Archivi categoria: Storia

HEARTBREAK RIDGE

Ringers carissimi, per festaggiare degnamente i sacri misteri del giovedì sul Bring eccomi qua ad usare il titolo originale di un film da me ritenuto la pietra angolare di ogni uomo degno di essere chiamato tale per parlare (ed invitarvi a fare altrettanto) delle volte in cui la F1 mi ha spezzato il cuore, sportivamente ed umanamente.

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Quando la Storia diventa marketing

21 maggio 1950: Juan Manuel Fangio conquista la pole position e vince il gran premio di Monaco distanziando di un giro Alberto Ascari, al debutto con una vettura destinata a fare la storia delle corse: la Ferrari.

Per Fangio fu la prima vittoria in Formula 1 e arrivò alla guida dell’Alfa Romeo, che la settimana precedente, nel primo gran premio della storia, “occupò” il podio con Farina, Fagioli e Parnell. La scuderia italiana vinse inoltre tutte le gare stagionali ad esclusione della 500 miglia (allora in calendario) cui non partecipò  e conquistò il titolo piloti con Farina, concedendo poi il bis l’anno seguente con Fangio campione del mondo nonostante un impiego di risorse piuttosto esiguo. Al termine del 1951 l’Alfa venne ritirata in quanto, anche a causa della crescente concorrenza,  non vi fu l’intenzione di affrontare le ingenti spese derivanti da progettazione e produzione di un nuovo modello.

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Formula Frenesia

Al gran Premio di Barcellona possiamo affermare con un certo grado di confidenza di aver assistito alla storia.
Che poi la storia non sempre ci possa essere gradita, questo è un altro paio di maniche, o, come dicono in una delle patrie fondanti del Motorsport, un cavallo di un altro colore.
E di cavalli andiamo oggi a parlare; della loro razza e di quanto si riesca ad inferire sulle loro reali capacità.

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Max Mosley e il sogno di una F1 innocua

I liked the environment but I didn’t like the danger. Of the 21 people on the grid at that Hockenheim F2 race I did [that’s 7 April, 1968, the race in which Clark was killed], three were dead within three months. When you came up against the reality – the real reality, like when they pulled the remains of Roger Williamson out of his car (Zandvoort, ’73), or when that marshal went to pick up Helmuth Koinigg’s helmet and his head was still in it (Watkins Glen, ’74) – and you realized that, by applying a modicum of technology, you could avoid most of these things, it seemed to me completely immoral not to do it.

Con queste parole si apre l’intervista che il presidente della FIA, Max Mosley rilascia a Damon Hill per la testata “F1 Racing”.
Mosley, all’epoca dell’incidente di Zandvoort, è il co-fondatore della March Racing Team ed è lui che viene chiamato in uno squallido scantinato dove hanno parcheggiato quello che resta della monoposto di Roger Williamson, per operare il riconoscimento della salma e per estrarre il cadavere, o quel poco che ne rimane, dall’abitacolo. Nessuno come Mosley ha più ben chiaro cosa sia il rischio nel Motorsport e pochi hanno fatto altrettanto in termini di impegno e progresso per affrancare le competizioni dall’incubo delle tragedie in pista.
E se si guardano le statistiche e i risultati ottenuti non si può che ammettere l’enorme passo in avanti che le competizioni motoristiche hanno compiuto negli ultimi decenni.
Ma come per ogni progresso violento, pare debba essere necessario passare per un altrettanto violento shock da impatto.
Il quinquennio fra il 1973 e il 1977 è feroce con il conto dei decessi in pista fra i piloti che arriva a 5, un commissario e 6 spettatori (gli spettatori erano tutti in aree non adibite alla presenza di pubblico). Nel 1973 vengono ridefiniti gli standard per i serbatoi della benzina, nel 1974 vengono introdotti gli accoppiatori autobloccanti fra il serbatoio e il resto dell’alimentazione della vettura, nel 1977 vengono standardizzati i caschi per i piloti, ridefinite le strutture di protezione intorno ai piedi e introdotti le linee guida per le zone di arresto in “gravel”.
Il miglioramento è netto ma non ancora definitivo e infatti nel quinquennio successivo, 1978, 1982 gli incidenti mortali diminuiscono ma non si arrestano.
Sono gli anni di Peterson, di Villeneuve, anni in cui Motorsport fa ancora rima con “morte in pista”.
Il quinquennio successivo vede l’introduzione della Superlicenza (1984), vengono banditi i rifornimenti in gara (1984), vengono istituiti i crash test strutturali (1985) e introdotte linee guida sull’alloggiamento dei serbatoi nella parte centrale, banalmente la più protetta, delle monoposto (1985).
Viene introdotto lo standard FT5 per i serbatoi del carburante e il volantino a sgancio rapido (1990), vengono normati (abbassati) i cordoli e la Formula 1 finalmente vive un lungo periodo di relativa pace; fino al week end del primo maggio 1994.
E qua torniamo a Max Mosley e alla sua determinazione contro la pericolosità del Motorsport.
FIA reagisce alla tragedia di Imola in maniera forse scomposta e affrettata ma la reazione è unanime e il segnale che la Federazione manda è chiaro: non è più tollerabile morire in pista. Vengono ridefiniti gli standard per i cordoli nel 1997, nel 2001 viene definite le linee guida per le zone di “run off” che non devono più essere in “gravel” ma pavimentate, aumentate le velocità dei test laterali, frontali, introdotti i test intrusivi nel cockpit, introdotti sistemi standard di sgancio delle cinture, innalzato a 40g il test di decelerazione …
La quantità di modifiche e aggiustamenti introdotti diventa impressionante e i risultati si vedono.
Ad eccezione del tragico incidente a Gislimberti a Monza nel 2000 e al commissario deceduto per le conseguenze dell’urto fra Jacques Villeneuve e Ralf Schumacher a Melbourne nel 2001, gli incidenti mortali paiono scomparire dalla Formula 1.
E qua arriviamo al vero nodo di questo scritto.
Che non sono i progressi nella lotta alla pericolosità del Motorsport; lotta destinata a subire continui scorni visto i recenti eventi tragici di Bianchi e della De Villota. Perché per quanti sforzi si possano fare, correre a 300 kmph è pericoloso.
Punto.
Ma nel fatto che per lunghissimo tempo la Formula 1 è stata considerata “sicura”.
E lo è stata in primis dai suoi stessi protagonisti.
Questo ha portato in pista una generazione di piloti bravissimi, preparati e … fatalmente incoscienti.
Le generazioni precedenti erano consce del precario equilibrio su cui si muovevano; erano pronti al disastro in ogni momento e questo moderava enormemente i comportamenti lungo i tracciati. Certo vi erano episodi di bullismo, come lo chiameremmo oggi. Ma quasi sempre era lo stesso pericolo e la percezione dello stesso che sedavano ogni rivalsa.
Perché quando sai bene che mettere la monoposto fuori pista (la tua o quella di chiunque altro) può portare a conseguenze disastrose, prima di un’azione avventata ci pensi due volte.
Col tempo, e con il progressivo edulcorarsi del pericolo in pista è rimasto poco a limitare il comportamento aggressivo e non a caso più il Motorsport è diventato “innocuo” e più sono apparsi come funghi articoli del regolamento sportivo volti a regolamentare un comportamento che prima era banalmente regolato da sé.
Norme sui sorpassi, norme sulle porzioni di macchina da lasciare, norme sul numero di spostamenti di carreggiata concessi, norme su ogni cosa che un tempo avremmo banalmente chiamato “competizione”.
Le vie di fuga asfaltate hanno ridotto notevolmente il rischio di affossamento della monoposto in caso di ribaltamento ma al contempo sono diventate parte integrante della pista e spesso utilizzate come tale.
Oggi il sogno di Mosley di una Formula 1 senza rischi, o quasi, pare più vicino che mai.
Ed è rimasto ben poco a ricordare ai piloti che “Motorsport is dangerous”.
Se da un lato questo ci rende immensamente orgogliosi, bhé dall’altro ci porta a chiederci cosa sarà di uno sport sempre più simile a quei videogiochi in cui, se “muori”, ti basta selezionare dal menu “restart”.

22 ANNI

UN ENORME GRAZIE A MATTEO ZAMBONI, AUTORE DI QUESTO STRAORDINARIO ARTICOLO CHE PUBBLICHIAMO 1 SETTIMANA IN ANTICIPO SULLA RICORRENZA AFFINCHÈ ABBIA LO SPAZIO CHE MERITA LONTANO DAL GP DI SOCHI

Dire qualcosa su Ayrton a 22 anni di distanza è davvero difficile.
Tutto e il contrario di tutto.
Un po’ l’essenza della vita stessa. Della sua sicuro. Della nostra probabilmente anche.
Partirò dalla fine. Con quel casco verde-oro piegato per accompagnare le traiettorie dalla Tosa alla Rivazza. Con quella macchina blu e bianca che non era quello che era stata. Con quell’espressione accigliata che volgeva al ricordo, troppo fresco, troppo crudo, troppo vivo di un Carneade che aveva infranto i suoi sogni, Roland, troppo presto. Alla Villeneuve. Già. Proprio lì. Coincidenze. A volte il destino è bizzarro e sembra voler farti male.

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