una tecnologia così innovativa. Segno che si trattava di una soluzione estremamente interessante. Che però la Lotus non montò sul modello successivo, ritenendo il sistema troppo pesante (25 kg) a fronte della cospicua perdita di cavalli (quasi 300) dovuta alla diminuzione per regolamento della pressione di sovralimentazione da 4 a 2.5 bar, considerando anche che almeno il 5% della potenza del motore serviva per mantenere il sistema stesso in funzione.

Nel frattempo anche la Williams sviluppò un suo sistema denominato “reattivo” in quanto la Lotus aveva il copyright del termine “attivo” per la F1, e facendolo debuttare nel GP di Monza che Piquet vinse. Ne continuò lo sviluppo anche per l’anno successivo, quando dal motore Honda passarono al molto meno potente Judd aspirato. Il quale, con quasi 400 cv in meno, non riusciva a mantenere in funzione il sistema garantendo una adeguata velocità di punta. Questo, unito ad un’elevata instabilità che rendeva le macchine inguidabili (al punto che a Silverstone il venerdì entrambe le auto erano lentissime e le sospensioni reattive furono smontate in tutta fretta durante la notte) portò all’abbandono temporaneo del sistema.

Le sospensioni attive ricomparvero sulla Williams FW14 del 1991 e sulla successiva FW14B del 1992, una delle vetture più sofisticate e dominanti della storia, la quale disponeva anche di cambio semiautomatico e controllo di trazione. Addirittura il sistema montato su quella vettura prevedeva la pre-programmazione della mappa della pista per potere adattare l’assetto con più precisione e tempestività.

Nel 1992 fu quindi chiaro che per vincere era necessario dotarsi di quel tipo di tecnologia, e tutti i team iniziarono a svilupparla e a portarla sui campi di gara nella stagione successiva. In alcuni casi con risultati disastrosi, come dimostrano i brutti incidenti di Zanardi a SPA e di Berger all’uscita dei box nel GP del Portogallo del 1993. E proprio in nome della sicurezza, la FIA avvio una serie di iniziative che portarono poi al divieto a fine stagione. Le sospensioni attive furono inizialmente considerate come parte di un vietatissimo sistema aerodinamico mobile, con minaccia di esclusione di tutte le vetture che ne facessero uso, poi, a seguito delle proteste dei team, si concesse una deroga fino a fine stagione.

Ma la messa al bando delle sospensioni attive anzichè migliorare la sicurezza diede vita alla tragica stagione 1994. Le FIA non pensò di introdurre contemporaneamente modifiche regolamentari sull’aerodinamica tenendo in considerazione il fatto che le auto non potevano più viaggiare ad altezza costante da terra. Le squadre osarono troppo, mantenendo altezze (e pressioni delle gomme) bassissime, e consegnando così ai piloti monoposto molto instabili. Quali furono le conseguenze è noto.

Negli anni successivi i team hanno cercato ossessivamente modi per ottenere da sistemi sospensivi passivi gli stessi risultati che si avevano con le sospensioni attive. Si è visto il mass damper, poi il FRIC e ora sistemi con terzo elemento idraulico, sui quali abbiamo già espresso dubbi sulla reale passività. Come nel 1993, la FIA li ha sempre ritenuti non regolari in quanto parte di sistemi aerodinamici mobili. Ma è ormai evidente che la capacità di controllo è inferiore alla fantasia degli ingegneri e alle possibilità offerte dalla tecnologia. E, a questo punto, sarebbe forse più logico ammettere nuovamente questi sistemi, anche perché, al pari dell’ibrido, si stanno diffondendo anche sulla produzione di serie. Esattamente come tecnologie quali ABS, controllo di stabilità, controllo di trazione, cambio automatico, tutte non ammesse in F1.

Sembra che i team abbiano già chiesto alla FIA di riammettere l’uso delle sospensioni attive per il 2018, ma c’è ancora tutta la stagione 2017 da correre e non è improbabile che il tema delle sospensioni “quasi-attive” sia fonte di grandi discussioni già a partire da Melbourne. Con le solite minacce fra i team che poi sfoceranno sicuramente in compromessi come avvenne nel 2011 a Silverstone per gli scarichi soffiati. C’è da credere che a beneficiarne saranno sempre i soliti.

Caro Colin ti scrivo…

Ci sono uomini che hanno fatto la storia dell’automobile, in ambito sportivo ma non solo. Uno di questi è Enzo Ferrari, di cui ieri abbiamo degnamente ricordato il compleanno. Un altro è di sicuro Colin Chapman, la cui eredità, a differenza di quella del Drake, è costituita in larga parte dalle sue splendide monoposto, visto che l’attività di costruttore di auto stradali non ha avuto la stessa fortuna.

Il fondatore della Lotus era un tecnico di grande valore, con una incredibile vocazione all’innovazione, da perseguire a tutti i costi. Perchè, diversamente da come la pensava il Drake, all’innovazione e alla performance secondo lui si poteva sacrificare tutto il resto. Anche la sicurezza del pilota. Ed è proprio di questo aspetto, nel tempo oggetto di tante critiche, che vogliamo parlare.

Lo facciamo tornando ad un episodio forse poco conosciuto, risalente al 1969. Siamo al Gran Premio di Spagna, disputato sul pericolosissimo circuito cittadino ricavato sui viali del parco del Montjuic a Barcellona. Il protagonista è Jochen Rindt, alla guida della Lotus 49, una delle creazioni di Chapman destinate ad essere consegnate alla storia. La macchina che due anni prima aveva portato al debutto, vincendo, il glorioso motore Cosworth, e che l’anno precedente aveva vinto il campionato con Graham Hill dopo la prematura scomparsa di Jim Clark.

Da circa un anno in F1 avevano fatto la loro comparsa gli alettoni. I progettisti avevano capito che montando le ali al contrario rispetto agli aerei potevano ottenere una utilissima spinta verso il basso. Ciò però che non avevano ancora ben compreso era la modalità con la quale queste ali rovesciate funzionavano. Non conoscevano la reale dimensione dei carichi, in termini di kg, e nemmeno con precisione il percorso dei flussi d’aria. Era però chiaro che più le ali lavoravano in aria pulita e meglio era. Per questo motivo gli alettoni posteriori venivano posizionati sempre più in alto, e aumentavano sempre più di dimensione. Fino a quando la Lotus si presentò con una ala di due metri di larghezza posizionata ad un metro e mezzo di altezza e appoggiata praticamente su due bastoncini. In nome della massima leggerezza, che era una vera e propria ossessione per Chapman.

E in gara accadde ciò che, guardando le foto con le conoscenze di oggi, potremmo giudicare più che logico accadesse: il supporto dell’alettone posteriore cedette e Rindt ebbe un incidente dal quale uscì piuttosto malconcio, anche se con ferite non gravi dalle quali si riprese abbastanza in fretta. Ma la cosa interessante è ciò che successe dopo. Il campione austriaco prese carta e penna e scrisse a Chapman una lettera che diceva più o meno così: “caro Colin, le tue macchine sono maledettamente veloci, ma da quando guido per te ho avuto diversi guasti meccanici che potevano avere conseguenze molto serie. Ti suggerisco due cose: irrobustisci i pezzi più deboli, perchè qualche pound in più di sicuro non inciderà troppo sulla velocità delle auto, e prenditi del tempo per controllare che i tuoi addetti facciano le cose per bene“.

Il primo suggerimento colpiva Chapman proprio nel cuore delle sue convinzioni, e qui ci leghiamo ad un secondo documento scritto questa volta dallo stesso Colin. Correva l’anno 1975, quindi 6 anni dopo la lettera di Rindt. La Lotus attraversava un periodo di crisi, dopo i successi della 72, che era ormai alla sua sesta stagione e aveva finito il suo lunghissimo ciclo vincente. L’idea dell’effetto suolo doveva ancora arrivare, e per cercare di trovare la via del ritorno alla vittoria, Chapman scrisse, su un quaderno, un vero e proprio decalogo per progettare un’auto da corsa vincente. E il primo punto recitava quanto segue: “una macchina da corsa ha UN SOLO obbiettivo: vincere le gare“. E, subito dopo: “Può sembrare ovvio, ma ricordate che non importa quanto sia progettata in maniera intelligente, o risulti poco costosa, o semplice da manutenere, o anche quanto sia SICURA, perchè se non vince NON E’ NULLA!”

Tutto questo nonostante la morte di Clark nel 1968, le cui cause non furono mai accertate anche se il cedimento meccanico è sempre stata considerata quella più probabile, il sopra citato incidente di Rindt con successiva protesta scritta, e la tragedia di Monza del 1970 dove il pilota austriaco perse la vita probabilmente a causa del cedimento dell’alberino di uno dei freni anteriori, che Forghieri definì “più sottile di una matita”.

Questo è ciò che ci racconta la storia. E ovviamente Chapman non era l’unico, sia a quell’epoca che in tempi successivi, a giocare con la pelle dei piloti in nome della performance. Era abbastanza normale, soprattutto fra gli inglesi per i quali “motorsport is dangerous”, punto e basta.

La filosofia di Ferrari era completamente differente: le macchine dovevano essere robuste perchè prima di tutto avevano il compito di proteggere il pilota. Quando Lauda ebbe l’incidente al Nurburgring, venne chiamato un perito ad esaminare i rottami, e la conseguente relazione fu data ai giornalisti perchè fosse pubblicata, a testimonianza che nulla sulla macchina si era rotto. E sei anni dopo quando ci fu la tragedia di Villeneuve, anche a seguito delle pesanti critiche arrivate da più parti, venne condotta una indagine approfondita per escludere una debolezza strutturale del telaio, il quale venne comunque irrobustito.

Fino ad una trentina di anni fa, i progettisti non avevano particolari prescrizioni relativamente alla sicurezza. E quindi c’era un parametro in meno da considerare, proprio come voleva Chapman. Anche la regola sul peso minimo veniva costantemente aggirata dagli inglesi con vari sotterfugi. Poi finalmente qualcosa è cominciò a cambiare, fino a quando i fatti di Imola, causati anch’essi in parte da cedimenti meccanici, hanno imposto la svolta definitiva: la sicurezza DOVEVA diventare un parametro di progetto sottoposto a standard molto precisi cui nessuno poteva sottrarsi. E le tragedie sono finalmente diventate sempre più rare, non solo in F1 ma anche nelle altre categorie che a poco a poco si sono adeguate a questa filosofia costruttiva.

Fra poche settimane conosceremo gli effetti di un cambio regolamentare che è stato fatto specificamente per rendere le auto più veloci, per la prima volta in 50 anni. E, dopo tanto tempo che non accadeva, si è ritornato a parlare di timori per la sicurezza. Riguardando le foto di 50 anni fa non si può fare a meno di pensare a quanto sia cambiata la mentalità di chi progetta ma anche di chi guida le auto. Oggi si disquisisce sul fatto che una sospensione sia più o meno intelligente e possa così far guadagnare qualche decimo di secondo, nel 1969 si montavano alettoni di cui a malapena si conoscevano i principi di funzionamento, fissandoli con un po’ di nastro adesivo, e si andava in pista nella speranza di guadagnare qualche secondo. Cosa che spesso accadeva, anche se nessuno sapeva spiegare perchè. Ma accadevano anche disastri cui si poneva rimedio in fretta e furia e in modo approssimativo.

C’era sì più spazio per la creatività, ma questa veniva anche utilizzata in modo pericoloso per l’incolumità dei piloti.

Se Chapman vedesse il regolamento attuale probabilmente si chiederebbe come mai avendo l’obiettivo di ridurre di 5 secondi i tempi sul giro sia stato aumentato il peso minimo. E, probabilmente, sceglierebbe di fare un altro mestiere.

Lotta per il potere in F1: la guerra FISA-FOCA

Correva l’anno 1980. 20 alla fine del millennio. La F1 era una categoria in piena ascesa, veniva da un decennio in cui tutto era stato grande, le imprese, le tragedie, l’evoluzione tecnologica, l’aumento dell’attenzione mediatica. Da un lato il progresso sul fronte dei motori, con la coraggiosa introduzione del turbo da parte della Renault, e dall’altro l’esasperazione aerodinamica portata da Colin Chapman, frutto della necessità da parte dei team inglesi (o garagisti, come li chiamava Enzo Ferrari) di sopperire alla mancanza di cavalli del motore Cosworth.

Gli inglesi erano sempre stati convinti che la F1 dovesse essere cosa loro. Capeggiati da Bernie Ecclestone, che per primo aveva capito il grande potenziale commerciale della categoria, i team si erano costituiti in una associazione denominata FOCA (Formula One Constructors Association), il cui obbiettivo era tutelare i diritti degli stessi in maniera organizzata, costituendo un’unica entità con la quale trattare con il potere sportivo, rappresentato dalla FISA (Fédération Internationale du Sport Automobile ), emanazione della FIA. La FISA era guidata da una sorta di despota dai tratti fra il comico e il grottesco che di nome faceva Jean Marie Balestre.

Le questioni da affrontare erano tante, e andavano dalla definizione della spartizione dei ricavi fino ai regolamenti tecnici. Perchè di soldi ne iniziavano a girare parecchi. Da qualche anno la F1 godeva di una copertura televisiva continua in moltissime nazioni. C’erano quindi diritti televisivi da gestire, trattative da fare, con organizzatori, televisioni e sponsor, e colui che più degli altri aveva ben chiaro il da farsi era proprio Bernie Ecclestone.

Ma, ovviamente, c’era chi non voleva lasciare in mano tutto agli inglesi, e il fronte contrapposto era costituito dal sopra citato Jean Marie Balestre e, ovviamente, da Enzo Ferrari, che era al tempo stesso stimato e detestato dai team di oltremanica. Soprattutto nell’ultima parte degli anni 70, quando la Ferrari era tornata prepotentemente a vincere.

Come in tutte le guerre, c’è un fattore scatenante, la scintilla che dà il via alle ostilità, e nel nostro caso questa scintilla ha il nome di un vestito femminile molto di moda negli anni precedenti: la minigonna. O, meglio, le minigonne. Una delle tante furbate che gli inglesi mettevano in pista all’epoca per potere stare davanti alla Ferrari. O, se proprio non vogliamo considerarle furbate, possiamo definirle “interpretazioni al limite del regolamento”. Limite che Ferrari non voleva mai nemmeno sfiorare. Le suddette minigonne erano state introdotte da Colin Chapman sulla prima vera wing-car, la Lotus 79, ed erano palesemente irregolari, essendo appendici mobili con funzione aerodinamica. Da Maranello partirono veementi le proteste, motivate non solo da questioni regolamentari ma anche dal fatto che quel motore 12 cilindri a V di 180° che negli anni precedenti era stato il punto di forza delle rosse, non consentiva, per l’ampiezza dell’angolo fra le bancate, di realizzare una wing-car perfetta, ed era così diventato improvvisamente un punto di debolezza.

E, in più, a Ferrari l’idea che il motore non fosse l’elemento vincente di un’auto non piaceva troppo. Si creò così il cosiddetto fronte dei “legalisti”, costituito dai team che pretendevano il rispetto totale del regolamento tecnico deciso dalla FISA. Niente minigonne e niente furberie similari. E, magari, meno potere agli inglesi. Questo fronte coincideva con il gruppo dei costruttori all’epoca impegnati in F1, Ferrari, Renault e Alfa Romeo, cui si aggiunsero nel tempo altri team minori non inglesi, come la Osella.

Lo scontro fra i due fronti era quindi nominalmente dovuto a questioni regolamentari, ma il vero motivo erano ovviamente i soldi e la gestione della F1 più in generale.

La guerra fra legalisti+FISA da una parte, e FOCA dall’altra, iniziò alla fine del 1979 e si protrasse per poco più di due anni, anche dopo la firma di quel Patto della Concordia che dal 1981 regola la F1, e che continuerà a farlo almeno fino al 2020, attraversando quindi 4 decenni, caratterizzati da mutamenti del contesto economico internazionale, della tecnologia, dei gusti del pubblico, dei mezzi di comunicazione. Avendo, almeno fino ad ora, due punti fermi: Ecclestone e la Ferrari. Con il primo che riuscì abilmente a fare assegnare alla FOCA (e quindi a se stesso) la gestione dei lucrativi diritti televisivi, e con la seconda destinataria di un bonus permanente garantito. Facendo inoltre arricchire in modo spropositato molti (non tutti) fra coloro che parteciparono alla costituzione dell’accordo.

Alcune delle battaglie di questa guerra si svolsero sulle piste. Ci furono GP corsi con solo i team di un fronte o solo quelli dell’altro: il GP di Spagna del 1980 e quello del Sudafrica del 1981, entrambi corsi dai soli team inglesi, e il GP di San Marino del 1982 corso ad Imola, cui parteciparono i soli team legalisti con l’aggiunta della Tyrrell che aveva sponsor italiano. I primi due non ebbero validità mondiale e furono entrambi vinti dalla Williams, con Jones e Reutemann, e il terzo è passato alla storia per il nefasto duello Pironi-Villeneuve.

Se nel caso del GP di Spagna e di quello di San Marino il forfait di parte dei team fu una forma di protesta decisa durante il week-end di gara o poco prima, il GP del Sudafrica del 1981 fu un atto di sfida pianificato nei confronti della FISA, volendo essere, in effetti la prima prova di un campionato alternativo organizzato da Ecclestone e a cui avrebbero dovuto partecipare i team appartenenti alla FOCA. Si corse con un regolamento che non era quello previsto dalla FISA per quell’anno, e non ebbe un particolare successo.

Nel 1981 la prospettiva di avere due campionati fu quindi concreta, e in effetti vennero divulgati i due calendari, quello della FISA e quello della FOCA. Ma, visto anche lo scarso successo del GP del Sudafrica, le parti compresero che nella divisione entrambe ci avrebbero perso (come in effetti successe tanti anni dopo negli Stati Uniti con lo split fra Cart e IRL, avvenuto per motivi in un certo senso analoghi e che ha poi comportato la distruzione di un campionato che negli anni ’80 e ’90 era arrivato a fare concorrenza alla F1 stessa).

Fu quindi trovato l’accordo per correre tutti assieme nel 1981. La Ferrari ottenne l’abolizione delle minigonne e l’imposizione dell’altezza minima da terra di 6 cm, ma i team inglesi aggirarono subito la norma grazie ai martinetti idraulici. E il campionato si concluse con la vittoria della Brabham di Ecclestone. E così per il 1982 fu abolita la regola dell’altezza da terra, di fatto inefficace, e si tornò al regolamento del 1980. Non passò però la richiesta degli inglesi di ridurre la cilindrata dei motori turbo. Nel corso di quell’anno il divario fra turbo e aspirati era diventato di un centinaio di cavalli, troppi per essere compensati con l’aerodinamica. E così si inventarono il trucco dei serbatoi di raffreddamento dei freni, giocando sul fatto che il peso minimo si misurava dopo avere rabboccato i liquidi di qualsiasi tipo, carburante escluso. Di fatto Williams, Brabham e compagnia correvano con decine di kg in meno rispetto alle legalissime Ferrari e Renault, e riuscirono a tenerne il passo nelle prime gare. Ma, dopo le forti proteste dei legalisti stessi, la FISA tolse loro i risultati ottenuti e per protesta gli inglesi disertarono in massa il GP di San Marino ad Imola. Ma quella fu l’ultima battaglia, anche perchè subito dopo iniziarono le tragedie e diventò chiaro a tutti che l’accoppiata turbo+wing car era eccessivamente pericolosa. Saggiamente, le parti in conflitto decisero di fare l’interesse della F1 fermando le ostilità e dando priorità alle questioni più urgenti, tenendo fede al patto della Concordia firmato l’anno precedente. Furono abolite le wing-car, con l’imposizione del fondo piatto, e i principali team FOCA siglarono accordi di fornitura con grandi costruttori (Honda, Porsche, BMW) eliminando il problema del gap prestazionale, e trasformando definitivamente la F1 da categoria per assemblatori a luogo nel quale le grandi case automobilistiche potevano mostrare al mondo le loro capacità.

Nei decenni successivi vi sono stati altri momenti nei quali si è paventata la costituzione di un campionato alternativo, ma a guidare le fronda erano le case automobilistiche, stanche di incamerare solo una piccola parte dei grandi ricavi che la F1 produce. Perchè i cordoni della borsa li ha sempre avuti in mano Ecclestone, e lui ha sempre trovato il modo di riportare la pace, evitando che dalle intenzioni si passasse ai fatti.

Alla fine non sono stati i costruttori a togliere a Mr E il potere ma coloro che hanno comprato l’intero (o quasi) business. Evidentemente è sempre stato chiaro a tutti il fatto che Bernie, pur gestendo l’azienda quasi come un’impresa familiare, in primissima persona, curando tutti gli aspetti e circondandosi di collaboratori fedelissimi anche se dal curriculum a volte discutibile, ha sempre ottenuto e fatto ottenere a tutti ciò che si aspettavano, e cioè una montagna di soldi. Ma adesso, da qualche giorno, il comando è affidato ad altri.

La conclusione che vogliamo trarre da questo sintetico excursus sulla prima guerra di potere avvenuta in F1 è che se all’epoca le manovre di Ecclestone sembravano quelle di un intraprendente uomo d’affari impegnato a fregare FISA e Ferrari per fare gli interessi suoi e quelli dei suoi amici inglesi, la storia ha poi dimostrato che è proprio grazie a lui se la F1 è diventato un business in grado di generare profitti notevoli per la maggior parte di coloro che vi hanno partecipato. E’ vero che in anni recenti la sua gestione è sembrata non adattarsi al mutato contesto del mercato, è anche vero che, specialmente negli ultimi anni, sono piovute critiche sul Patto della Concordia e sulle modalità di spartizione dei soldi, ma in fin dei conti la F1 ha sempre continuato a portare sulla griglia di partenza un numero più che accettabile di partecipanti laddove altre categorie (MotoGP compresa) soffrivano. E’ ciò è dovuto al fatto che Mr E ha sempre avuto ben chiaro quale fosse l’interesse primario del business, e seguendo la sua linea ha, in fondo, sempre fatto l’interesse di tutti, o, almeno, della maggior parte. Prova ne sia il fatto che i precedenti azionisti di maggioranza hanno comunque voluto che fosse lui a mandare avanti operativamente gli affari. E, dalle voci che girano, la defenestrazione è stata oggetto di accese discussioni fra nuovi e vecchi azionisti.

Terminiamo con una domanda: la triade che è subentrata a Mister E, costituita da due perfetti sconosciuti (per il mondo della F1) e da un conosciutissimo storico nemico di Ecclestone, ancorchè persona estremamente esperta e competente, che di nome fa Ross Brawn, sarà capace di mantenere unita la F1 come di fatto è successo negli ultimi 4 decenni? O, fatto fuori il grande capo, si scatenerà una vera e propria guerra civile, come sempre succede quando un dittatore viene deposto? Se quest’ultima è la risposta, a nostro parere la F1 ha molte meno probabilità di riuscire a sopravvivere come entità unica rispetto a quante ne avesse all’epoca della prima guerra di potere, quella fra FISA e FOCA.

L’arma di una leggenda: la 312 T2

Ci sono auto che rappresentano più di altre un’epoca, per un pilota, per una squadra o per la F1 intera.

Una di queste è rossa, ha due inusuali prese d’aria ai lati dell’abitacolo, fasce tricolori, e un caratteristico cupolino bianco. Ha fatto sognare da bambini tanti di noi, contribuendo a far nascere una passione che ci saremmo portati dietro per tutta la vita.

Signore e signori, ecco a voi la splendida 312 T2, che a partire dal GP di Spagna del 1976 e fino al GP del Brasile 1978 ha collezionato 8 vittorie, la maggior parte delle quali ottenute dal pilota che con essa ha viaggiato dal paradiso all’inferno e ritorno: Niki Lauda.

La storia di questa mitica vettura comincia nel 1975, quando Forghieri progetta la 312 T, monoposto innovativa rispetto alla pur vincente 312 B3 seconda edizione, che riportò in alto la Ferrari dopo anni molto bui, dando la prima vittoria a Niki Lauda e sfiorando il titolo mondiale con il grande Clay Regazzoni, recentemente ricordato su queste pagine. La 312 T era un progetto completamente diverso dalla B3, sia per il ritorno al telaio in tubi, dopo il non felicissimo esperimento della monoscocca fatta costruire in Inghilterra, sia per l’utilizzo del cambio trasversale, che aveva lo scopo di concentrare le masse sospese, dando maggiore equilibrio alla monoposto. All’epoca l’aerodinamica influiva ancora poco sull’assetto, e il bilanciamento veniva ricercato lavorando sulla distribuzione dei pesi e sulla meccanica. Da questo punto di vista, l’altro elemento importante della vettura era il motore boxer, che non era solo più potente rispetto al Cosworth utilizzato da quasi tutti gli avversari, ma consentiva anche di abbassare il baricentro della vettura.

La 312 T si dimostrò da subito una vettura vincente, e consentì a Niki Lauda di vincere il suo primo titolo. Andò in pista anche nella stagione successiva (come usava all’epoca), vincendo le prime 3 gare, ma dal GP di Spagna cambiò il regolamento e vennero abolite le vistose prese d’aria motore che da qualche anno caratterizzavano le vetture di F1. Fu quello il momento di schierare la 312 T2, che ne riprendeva forme e colori ma ovviamente non presentava la presa d’aria dietro l’abitacolo, sostituita in modo molto originale da due grandi prese NACA poste ai lati dell’abitacolo.

In generale, la nuova vettura rappresentava un affinamento del progetto precedente, di cui riprendeva completamente la filosofia. Ma il suo progettista, Mauro Forghieri, non era uno che dormiva sugli allori: sapeva sviluppare le soluzioni vincenti senza rinunciare a provarne di nuove. E, infatti, alla presentazione la T2 sfoggiava anche due copriruota all’anteriore, che in teoria dovevano essere prese d’aria dei freni ma che avevano ovvie funzioni aerodinamiche, e per questo furono vietati.

La T2 continuò la striscia vincente iniziata dalla T. Fino a quando Lauda non fu vittima del terribile incidente al Nurburgring, sul quale tanto è stato detto, scritto e anche rappresentato. Lauda ha sempre sostenuto che a causare l’incidente fu un cedimento della sospensione (teoria ripresa anche nel film di Ron Howard), mentre la Ferrari ha sempre sposato la tesi dell’errore del pilota, con tanto di perizia di un esperto pubblicata sui giornali a dimostrare che la vettura non solo non aveva ceduto, ma era anche dotata di tutti i dispositivi di sicurezza richiesti.

Sicuramente, a partire proprio da questo episodio, la Ferrari fece in modo di perdere quel mondiale praticamente già vinto, preoccupandosi più di sostituire il pilota infortunato che non di salvaguardarne la tranquillità e la leadership in campionato. L’esito di questa strategia lo sappiamo tutti, il mondiale andò ad una vettura e ad un pilota che di sicuro lo meritavano molto meno rispetto a Lauda e alla T2. Ciò detto con il massimo rispetto per James Hunt e per la McLaren M23, che pure era una grande macchina.

La T2 ebbe modo di rifarsi nella stagione successiva, nella quale venne schierata con ulteriori affinamenti fra i quali il più vistoso era sicuramente il rimpicciolimento delle prese NACA anteriori. La concorrenza si era nel frattempo avvicinata molto, con la neonata Wolf vincente al debutto, e la Lotus che schierò la prima wing-car, la 78, la quale soffriva però spesso di problemi di affidabilità.

Affidabilità che invece non mancava alla T2, e che, unita alla superiorità di Lauda come pilota, consentì a lui e alla Ferrari di portare a casa il mondiale, con 3 vittorie all’attivo (all’epoca potevano essere sufficienti). Dopodichè Niki se ne andò anzitempo, stanco di un ambiente che gli sembrava non avere più fiducia in lui. E allettato dai soldi offerti da Ecclestone. Come andò per lui e per la Ferrari nei due anni successivi lo sappiamo tutti.

Per la T2 però la carriera non era finita, e venne ripresentata in pista per le prime due gare della stagione 1978, vincendo la seconda in Brasile, grazie anche alle gomme Michelin che si adattarono benissimo al torrido clima di Rio. In questo modo la T2 vinse sia la sua prima gara che l’ultima, totalizzando 8 vittorie, 6 con Lauda e 2 con Reutemann. Il quale non gradì per nulla il passaggio alla 312 T3, chiedendo insistentemente a Forghieri di ritornare al modello precedente, ovviamente senza successo.

La T2 è stata guidata da Niki Lauda, Clay Regazzoni, Carlos Reutemann e Gilles Villeneuve. 4 piloti mitici, diversissimi fra di loro, che hanno consacrato questa vettura fra le più significative dell’intera storia della Formula 1. Riguardarla oggi nelle videocronache dei GP di 40 anni fa sempre venire tanta nostalgia dei tempi andati, quando un manipolo di persone appassionate e competenti erano in grado di progettare, costruire e gestire in pista vetture destinate a ritagliarsi un posto nella storia, assieme ai piloti che le guidavano.

P.S.
Nel 1977 venne anche provata una versione della T2, denominata T6, con ruote posteriori gemellate modello camion, che non fu mai portata in gara perchè non rispettava le misure della carreggiata imposte dal regolamento.
Circolò pure una foto, divenuta famosa, di una versione con 8 ruote. Si trattava di una bufala mediatica ante-litteram, ma furono in molti a credere che una vettura simile avesse girato a Fiorano.