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Peter Collins, il destino di un cavaliere

“Eravamo tutti coscienti il giovedì, quando andavamo via da casa, che forse non saremmo rientrati la domenica, lo sapevano anche le nostre famiglie. Eravamo pazzi, eravamo piloti del Gran Premio, erano una posizione e un privilegio unici”. Lo disse l’ex ferrarista Patrick Tambay alcuni anni dopo la fine della propria carriera, con i capelli grigi e la consapevolezza di avercela fatta, di aver sconfitto il nemico più insidioso. Il francese non era pazzo, come tanti suoi colleghi era animato da una passione che lo spingeva ogni volta a mettersi al volante con la consapevolezza del fatto che la morte facesse parte del gioco, un pensiero che per molti oggi potrebbe apparire folle ma che per loro non lo era affatto e ancora meno lo era per i Cavalieri del rischio che negli anni cinquanta scrissero i primi capitoli della storia della Formula 1, lasciando ai posteri pagine in bianco e nero di racconti e aneddoti indimenticabili.

Capelli biondi, sorriso da copertina patinata, sposato con l’attrice Louise King: potrebbe sembrare l’introduzione per un divo di Hollywood, ma a Peter John Collins piacevano le macchine da corsa e il suo mestiere era quello del pilota: nato a Kidderminster nel 1931, suo padre possedeva una società di trasporti e un garage, aspetti che probabilmente favorirono la sua conoscenza delle auto, che presto divennero una grande passione per il giovane Peter, capace di guadagnarsi un test drive a Silverstone che gli fruttò un contratto sia con Aston Martin che con HWM. Mentre in Formula 1 la sua carriera stentava a decollare, in altre competizioni riuscì a far emergere il proprio talento, al punto da convincere un pilota del calibro di Stirling Moss ad ingaggiarlo per la Targa Florio del 1955, competizione che tra l’altro i due si aggiudicarono. Nel 1957, anno in cui il compagno di squadra Castellotti perse la vita durante un test, venne affiancato alla Ferrari dall’amico Mike Hawthorn, un altro personaggio dallo stile inconfondibile, con il fare elegante e quel papillon con cui era solito correre; dal 1958, con l’ottima 246 F1, i due potevano pensare seriamente al titolo, da contendere alla Vanwall di Moss e al compagno di squadra Musso. Nel team non c’era una prima guida e nacque un’intensa rivalità sportiva, l’allora fidanzata di Musso dichiarò addirittura che i due inglesi si accordarono per dividersi i premi in caso di vittoria di uno dei due, per motivarsi a stare davanti al pilota italiano.

Luigi Musso era considerato uno dei piloti più promettenti dell’epoca e la sua stagione iniziò nel migliore dei modi, con due secondi posti a Buenos Aires e Montecarlo poi, dopo due gare deludenti, si arrivò a Reims dove purtroppo tuttò ando storto: il pilota italiano partì secondo alle spalle di Hawthorn che prese il largo, il ritmo di gara era tiratissimo, Musso non ne voleva sapere di lasciarlo scappare, ma al decimo giro uscì di strada alla Curva del Calvaire e finì nel fossato, venne trasportato in ospedale con ferite alla testa molto gravi, troppo, per lui purtroppo non ci fu nulla da fare, aveva 34 anni ed era la seconda vittima di quella stagione dopo Pat O’Connor, deceduto a causa di un incidente al via della 500 miglia di Indianapolis, allora in calendario iridato. La gara proseguì e Hawthorn vinse agevolmente compiendo tra l’altro un gesto nobile: poco prima del traguardo raggiunse Fangio ma rallentò e gli consentì di transitare prima di lui per evitargli l’onta del doppiaggio, una mossa semplice ma dal grande significato, anche perché per l’asso argentino fu l’ultima presenza: a fine gara infatti tornò ai box, guardo i suoi meccanici e disse semplicemente “è finita”. A quasi 50 anni e con cinque mondiali in tasca decise che ne aveva abbastanza.

Il gesto di rispetto dell’elegante pilota inglese nei confronti di Fangio a Reims esemplifica quanto fossero “umani” i romantici condottieri degli anni cinquanta, e a rendere ancor più l’idea di questo aspetto è un fatto accaduto proprio all’amico di Mike, ovvero Peter Collins, motivo per cui è necessario tornare al 1956. In quella stagione la Ferrari schierò la D50, vettura progettata dalla Lancia, la quale si ritirò dal mondiale e cedette tutto alla casa del Cavallino in seguito alla tragica scomparsa di Alberto Ascari, avvenuta l’anno precedente a Monza mentre il pilota era intento a provare una vettura Sport. I piloti di punta di Maranello per quella stagione sarebbero stati Luigi Musso, proveniente dalla Maserati, Eugenio Castellotti, il grande Juan Manuel Fangio e il giovane Collins, “fiutato” da Enzo Ferrari nonostante fino a quel momento non avesse ancora ottenuto punti iridati. Il Drake voleva in squadra un campione di razza ma non amava Fangio, che in un’epoca dove una stretta di mano valeva più di contratto era invece molto preparato e attento politicamente, tanto abile in pista quanto nella scelta della vettura e del contratto migliori, al punto da riuscire a strappare ad Enzo Ferrari condizioni fino ad allora mai prese in considerazione. Ben diverso il rapporto del Grande Vecchio con l’inglese Collins, cui venne addirittura regalata una bellissima 250GT; ora che correva per Maranello avrebbe dovuto mettere da parte la Lancia Flaminia con cui era solito circolare.

Il mondiale prese il via e in Argentina furono Fangio e Musso a vincere, dividendosi auto e punteggio (all’epoca il regolamento lo permetteva), situazione analoga a quella di Montecarlo dove a condividere il secondo posto alle spalle di Stirling Moss furono Fangio e Collins, che presto diventarono inaspettatamente rivali in quanto l’inglese, dopo la 500 miglia di Indianapolis, calò un bis di vittorie a Spa e Reims, cui l’argentino rispose con i successi a Silverstone e al Nurburgring; si arrivò quindi all’ultima gara, da disputarsi a Monza, con entrambi i piloti in lizza per il titolo e con un terzo incomodo molto pericoloso: Stirling Moss. Iniziò il Gran Premio: sul velocissimo circuito brianzolo, che all’epoca comprendeva sia il tracciato classico che l’anello ad alta velocità, si viaggiava ad oltre 200Km/h orari e causa la tenuta precaria di gomme e vetture non mancarono soste ai box e uscite di strada: Musso e Castellotti tentarono di prendere il largo, poi fu Fangio a passare in testa, ma prima venne superato da Moss e infine fu costretto a fermarsi per noie allo sterzo; con un pretesto venne richiamato ai box Musso per cedere la vettura all’argentino, ma il pilota italiano ripartì subito senza ubbidire alle direttive del team. Peter Collins era ancora in pista e con Fangio fuori dai giochi aveva concrete possibilità di conquistare il titolo, ma ad un certo punto rientrò ai box, scese dall’auto e fece cenno di salire al compagno di squadra, che partì immediatamente lanciandosi con successo all’inseguimento di quel titolo mondiale che sembrava ormai essergli sfuggito, una situazione ideale anche per Enzo Ferrari che dimostrò ancora una volta al suo pilota che la vittoria del campionato arrivò soprattutto grazie alla propria squadra.

A proposito si aprì un dibattito: alcuni nello staff di Maranello dissero in seguito che fosse stato Enzo Ferrari dietro le quinte ad organizzare e gestire la situazione, mentre il manager di Fangio sostenne invece di aver fermato personalmente Collins e che questi accettò l’ordine. La versione “ufficiale” rimase comunque quella dei piloti: Fangio, sempre riconoscente per il gesto del giovane amico, ammise con sincerità che a parti invertite nulla al mondo sarebbe riuscito a toglierlo dalla propria auto per lasciarla ad un collega,  Collins dichiarò invece di aver preso quella decisione serenamente: disse semplicemente a Fangio,  “Guarda, è più giusto che sia tu a vincere questo mondiale, io sono giovane e avrò altre occasioni”. Purtroppo non andò così.

Collins correva anche fuori dalle piste: amante delle donne e della bella vita, conobbe l’attrice Louise King e se ne innamorò a prima vista, due giorni dopo il primo appuntamento la portò in un Hotel a Miami e le chiese la mano, con celebrazione avvenuta una settimana più tardi tra lo stupore di famiglie e amici. In quel periodo stava spostando la propria attenzione anche su altri aspetti esterni alle corse, come il progetto di una nuova casa e alcuni investimenti tra i quali l’ambizione di aprire una concessionaria Ferrari insieme al padre, traslocò inoltre da Maranello andando a vivere con la moglie di uno yacht a Montecarlo, scelta che il Drake non apprezzò. La carriera di Collins proseguì con un deludente 1957 mentre Fangio passò in Maserati e, ironia della sorte, vinse il suo quinto e ultimo titolo mondiale, contrariamente alle previsioni dell’ex compagno di squadra, nonostante l’età ebbe un’ultima occasione iridata.

Torniamo al 1958: superato lo shock per la scomparsa di Musso, Collins non poteva certo dirsi soddisfatto del proprio rendimento fino a quel punto della stagione, con un solo podio e qualche ritiro di troppo, mentre Hawthorn sembrava involarsi sempre più deciso verso l’iride. Nel gran premio di casa fu però Collins a imporsi con un netto vantaggio sul compagno di squadra, anche se la classifica vedeva i due distaccati di 16 punti con sole quattro gare da disputare, quattro battaglie da vincere a partire dal primo scontro diretto: la temibile Nordschleife, più di nove minuti di curve e cambi di pendenza tra prati, colline e alberi, un inferno verde. Il 3 agosto del 1958 Collins partì quarto e si lanciò come una furia all’inseguimento del leader Brooks, ma nel corso del decimo giro uscì di pista a Pflanzgarten davanti agli occhi di Hawthorn schiantandosi contro un albero; morì poco dopo, a 27 anni, durante il trasporto in ospedale. Mike Hawthorn rimase sconvolto, tanto che subito dopo aver vinto il titolo mondiale annunciò il proprio ritiro dalle corse, in una stagione maledetta che pagò un ultimo tributo di sangue con la scomparsa di Lewis Evans nella prova conclusiva disputata in Marocco. Hawthorn era atteso a sua volta da un tragico destino: morì pochi mesi più tardi in un incidente automobilistico. Alcune fonti parlano di un sorpasso finito male mentre era intento a sfidarsi in strada con Rob Walker, signore del Whisky, e anche se le indagini non chiarirono definitivamente l’accaduto la versione è accettata e tramandata da tutti, forse perché rende l’idea di Hawthorn scomparso mentre faceva ciò che amava, correre in macchina, proprio come Collins.

Quel titolo regalato Collins non riuscì mai a conquistarlo, ma il suo gesto è di quelli che eccitano la fantasia popolare e vengono tramandati come un poema epico, si tratta di un episodio più unico che raro di sportività, amicizia e generosità, ma ai fan della Formula 1 non piacciono solo i bravi, amano tutte le storie che da sempre riguardano i propri beniamini: i sogni infranti di chi ha perso la vita inseguendo un sogno, il coraggio di chi torna in pista quaranta giorni dopo un rogo terribile e poche settimane più tardi ammette di avere paura sotto un diluvio ai piedi del monte Fuji, la passione di chi è disposto a correre su tre ruote tentando di vincere un Gran Premio, quella di chi sviene spingendo una macchina, fino a quelli che pur di surclassare un rivale o un compagno di squadra odiato, temuto e rispettato, hanno spinto sull’acceleratore fino ad accompagnarlo nella sabbia o contro un muretto.

Forse Tambay aveva ragione, erano pazzi,  ma è proprio quella pazzia radicata nel dna dei Cavalieri del rischio ad aver reso la Formula 1 uno sport così popolare e c’è un fattore indispensabile che la F1 2.0 ossessionata dallo share e dallo show ha completamente dimenticato, ciò che nel bene e nel male, con pregi e difetti, entusiasmava davvero i tifosi del Circus dei Gran Premi: l’uomo.

Mister Brown

Un colpo solo

“Un colpo solo”  – Christopher Walken durante la roulette russa che fungeva da epilogo de “Il cacciatore”, capolavoro di Michael Cimino.

Un pilota può avere diverse occasioni più o meno importanti, ma ci sono momenti decisivi che in una carriera possono anche capitare una volta sola, specialmente quando si parla della possibilità concreta di vincere un titolo mondiale, quel momento  che può diventare una roulette russa, un istante dove l’auto, il motore, le gomme, un rivale particolarmente ostico oppure i propri nervi diventano come proiettili: ne basta uno e il sogno svanisce.

“E cosa vuoi tu?” “Il mondo chico… e tutto quello che c’è dentro…”

Al Pacino – Scarface

Ogni pilota che si rispetti punta al massimo e vuole arrivare in alto. Clay Regazzoni era votato all’attacco, correva l’anno 1970 quando a 31 anni dominò l’europeo di Formula 2 e arrivò alla massima categoria dell’automobilismo. Dopo una manciata di gare, a Monza vinse un Gp dai ritmi tiratissimi mettendo in riga Stewart, Beltoise, Hulme e Stommelen, poi grazie ad altri piazzamenti di rilievo arrivò fino al terzo posto in classifica generale nonostante avesse saltato cinque gare, alle spalle di Rindt (deceduto proprio a Monza ma comunque campione) e a un passo dal compagno di squadra Ickx. Con un avvio così prorompente ci si aspettava che potesse arrivare presto al titolo, ma la casa del Cavallino stava affrontando un periodo di crisi e non riuscì a mettere in pista una vettura competitiva, pertanto nei due anni successivi lo svizzero dovette accontentarsi di alcuni podi e poche soddisfazioni, decidendo di cambiare aria alla fine del 1972, stagione in cui debuttò un altro trentenne veloce e promettente: l’argentino Carlos Reutemann, autore della pole al Gran premio d’esordio, impresa rarissima nel Circus.

Regazzoni passò alla decaduta BRM ma dopo una sola stagione fu richiamato dalla Ferrari, che con Luca Cordero di Montezemolo e l’Ing. Mauro Forghieri stava gettando le basi per uno straordinario ciclo vincente: Clay consigliò ad Enzo Ferrari l’ingaggio del compagno di squadra Niki Lauda, ignaro del fatto che l’austriaco sarebbe diventato una macchina da guerra inarrestabile e che presto lo avrebbe costretto ad essere una seconda guida. Che la Ferrari non fosse più relegata al ruolo di comparsa divenne chiaro da subito e al giro di boa del mondiale 1974 alle spalle del leader Fittipaldi si trovavano proprio Lauda (4 pole e 2 vittorie) e Regazzoni, ancora a secco di successi ma più costante dell’austriaco; poi al Nurburgring arrivò anche il momento del ritorno sul gradino più alto del podio per Clay,  cui seguì un altro piazzamento che lo portò a quota 46 punti, contro i 41 di Scheckter, i 38 di Lauda e i 37 di Fittipaldi.

“Chiunque al mondo può perdere un incontro”

Morgan Freeman – Million Dollar Baby

A tre gare dalla fine la classifica poneva dunque Regazzoni come favorito, ma a Monza il motore Ferrari lo tradì e a Mosport non andò oltre ad un secondo posto alle spalle di Fittipaldi, che lo raggiunse in classifica; la questione si sarebbe dunque risolta a Watkins Glen, in un contesto surreale dato che dopo dieci giri di gara Koinigg uscì di strada e fu orrendamente decapitato dal guard rail ma la vettura non venne rimossa. The Show must go on, la Formula 1 in tutto il suo cinismo. Reutemann conquistò la pole e vinse agevolmente la gara davanti al compagno di squadra Pace mentre per Regazzoni fu un calvario: partito nono alle spalle di Fittipaldi, iniziò progressivamente a rallentare tanto che si formò un trenino alle sue spalle, tentò un disperato cambio gomme al 15esimo giro ma la situazione non migliorò, pare per un problema alla sospensione, stesso guaio che costrinse al ritiro Lauda. Clay si classificò undicesimo a quattro giri dal vincitore e a Fittipaldi bastò così un quarto posto per vincere il titolo, in Ferrari prese poi il sopravvento Lauda, che vinse il mondiale nel 1975 lasciando solo le briciole a Regazzoni, il quale colse uno straordinario Grand Chelem a Long Beach nel 1976, anche se i rapporti con il team erano ormai deteriorati. A peggiorare la situazione una frase sibillina di Enzo Ferrari che lo definì, dopo una sua apparizione televisiva, «Viveur, danseur, calciatore, tennista e, a tempo perso, pilota», espressione non gradita al pilota, che inoltre nel finale di stagione non fu ritenuto sufficientemente efficacie nel contrastare l’avanzata di James Hunt durante la convalescenza di Lauda (il pilota era invece convinto di non essere stato supportato dal team). Avvenuto l’inevitabile divorzio dalla Ferrari trascorse un paio d’anni nelle retrovie con la Ensign e la Shadow, prima di passare alla Williams, dove con l’arrivo della FW07 colse la prima storica vittoria per il team inglese, oltre a quattro podi, risultati che non gli garantirono la conferma in quanto Frank Williams aveva deciso di puntare su Alan Jones e su quel Carlos Reutemann che già lo aveva rimpiazzato alla Ferrari. Tornato alla Ensign, dopo un inizio di stagione deludente i suoi sogni si infransero definitivamente sul pericoloso tracciato cittadino di Long Beach: nel corso del 51esimo giro la Ensign andò dritta causa la rottura dei freni e centrò in pieno la Brabham di Zunino parcheggiata a lato della pista, finendo poi contro il muretto: il pilota fu estratto dopo mezz’ora in gravi condizioni. Avrebbe avuto salva la vita, ma non la possibilità di tornare a camminare, Clay cuor di leone di strada ne fece comunque ancora tanta.

“Coinvolge un bel po’ di persone  collegate da un evento insignificante, una soffiata nella notte…”

Bruce Willis – Slevin

Il grande sogno Ferrari spezzato dalla classe di Lauda e il tentativo di rilancio con una Williams già orientata al proprio pilota di punta Alan Jones, la sceneggiatura di un ipotetico film su Regazzoni che ha ben più di un punto in comune con la storia di Carlos Reutemann, già apparso come attore non protagonista nella carriera del collega.

Pilota di classe e talento ma dal carattere instabile, l’argentino si era fatto in strada in Formula 1 con la Brabham, scuderia con cui ottenne quattro vittorie e due partenze al palo prima di ricevere un’offerta di quelle che non si rifiutano, quella di Enzo Ferrari, che lo contattò per rimpiazzare Niki Lauda, convinto che l’austriaco non sarebbe più stato in grado di correre dopo l’incidente. Reutemann si liberò soltanto a Monza, dove vennero schierate tre rosse, poi si sedette in panchina subentrando dal 1977 al posto di Regazzoni e con l’ipotetico ruolo di prima guida in quanto a Maranello l’epicità di Lauda al volante dopo 40 giorni dal rogo del Ring aveva lasciato il posto all’immagine della resa al Fuji che gli costò il titolo, quella di un uomo impaurito e forse segnato per sempre da quell’evento. The Show must go on, la Formula 1 in tutto il suo cinismo, parte seconda.

La trama ebbe un risvolto inatteso: Reutemann si portò subito in testa al mondiale ma già al terzo Gp a Kyalami, in una gara segnata dalla terribile tragedia di Pryce, colpito dall’estintore di un incauto commissario, purtroppo investito e deceduto a sua volta, Lauda vinse avviando una lunga serie di risultati che gli fruttarono il secondo titolo, con Reutemann spettatore e prigioniero delle proprie incertezze; in tal senso fu emblematico un filmato estratto da un test Ferrari nel quale l’argentino venne pesantemente ripreso da Forghieri in quanto incapace non solo di reggere il passo di Lauda, ma anche di ripetere i propri tempi, rimprovero cui il pilota rispose allargando le braccia e con un malinconico “io non lo posso fare”, segnalando problemi che i meccanici non riuscivano a capire.

Lauda vinse il mondiale e se ne andò sbattendo la porta, mentre Reutemann restò ancora un anno in cui fu protagonista di una stagione di altissimo livello, anche se non poté nulla contro le inarrivabili Lotus, team con cui corse l’anno seguente nel disperato tentativo di inseguire il mondiale, ma la vettura non resse il passo della concorrenza e il titolo, ironia della sorte, tornò proprio a Maranello, nelle mani di Scheckter; a quel punto l’argentino puntò sulla Williams, dominatrice del finale di stagione con Regazzoni e con Alan Jones, ormai consolidata prima guida del team.

“Prima regola del Fight Club, non parlate mai del Fight Club”

Brad Pitt – Fight Club

Reutemann avrebbe constatato personalmente il peso politico e il carattere del ruvido Alan Jones alla corte di Frank Williams attraverso un corpo a corpo che finì per logorargli i nervi. Il primo anno nel team seguì i piani con Jones campione e Reutemann fedele scudiero, poi l’argentino decise che doveva essere arrivato il suo momento e durante il secondo Gp del 1981 passò Jones e vinse senza curarsi degli ordini di scuderia: nel team si creò un forte imbarazzo e l’austrialiano la prese malissimo, tanto da non presentarsi nemmeno sul podio. Secondo a Buenos Aires, terzo a Imola e di nuovo primo a Zolder, a quel punto Reutemann aveva 12 punti di vantaggio su Piquet, mentre dopo il Gp d’Inghilterra il margine salì a +17 con sole sei gare da disputare. Proprio quando il titolo sembrava una formalità Piquet iniziò a recuperare, anche se a Monza fu costretto al ritiro mentre Reutemann litigò con il team, che non ordinò a Jones di farlo passare in ottica campionato; nel successivo appuntamento a Montreal l’australiano rifilò addirittura una ruotata al compagno di squadra che con l’auto danneggiata chiuse decimo e a Piquet bastò un quinto posto per portarsi ad un solo punto dalla vetta. Come avvenuto per Regazzoni nel 1974, anche la roulette russa di Reutemann si sarebbe tenuta negli Usa, dove il maestoso circuito del Glen era stato rimpiazzato da un circuito provvisorio allestito nel parcheggio del Caesar’s Palace Hotel.

“La regola fondamentale è di farli continuare a giocare e di farli continuare a tornare. Più giocano e più perdono.”

Robert De Niro – Casinò

A Las Vegas Reutemann conquistò la pole position ma non era tranquillo: durante il warm up lamentò problemi che i meccanici non riuscirono a individuare, come in quel test Ferrari in cui Forghieri gli chiedeva invano di andare più forte, inoltre in griglia di partenza aveva al proprio fianco Alan Jones, che ovviamente non valutò nemmeno per un istante l’ipotesi di coprirlo ma anzi, lo bruciò al via e prese la testa della corsa, mentre l’argentino iniziò a perdere posizioni scivolando fuori dalla zona punti fino ad un anonimo ottavo posto. Piquet era stremato dal caldo ma riuscì a terminare al quinto posto, piazzamento che gli consentì di laurearsi campione per la prima volta, venne estratto dalla vettura ormai senza forze e salì sul podio dove trovò un sorridente Alan Jones, che si fece beffe di Reutemann dichiarando che ormai poteva solo competere per Miss Argentina. Carlos annunciò il ritiro, poi ci ripensò e si presentò al via del 1982 debuttando con un ottimo secondo posto a Kyalami, ma in seguito ad un incidente con Arnoux in Brasile e soprattutto causa le tensioni politiche tra il suo paese e l’Inghilterra, Patria del team per cui correva, decise di tornare a casa per occuparsi dei propri terreni; al termine di una stagione segnata da colpi di scena e tragedie il mondiale lo vinse la Williams con il promettente Rosberg ed è lecito pensare che il più esperto Reutemann avrebbe potuto dire la sua, ma ormai erano già passati i titoli di coda, nessun rimpianto.

“Non c’è cosa peggiore del talento sprecato” 

Robert De Niro – Bronx

Si può parlare di talento sprecato raccontando la storia di due piloti di successo che hanno vinto, guadagnato e messo in pratica la propria passione fino al massimo livello? Sicuramente no, infatti è una forzatura, semplicemente ci sono colleghi di talento uguale o inferiore che hanno vinto il titolo perchè il loro colpo era quello buono, anche se il titolo ovviamente non è tutto nella carriera di un pilota. Carlos Reutemann ha partecipato a 146 GP iridati e ha collezionato 6 pole, 12 vittorie e 4 giri più veloci in gara, a chi sottolineò quel traguardo solo sfiorato Carlos rispose così: “quando penso a quello, ricordo che prima dovevo cavalcare per andare a scuola e da lì ero arrivato ad essere un pilota di Formula 1: questo risultato non me lo potrà mai togliere nessuno.”

Clay Regazzoni ha preso il via in 132 GP iridati, con 5 pole, 5 vittorie e 15 giri più veloci in gara. Mai domo, dopo l’incidente continuò a correre inventando personalmente alcuni sistemi di guida per ausilio disabili, diventò pure promotore dell’inserimento dei disabili nello sport e rappresentante della Federazione Italiana Sportiva Automobilismo Patenti Speciali. Perse la vita il 15 dicembre del 2006, stroncato da un malore mentre percorreva l’autostrada A1 e lasciando grandi rimpianti in un ambiente che ne aveva apprezzato anche le doti umane. Lauda disse di lui: “Pensando positivo e vivendo sempre fino in fondo tutte le esperienze, Clay mi ha insegnato ad amare la vita. Il gusto della vita l’ho imparato proprio da lui e dopo il mio incidente il suo insegnamento è stato ancora più prezioso. Perché se c’era un talento di Clay superiore agli altri questo era il suo pensare positivo.”

Le storie di Clay e Carlos sono le storie di due piloti e soprattutto di due uomini, con pregi, difetti e debolezze di ogni essere umano, non c’è un vero e proprio lieto fine, ma è tipico di tanti film d’autore il finale amaro, o agrodolce nella migliore delle ipotesi. La Formula 1 che mandava in scena trame epiche, belle e drammatiche degne dei migliori sceneggiatori è ormai un lontano ricordo, ma i grandi classici del passato, quelli non li dimenticheremo mai.

“È stata una bella storia, Beh, io spero che vi siate divertiti”

Sam Elliot – Il grande Lebowsky

Mister Brown

l’istante, l’evento, oppure la scintilla che…..

L’istante, l’evento, oppure la scintilla che….ha scatenato in voi la passione per i motori.

Io sono uno, che non ha un ricordo di quando i motori gli sono entrati dentro, perchè so solo di aver sempre avuto una dannata attrazione per i mezzi a motore, siano essi auto, come camion, moto, autobus, aerei e quant’altro possa avere una propulsione che lo faccia andare. Non è solo voglia di salirci sopra e andare, sfidare le curve e i limiti del mezzo, ma anche solo guidarla senza una meta e godersi il canto del motore, assieme a un bel panorama, oppure stare li ore ed ore, semplicemente ad ammirarle nella loro bellezza o tecnica.

Già, questa volta non voglio fare un’articolo storico, nemmeno un resoconto o una fredda analisi, ma voglio parlare di ciò che è la nostra passione per la F1 e per il mondo dei motori, per parlare di noi, e capire da cosa e quando nasce.

Mia mamma racconta sempre che le mie prime parole furono, brum brum e cam cam, detti con più o meno enfasi, a seconda di quanto stupore generassero in me le auto e i camion. Il brum brum aveva più o meno enfasi, tanto quanto era lo stupore e la bellezza che mi suscitavano, mentre per i camion c’era il cam cam, che anch’esso variava d’intensità come per le auto. Si lo so, già allora qualche segno di squilibrio mentale lo davo e il passare degli anni non ha attenuato la cosa.

Ma cosa potevate pretendere, da uno che al posto del topolino, rubava l’autosprint al papà per vedere le macchine, iniziando da li ad affascinarmi per quelle da corsa, che erano così belle e cattive, con i loro spoiler, gli allargamenti, le ruote scoperte ed i loro colori e adesivi. E poi il babbo Ferrarista, che non si perdeva un gp manco per sbaglio, ed eccomi a seguire il funambolo Canadese.

Eh si, quel Gilles, quello che per me pareva un supereroe, quel pilota che pareva poter far di tutto con la sua auto, tanto che anche in quel dì a Zolder, io mi convinsi che avrebbe potuto controllare la sua auto impazzita mentre volava in aria.

Quello fu il mio primo shock del mondo delle corse, del quale ricordo ancora oggi ogni istante di cosa feci quel giorno, nonostante i miei 6 anni, turbandomi talmente tanto, da non voler più seguire le gare fino al 1988, quando mio papà mi portò a vedere il mio primo gp di F1, dal vivo, a Imola. Già, era il 1° maggio del 1988, con le McLaren che doppiavano tutti, ma non importava, rimanevo incantato al passaggio delle auto, dal loro suono, dalla loro accelerazione…..era tutto così magico e da li iniziò, la mia passione irrefrenabile per la F1, le sveglie nella notte per vedere un gp, anche se mia mamma me lo proibiva.

Ma fra l’82 e l’88, non ero rimasto a digiuno di motori, perchè già al tempo mi soffermavo le ore a guardare la Porsche del babbo, poi venduta per una Opel Rekord con cui si facevano tutti i viaggi di famiglia, o la gtv 2.000 del vicino, o le varie auto pazzesche che c’erano in paese. (parliamo della zona del triangolo della sedia, dove in quel periodo, di soldi ne giravano tanti, con le Ferrari o altri marchi di lusso che non mancavano mai).

Ma a me, non serviva ammirare solo quelle auto stracostose, mi bastava anche andare a vedere il demolition derby, o l’autocross, per poi finire a Rivolto o Aviano a godere lo spettacolo di un airshow, con gli occhi incantati e meravigliati dalle magie che i piloti compiono nell’aria, quel mix di stupore e ammirazione, che provo ancora oggi nel vederli.

Già, perchè in me c’era e c’è sempre, il gusto di guardare e sviscerare ogni dettaglio del gesto tecnico, il cercare di capire come riescano nei loro numeri, sognando un giorno di poterlo fare anch’io, oppure provandoci, indossando un casco e scendendo in pista.

Ma allo stesso tempo, provo anche il piacere di prendere qualcosa e iniziare a modellarmelo a mio piacimento, sul mio gusto di guida,oltre che nell’estetica, perchè un mezzo di mio possesso, non può essere solo prestazionale o solo bello, ma deve avere il mix di entrambi, per poter gioire sia nella guida, che quando è fermo davanti a me. Notti infinite alla ricerca di un pezzo sul web, di un consiglio di un amico su come fare o modificare una cosa, ma anche solo aiutare gli altri a trovare il loro mezzo adatto, o la modifica, insomma per farla breve…

…motori, una passione di cui non smetterei mai di parlare, di cui non riesco mai ad esser stanco, una droga di cui ho bisogno.

Questo è in breve la mia storia e la vostra? 😉

Saluti Davide_QV

Quell’assurdo 1994, senza il solito triste ricordo

1994

l’estate del “Baggio non aver paura di tirare un calcio di rigore…non è da questi particolari, che si giudica un giocatore” ….poteva andar bene il tiro, per una realizzazione dell’Italrugby, che proprio in quel periodo, iniziava a fare le sue prime vittorie fra i grandi, con il buon Dominguez. Ma ok, siamo qua per parlare del 1994 della F1 e questa volta, lo faremo senza dedicarlo al ricordo di chi non c’è più, perché di articoli e parole per loro, ne sono state spese a iosa negli anni e chi ha una passione forte come la nostra, li ricorderà sempre.

Nella pausa invernale 93/94, si iniziano a delineare i primi problemi, con la federazione che vieta le sospensioni attive, soluzione che era d’eccellenza sulle astroWilliams, tutte le vari possibili assistenze alla partenza, i controlli di trazione, il dialogo da muretto a vettura per il settaggio/reset dei parametri, le cambiate automatiche e quant’altro l’elettronica permettesse, oltre a una riduzione delle dimensioni degli pneumatici. In pratica, si doveva tornare a una F1 dove il pilota dovesse metterci molto più del suo, peccato che la Fia decise queste regole, quando le auto erano ormai in una avanzata fase di progettazione, finendo così a creare delle monoposto molto prestazionali ed altamente instabili, che mettevano in seria crisi i piloti.

Oltre ai divieti sopracitati, alla Williams venne poi pure proibito l’utilizzo del cambio CVT, un 4 marce a variazione continua in avanzato step di sviluppo. Insomma, come se oggi, si prendesse e si vietassero tutte le soluzioni prestazionali di Mercedes, per far si che abbia fine il suo dominio. Ed infatti, già dai primi test, le Williams non furono più le armate invincibili delle stagioni passate, ed anche nelle mani di Ayrton, c’erano grossi problemi di guida, anche dettati dall’estremizzazione della scocca di Newey (ma è storia nota)

Ma i problemi di guida, erano solo un campanello d’allarme per quello che accadrà poi in una sessione di test, a Silverstone, dove un promettente JJ Letho, che aveva appena ottenuto il sedile come compagno di scuderia di Schumi, si ritrova ad avere un bruttissimo incidente, che gli fratturò qualche vertebra cervicale e qualche costola, costringendolo a saltare i primi 2 gp stagionali (sedile preso da Jos “the boss” Verstappen). Anche Jean Alesi, poche settimane dopo, tira una mina pazzesca all’Arrabbiata 2 del Mugello, ritrovandosi nel letto di un ospedale con seri problemi vertebrali. Problemi che lo costringeranno a saltare i gp del Pacifico e San Marino, venendo sostituito da Larini.

Ma la stagione comincia, ed arriva il gp del Brasile, con il campione di casa che commette un errore di guida e si ritira, mentre un giovane Schumi, gli metteva pressione. Ma nella gara di San Paolo,  non fu questo a far notizia, bensì un’altro evento pazzesco, ossia la collisione a 4 fra, Irvine, Verstappen, Bernard e Brundle.

Già, uno dei botti più assurdi e pazzeschi di cui si possa aver memoria, con un Irvine che allarga a sinistra, incurante di Verstappen che lo stava passando. I due si agganciano e parte la carambola, che prende prima dentro Brundle su McLaren e poi Bernard sulla Liger, un miracolo che non si sia fatto seriamente male nessuno, neppure Jos, che volò sopra la McLaren, avvitandosi in un tonneau.

A Eddie, fu inizialmente comminata una sanzione di 10.000 dollari e una gara di squalifica, soldi che vennero condonati dopo un ricorso. Ma visto che l’Irlandese non dimostrava di aver capitò la gravità della sua azione, venne sanzionato con 3 gare di stop. (sulle pagine di Autosprint, ricordo che dopo la gara di Imola, disse di ringraziare il Cielo per non aver corso in quel gp).

Ad Aida ci fu solo la collisione al via fra Larini e Senna, con la complicità di Hakkinen. Ma a Imola successe il finimondo, parve che tutto quello che non era successo negli anni precedenti, trovasse sfogo nel weekend in riva al Santerno.

il Venerdì Barrichello spicca il volo sul cordolo alla variante bassa, piantandosi fra le gomme e il rail, con l’auto che poi si capotta. Il sabato la morte di Roland, seguita da quella di Ayrton la domenica.

Ma al via della gara, ci fu anche l’incidente fra la Benetton di Letho (rimasto fermo) e la Lotus di Pedro Lamy, con il secondo che fini per centrare in pieno la Benetton,  pezzi vari delle auto, comprese alcune ruote, finirono in tribuna, ferendo varie persone del pubblico. Ma le cose si sa, quando vanno storte, non finiscono mai, ed arriva anche l’incidente ai box, con la gomma posteriore di Alboreto che si stacca dalla vettura, andando a colpire pesantemente meccanici e persone presenti nei box, che restano feriti, anche se non in maniera grave. (anni in cui, la pit line di un gp, vedeva un numero folle di persone e il limitatore di velocità era ancora cosa sconosciuta).

Nel weekend di Monaco, la F1 ha in se la certezza che l’immortalità e la spavalderia dei piloti è svanita, per evitare un ripetersi di quanto accaduto ai box, si introdusse per la prima volta la regola della velocità massima di percorrenza della pit line, che fu decisa essere di 80 km/h, per ridurre i rischi a chi ci lavora, oltre a venir ridotto il numero di persone che possono “pascolare” in quest’area.

Altre modifiche non erano realizzabili, vista la vicinanza fra il weekend Imolese e quello Monegasco, e quando le immagini degli incidenti erano ancora ben impresse negli occhi della gente, ne arriva subito un’altro gravissimo, quello di Karl Wendlingher con la sua Sauber. l’Austriaco perde il controllo della sua vettura in staccata, andando a impattare pesantemente di lato con la sua auto sulla barriere della S dopo il tunnel, rimanendo seriamente ferito. Dopo vari giorni di coma, ne usci fuori, ma la sua carriera di pilota fu irrimediabilmente rovinata (anche se ottenne, dei discreti risultati nel turismo e nell’endurance)

Dalla gara successiva, a Barcellona, la federazione decise di dare un taglio alle prestazioni delle monoposto,  introducendo delle limitazioni aerodinamiche,  che andavano a ridurre le ali anteriori, i deflettori e l’estrattore. Tutto questo però non basta, visto che nelle prove, arriva il botto pazzesco di Montermini (il quale a pagamento aveva sostituto Ratzenberg in Simtek). l’Italiano, durante le prove di qualifica fini largo all’ultima curva, perdendo  il controllo della monoposto, finendo per picchiare dritto contro il muro, procurandosi varie fratture alle gambe, visto che i piedi erano finiti quasi fuori dall’auto nell’impatto. Quello fu un nuovo campanello dall’allarme sulle prestazionale e la sicurezza delle attuali F1, oltre a sancire quanto le piste fossero inadeguate ad essa.

In quello stesso weekend, ci fu pure una delle prime folli soluzioni altamente tecnologiche, poste a miglioramento della sicurezza del tracciato, ossia una fantastica S fatta con gomme impilate che parevano dei muri. Tale chicane era stata posta alla curva Campsa, che al tempo andava più larga, dove ora c’è la ghiaia,  prima di inserirsi sul rettifilo opposto a quello del via. I piloti e tecnici erano terrorizzati dalla soluzione usata, per il timore di cosa sarebbe successo finendoci contro. Evento che fortunatamente non si verificò.

Si arriva in Canada, ed ecco che vengono introdotti delle ulteriori regole per ridurre le prestazioni delle vetture, vietando le benzine speciali, si doveva usare la benzina della “pompa stradale” , oltre ad essere introdotte delle aperture di sfiato negli airbox, andando a limitare di un 20% le potenze dei motori. Al layout del circuito, venne aggiunta una variante sul rettifilo che porta verso i box, per ridurre la velocità della staccata prima della S del muro dei campioni.

Il Canada passò praticamente liscio, così come pure la Francia, ma arrivò Silverstone, circuito che si vide modificare le curve dalla Abbey alla Brooklands, ma la cosa più ecclatante, fu assistere a una delle penalizzazioni più incredibili della storia, con una federazione nel pallone, per quanto fin’ora successo, che commina una penalizzazione di 5 secondi a Schumacher, per aver passato due volte Hill nel giro di formazione (si nel regolamento c’era questa articolo che venne poi eliminato).

Il tedesco ignora la sanzione, poi, quando appare la bandiera nera con affianco il suo numero, decide di entrare ai box, scontare solo i 5 secondi di penalità e tornare in pista, invece che fermare la sua corsa. La federazione a questo punto decide di usare il pugno duro, infliggendo due gare di stop al Kaiser, gare che verranno scontate fra Monza e Portogallo, per permettergli di correre la gara di casa.

In Germania arriva l’introduzione di un pattino di legno da applicare nel fondo piatto, dall’altezza di  1 cm, che non deve consumarsi più di 2mm. Soluzione che obbliga le scuderie a mantenere delle altezza da terra maggiori, andando a ridurre la deporatanza generata dal fondo piatto.

Al via della gara però, non andò liscio nulla, infatti ci fu una sequenza di botti incredibili, che portarono al ritiro di 10 vetture, fra cui uno scellerato Hakkinen, che fece una manovra simile a quella di Irvine in Brasile, finendo per uscire lui stesso, e molti altri, compreso Coulthard (ad Hakkinen verrà data una squalifica di una gara a SPA). L’assurdo però arrivò quando, dopo questa mega collisione, non venne data la bandiera rossa, visto il numeroso groviglio di detriti ed auto sparsi qua e la, mettendo solo un mare di bandiere gialle nella zona del via, creando una situazione di elevato pericolo sia per i piloti che per i commissari.

Ma ci fu di peggio ancora, ossia il fuoco che torna a farsi vivo durante il rifornimento dell’auto di Jos, con una vampata incredibile, dopo che la benzina era finita ovunque. Fortunatamente nessuno ebbe conseguenze serie dall’accaduto, tuttavia uscirono fuori le polemiche sulle rimozioni dei filtri sulle pompe della Intertechnique (soluzione che velocizzava il rifornimento). Polemiche che non portarono mai a una sanzione per la Benetton, visto che la stessa concessione fu permessa, dalla ditta stessa, anche alla Larousse, a patto di mantenere l’anello di tenuta.

Dalla gara successiva in Ungheria, i meccanici della Mclaren furono i primi a portare delle tute e caschi, per proteggere gli addetti al rifornimeto, da un eventuale incendio. Le dotazioni li facevano sembrare degli astronauti pronti a una missione spaziale, non solo per la forma, ma anche per la goffaggine nei movimenti. C’è da ricordare la sostituizione di Hakkinen (squalificato) con Alliot, mentre per il resto tutto corre via liscio.

Arriva la gara di Spa, con l’oscena variante messa al posto della fantastica S del Raidillon, che costringeva i piloti a fare una variante lentissima da prima marcia, privando noi tifosi dal poter assistere ai primi tentativi di flat out nella percorrenza di quel tratto. Però si sa, dopo Imola, prima la sicurezza. Per il resto tutto pare tranquillo in quel delle Ardenne. Fino a quando Schumi, che stava dominando il gp, commette una delle sue tipiche distrazioni di quando era leader con grosso vantaggio. Mentre percorre la S del Campuse,  in uscita finisce in testacoda passando sopra al cordolo, limando il fondo scalinato. Già, proprio quel pattino che la federazione aveva fatto mettere sotto le vetture, ed a fine gara, lo scalino in tungsteno della Benetton nr 5, risulterà essere di qualche decimo più usurato di quel che concede il regolamento. Nonostante la presenza chiara dei segni trasversali d’usura provocati dal cordolo, la federazione non vuole sentire ragioni, camminando al tedesco una nuova squalifica (diciamo che non gliene facevano passare una), forse anche per voler penalizzare in qualche modo la Benetton, per la storia della modifica al bocchettone del rifornimento.

Monza, ed ecco incredibilmente che il leader di classifica non partecipa al weekend, per la squalifica presa a Silverstone che si diceva prima. Tutta l’estate fu un tormentone per le richieste di modifica da farsi al tracciato e alle vie di fuga, che portarono al taglio di alcuni alberi, con i verdi messi di traverso a ciò. Si ottenne la modifica della seconda di Lesmo, portandola alla configurazione attuale, che andava a cancellare un curvone da pelo, per una curva a gomito secco, oltre che a vedere ampliate le vie di fughe.

La gara vide subito una bandiera rossa per una collisione multipla, con nel mezzo la Lotus di Herbert, vettura che per questa gara era dotata di un Mugen pompato nei cv, utilizzato per riuscire a fare il risultato grosso, nella speranza di salvare il team. Herbert infatti la portò in quarta posizione in griglia, ma ogni sogno fu vano, quando alla prima staccata dopo il via, Irvine fini per prendersi dentro con la Lotus, generando poi una carambola multipla, facendo uscire la bandiera rossa. Ovviamente la prima variante fu criticata, ed iniziarono gli studi sul come modificarla, tranne poi ficcarci delle gomme sui cordoli, come nel 1996, arrivando solo qualche anno dopo alla soluzione attuale.

All’Estoril Schumi era ancora in tribuna, ma anche qui la federazione aveva richiesto delle importanti modifiche per la sicurezza, con l’aggiunta della S Gancho, il famoso doppio tornantino strettissimo, che serviva per andare a eliminare la veloce piega a destra della Tanque, che c’era prima. Ma neanche il tempo di iniziare a far sul serio, che tac, il buon Eddie va in testacoda e si prende dentro con Damon mandandolo ruote all’aria, durante le prove libere. Per il resto fortunatamente, non successe nulla di rilievo, se non il fatto che verrà ricordato come l’esser stato l’ultimo gp senza nessun campione del mondo al via.

A Jerez nel frattempo si era provveduto a inserire la S di SENNA, al posto della piega veloce della curva 14 (attualmente chiamata Alex Criville) dove ci fu l’orribile incidente che pose fine alla carriera di Martin Donnelly nel 1990.

Ma è a Suzuka che la federazione ci mette nuovamente del suo, nello stesso punto dove 20 anni dopo, decisero che non era il caso di avere memoria storica, ed evitare un ripetersi di una situazione altamente pericolosa in un gp sotto il diluvio. Già, la gara parte sotto un vero acquazzone, le auto da subito hanno difficoltà a stare in strada, ed in molti finiscono fuori pista causa aquaplaning, uno su tutti Morbidelli, che finisce a muro alla Dunlop curve. Credo che questa curva riecheggi in voi qualcosa. In pista ci sono solo delle bandiere gialle,  che in quegli anni si sa, significavano poco più che era solamente vietato il sorpasso, ma per il resto via andare come sempre, ed ecco, mentre i commissari stan portando via la Footwork,  Martin Brundle finisce per uscire nel medesimo punto, schivando di poco i mezzi di soccorso e l’altra monoposto, ma andando invece a investire un commissario, che fortunatamente non si farà nulla di serio. Già, ricordate bene, 20 anni prima era già successa la stessa cosa che capitò a Jules Bianchi, nel medesimo punto, solo che il giovane Francese ebbe più sfortuna, finendo sotto il trattore e rimettendoci la vita.

Adelaide, dove tutto comincia con un mega botto di Schumi e si chiude con un’altro botto dello stesso Schumi , ma stavolta assieme ad Hill. L’epilogo pazzesco che tutti ben conosciamo, che anche i meno appassionati non possono non ricordare, con Michael che arrivo lungo, finisce a muro, torna in pista con la sospensione posteriore destra andata, ma fa un ultimo tentativo di arrivare all’aggancio con Hill, il quale scioccamente, invece di aspettare, decise di buttarsi dentro. Schumi va a muro, Damon piega il braccetto superiore sinistro, entrambi fuori gara, mondiale finito. La Federazione non riusci a stabilire una netta volontà da parte di Schumi nel cercare la collisione, dando anche a Hill parte della colpa per aver osato troppo, ed ecco diventar WDC un pilota che è stato squalificato per 4 delle 16 gare stagionali, qualcosa di pazzesco e incredibile, degna fine di questa annata, che verrà ricordata come lo spartiacque fra la F1 degli scavezza collo e quella della ricerca della sicurezza, sulle piste e sulle vetture.

Eh si, dopo quella stagione molte cose cambiarono, le piste subirono una infinità di modifiche al loro layout, le vetture vennero rese via via più sicure, le procedure cambiate, i duelli fra i piloti sempre più sotto controllo. Del resto, non vi è memoria di tutte queste squalifiche anche per numeri multipli di gp, o  di un livello così elevato di gravi incidenti in una sola stagione. Già, si è fatto tanto, anche se poi accadono ancora cose assurde, come la macchina che entra sul tracciato durante il gp, come in Korea, o i pazzi che saltano le reti ed entrano in pista, le auto ancora possono agganciarsi fra loro e decollare come con Webber a Valencia, oltre che  purtroppo, possono ancora ripetersi gli errori madornali come a Suzuka.

Dagli sbagli si impara e la F1, diciamo che lo ha fatto e continua a farlo, anche se alle volte c’è ancora qualche cosa che non va. Ma il 1994, si spera resti, l’ultimo mondiale della follia e del pericolo troppo elevato.

Tuttavia, ricordiamocelo sempre, “motorsport is dangerous”.

Ho iniziato l’articolo con il ricordo del rigore sbagliato da Baggio nella finale, lo chiudo con ciò che c’era scritto sullo striscione del squadra Brasiliana, in quella partita contro l’Italia; “SENNA…ACELERAMOS JUNTOS, O TETRA E NOSSO!

Davide_QV

L’Orso Polare

…you must be either blind or an idiot…
J.P.Montoya – Press Conference, Imola 2004

La gara è appena finita e Juan Pablo Montoya sta commentando il suo attacco a Micheal Schumacher alla Tosa. L’attacco è stato quantomeno ottimistico; un tentativo all’esterno di una curva a 180°. L’alfiere rosso ha facilmente aperto la traiettoria andando a mettere di fatto il colombiano sull’erba. Il quale in sala stampa dà senza mezzi termini dell’idiota al tedesco.
Nei mesi a seguire la contrapposizione fra Schumacher e Montoya, anche a seguito del controverso incidente all’uscita del Tunnel di Montecarlo, raggiunge il calor bianco e con essa la polarizzazione fra i tifosi della rossa vincente e apparentemente imbattibile; e resto del mondo che si lecca le ferite e che trova in Montoya un balsamo per lenire le ustioni rosse.
Montoya pur mostrando un istinto killer nella guida (il suo sorpasso al Bus Stop sempre a Schumacher rimane una pietra miliare) non manterrà le promesse e lascerà la Formula 1 senza risultati di rilievo.
Ma il punto nodale non sono tanto i risultati ma l’impatto che il colombiano ha avuto sul pubblico della Formula 1.
Nel corso degli anni nella Formula 1, soprattutto dagli anni ottanta in poi, le figure divisive e polarizzanti sono sempre state presenti. Lo stesso Schumacher, la maestà lesa che in conferenza stampa si beccava dell’idiota, esordiva come il più classico dei “bad-boys”.
Metteva a muro volontariamente Derek Warwick nel WEC, confessava candidamente davanti ai microfoni di Eurosport di aver fatto un test-brake sul collega Hakkinen a Macao per non parlare delle primissime e virulente avvisaglie di lotta senza esclusione di colpi con la Maestà sensibilissima alla sua lesione, per definizione, Ayrton Senna da Silva.
Ma prima che Senna catechizzasse, rigorosamente in diretta e a favore di telecamera, l’irruento tedesco, il paulista è stato per anni l’iconoclasta dello status quo precedente; ripreso e riportato sulla retta via a colpi di ceffoni o di test-brake dai suoi stessi colleghi.
Ancora oggi Martin Brundle ricorda come a Oulton Park Ayrton gli avesse parcheggiato la Ralt sulla testa con una manovra ben oltre il consentito; e non per modo di dire.
Oggi il ruolo della peste che rompe lo status quo è perfettamente interpretato da Max Verstappen; il figliol prodigo di Jos dotato, rispetto al padre, di un talento più cristallino e della stessa supponenza sfacciata e ostentata.
Promosso a metà stagione dai vertici della Red Bull Racing, con una operazione di marketing pressoché ineccepibile, ha immediatamente mostrato una prontezza di lingua persino superiore al manico mostrato in pista. Rifila più volte dell’idiota a Vettel, del vecchio rincoglionito a Lauda, non si lascia scomporre più di tanto quando uno snervato Toto Wolff telefona a suo padre dopo il violento attacco che avrebbe potuto mettere fine alle speranze iridate di Nico Rosberg; e chi più ne ha più ne metta.
In pista mostra non avere timore reverenziale di niente e nessuno e assurge immediatamente a motore immobile della polemica e della vecchia amatissima polarizzazione fra pro e contro.
Per uno sport che suscita interesse ormai solo nei decrepiti affezionati ad un epoca che ormai non solo non c’è più, ma viene dileggiata di continuo, la presenza di Verstappen è salutata come una manna. E come tale trattata dai vertici della FiA che più volte hanno usato pesi diversi nel giudicare gli episodi a seconda che vedessero o meno coinvolta la preziosissima pepita olandese.
Ma anche questo è un film già visto e le stesse identiche cose si dicevano dell’indulgenza FiA nei confronti di uno Schumacher agli esordi quando questi, dopo la prematura scomparsa di Senna, era diventato l’ultimo fulcro di interesse per la massima serie.
Fino a questo momento, quindi, potrebbe tranquillamente ascrivere il “fenomeno Verstapen” come un qualcosa di già visto nel corso degli anni passati; un giovane pilota dai modi irriverenti, quando non maleducati, adorato dalla FiA e dai suoi tifosi, che sconvolge il panorama motoristico a suon di prestazioni e di polemiche.
Un canovaccio utilizzato più e più volte per smuovere il modo compassato della massima serie con costanza quasi cronometrica.
Quello che appare radicalmente nuovo sono le condizioni al contorno di tale fenomeno.
La pubblicazione dei Team Radio segue un canovaccio ben preciso; chiunque abbia accesso a tutti i team radio sa come i lamenti dei piloti siano uniformemente distribuiti eppure solo alcuni vengono mandati in onda. Scelta che appare fatta per polarizzare ancora di più il pubblico in una continua ricerca del sensazionale e della polemica.
E forse non è un caso isolato quello che riguarda l’atteggiamento della Formula 1 nei confronti del suo pubblico più giovane.
Ma il punto nodale appare sempre lo stesso: la direzione che vuole prendere la massima divisione delle competizioni automobilistiche.
Il pubblico giovane, quello che pare sempre latitare nelle statistiche che riguardano il motorsport, segue ormai canali secondari non ascrivibili ai media classici; non appaiono nelle categorie rilevanti per le analisi degli ascolti perché difficilmente utilizzano tali canali. Sono più orientati allo streaming web che non alla forma classica contrattuale delle Pay Tv cui ormai la F1 pare essersi donata nella sua interezza.
Calamitare l’attenzione del pubblico giovane e portarlo verso una forma più istituzionale di rapporto cliente/provider non è un compito banale.
Né tantomeno  lineare.
L’operazione messa in pista da parte di CVC negli anni passati ha di fatto ridotto del 30% il pubblico televisivo della Formula 1 portandola in quasi tutti i paesi sotto l’ombrello della TV a pagamento.
Se da un punto di vista puramente commerciale quasi tutti gli analisti hanno salutato l’operazione come un successo in virtù della maggiore coesione del pubblico e propensione all’acquisto (un pubblico disposto a pagare per la F1 è decisamente più interessante da un punto di vista del marketing e dell’offerta pubblicitaria) dal punto di vista dell’apertura verso le generazioni future che mantengano tale interesse e numeri costante, appare meno evidente.
Forse la presenza di un pilota con cui potersi banalmente identificare, un ragazzo che parla la lingua giovane sui generis sempre in mezzo alle critiche potrebbe essere un buon viatico.
Per questo questa sede ritiene la presenza di Max Verstappen non solo opportuna ma in un certo qual modo salvifica nell’attuale panorama asfittico della serie maestra.
Con buona pace dei colleghi a cui farà saltare il fegato.
La vera domanda è se sarà sufficiente l’ennesimo “bad-boy” di talento per convincere un pubblico abituato allo streaming free a convertirsi ai costosissimi bizantinismi delle Pay Tv.

L’Orso Polare del titolo era originariamente un Orso Cartesiano prima di un cambiamento di coordinate.
Se la spiegazione precedente vi ha fatto sorridere, preoccupatevi…