Tutti gli articoli di Pier Alberto

L’arma di una leggenda: la 312 T2

Ci sono auto che rappresentano più di altre un’epoca, per un pilota, per una squadra o per la F1 intera.

Una di queste è rossa, ha due inusuali prese d’aria ai lati dell’abitacolo, fasce tricolori, e un caratteristico cupolino bianco. Ha fatto sognare da bambini tanti di noi, contribuendo a far nascere una passione che ci saremmo portati dietro per tutta la vita.

Signore e signori, ecco a voi la splendida 312 T2, che a partire dal GP di Spagna del 1976 e fino al GP del Brasile 1978 ha collezionato 8 vittorie, la maggior parte delle quali ottenute dal pilota che con essa ha viaggiato dal paradiso all’inferno e ritorno: Niki Lauda.

La storia di questa mitica vettura comincia nel 1975, quando Forghieri progetta la 312 T, monoposto innovativa rispetto alla pur vincente 312 B3 seconda edizione, che riportò in alto la Ferrari dopo anni molto bui, dando la prima vittoria a Niki Lauda e sfiorando il titolo mondiale con il grande Clay Regazzoni, recentemente ricordato su queste pagine. La 312 T era un progetto completamente diverso dalla B3, sia per il ritorno al telaio in tubi, dopo il non felicissimo esperimento della monoscocca fatta costruire in Inghilterra, sia per l’utilizzo del cambio trasversale, che aveva lo scopo di concentrare le masse sospese, dando maggiore equilibrio alla monoposto. All’epoca l’aerodinamica influiva ancora poco sull’assetto, e il bilanciamento veniva ricercato lavorando sulla distribuzione dei pesi e sulla meccanica. Da questo punto di vista, l’altro elemento importante della vettura era il motore boxer, che non era solo più potente rispetto al Cosworth utilizzato da quasi tutti gli avversari, ma consentiva anche di abbassare il baricentro della vettura.

La 312 T si dimostrò da subito una vettura vincente, e consentì a Niki Lauda di vincere il suo primo titolo. Andò in pista anche nella stagione successiva (come usava all’epoca), vincendo le prime 3 gare, ma dal GP di Spagna cambiò il regolamento e vennero abolite le vistose prese d’aria motore che da qualche anno caratterizzavano le vetture di F1. Fu quello il momento di schierare la 312 T2, che ne riprendeva forme e colori ma ovviamente non presentava la presa d’aria dietro l’abitacolo, sostituita in modo molto originale da due grandi prese NACA poste ai lati dell’abitacolo.

In generale, la nuova vettura rappresentava un affinamento del progetto precedente, di cui riprendeva completamente la filosofia. Ma il suo progettista, Mauro Forghieri, non era uno che dormiva sugli allori: sapeva sviluppare le soluzioni vincenti senza rinunciare a provarne di nuove. E, infatti, alla presentazione la T2 sfoggiava anche due copriruota all’anteriore, che in teoria dovevano essere prese d’aria dei freni ma che avevano ovvie funzioni aerodinamiche, e per questo furono vietati.

La T2 continuò la striscia vincente iniziata dalla T. Fino a quando Lauda non fu vittima del terribile incidente al Nurburgring, sul quale tanto è stato detto, scritto e anche rappresentato. Lauda ha sempre sostenuto che a causare l’incidente fu un cedimento della sospensione (teoria ripresa anche nel film di Ron Howard), mentre la Ferrari ha sempre sposato la tesi dell’errore del pilota, con tanto di perizia di un esperto pubblicata sui giornali a dimostrare che la vettura non solo non aveva ceduto, ma era anche dotata di tutti i dispositivi di sicurezza richiesti.

Sicuramente, a partire proprio da questo episodio, la Ferrari fece in modo di perdere quel mondiale praticamente già vinto, preoccupandosi più di sostituire il pilota infortunato che non di salvaguardarne la tranquillità e la leadership in campionato. L’esito di questa strategia lo sappiamo tutti, il mondiale andò ad una vettura e ad un pilota che di sicuro lo meritavano molto meno rispetto a Lauda e alla T2. Ciò detto con il massimo rispetto per James Hunt e per la McLaren M23, che pure era una grande macchina.

La T2 ebbe modo di rifarsi nella stagione successiva, nella quale venne schierata con ulteriori affinamenti fra i quali il più vistoso era sicuramente il rimpicciolimento delle prese NACA anteriori. La concorrenza si era nel frattempo avvicinata molto, con la neonata Wolf vincente al debutto, e la Lotus che schierò la prima wing-car, la 78, la quale soffriva però spesso di problemi di affidabilità.

Affidabilità che invece non mancava alla T2, e che, unita alla superiorità di Lauda come pilota, consentì a lui e alla Ferrari di portare a casa il mondiale, con 3 vittorie all’attivo (all’epoca potevano essere sufficienti). Dopodichè Niki se ne andò anzitempo, stanco di un ambiente che gli sembrava non avere più fiducia in lui. E allettato dai soldi offerti da Ecclestone. Come andò per lui e per la Ferrari nei due anni successivi lo sappiamo tutti.

Per la T2 però la carriera non era finita, e venne ripresentata in pista per le prime due gare della stagione 1978, vincendo la seconda in Brasile, grazie anche alle gomme Michelin che si adattarono benissimo al torrido clima di Rio. In questo modo la T2 vinse sia la sua prima gara che l’ultima, totalizzando 8 vittorie, 6 con Lauda e 2 con Reutemann. Il quale non gradì per nulla il passaggio alla 312 T3, chiedendo insistentemente a Forghieri di ritornare al modello precedente, ovviamente senza successo.

La T2 è stata guidata da Niki Lauda, Clay Regazzoni, Carlos Reutemann e Gilles Villeneuve. 4 piloti mitici, diversissimi fra di loro, che hanno consacrato questa vettura fra le più significative dell’intera storia della Formula 1. Riguardarla oggi nelle videocronache dei GP di 40 anni fa sempre venire tanta nostalgia dei tempi andati, quando un manipolo di persone appassionate e competenti erano in grado di progettare, costruire e gestire in pista vetture destinate a ritagliarsi un posto nella storia, assieme ai piloti che le guidavano.

P.S.
Nel 1977 venne anche provata una versione della T2, denominata T6, con ruote posteriori gemellate modello camion, che non fu mai portata in gara perchè non rispettava le misure della carreggiata imposte dal regolamento.
Circolò pure una foto, divenuta famosa, di una versione con 8 ruote. Si trattava di una bufala mediatica ante-litteram, ma furono in molti a credere che una vettura simile avesse girato a Fiorano.

Un brillante avvenire dietro le spalle: la F1 e la minaccia elettrica.

Ogni grande business attraversa momenti di grande crescita seguiti da momenti di crisi che lo portano sull’orlo del collasso, quando non al collasso, per poi ripartire e magari tornare più forte di prima. E’ accaduto a molte grandi o grandissime aziende, la Apple tanto per non fare nomi importanti. Se si guarda alla storia della F1, si vede un’espansione fortissima partita a metà anni 70 e continuata fino alla fine del primo decennio del nuovo secolo. Poi, lo dicono i numeri degli ascolti, è iniziato un declino, che non sembra essersi riflesso sul giro d’affari, ma che è stato evidente in termini di credibilità dell’evento sportivo, oltre che dei partecipanti stessi, con l’uscita di molti grandi costruttori e la presenza di team che fanno fatica a terminare la stagione, sempre sull’orlo della bancarotta, coi creditori alle calcagna e in alcuni casi anche falliti.

Il calo dell’audience, di per sé, non è ovviamente significativo se è associato ad un giro d’affari costante o in aumento. Potrebbe volere significare un riposizionamento del target. In altre parole, ci si vuole rivolgere ad un pubblico con maggiore capacità di spesa, e quindi di un età maggiore, in linea con i brand che investono grandi quantità di danaro nelle sponsorizzazioni. Si punta cioè sulla qualità e non sulla quantità, e per la F1 degli ultimi anni probabilmente è stato così.

E’ innegabile che nel tempo sia stata fatta selezione sulla clientela, sia quella costituita dai tifosi, sia quella delle aziende sponsor. Se negli anni 70-80 sulle auto si vedeva un po’ di tutto, dalle marche di elettrodomestici a quelle di anticoncezionali, per arrivare persino alle pompe funebri (presenti sulla Merzario che corse ad Imola nel 1979), dalla fine degli anni 90 sulle auto hanno iniziato a comparire sempre meno marchi, quasi sempre di aziende dal profilo elevato, e più o meno la stessa tendenza si è avuta per le pubblicità sui circuiti.

La selezione è stata ovviamente fatta sulla base di un prezzo di ingresso molto più elevato, con l’obbiettivo di fare della F1 un prodotto di marketing di altissimo livello. Il risultato è stata la concentrazione degli sponsor più importanti su pochi team, con gli altri a raccogliere le briciole, spesso con macchine monocolore e con le ovvie enormi difficoltà finanziarie conseguenti. E la necessità di far pagare i sedili, trasformando i piloti in procacciatori di sponsor.

D’altra parte, a dare la direzione al business sono sempre gli stessi, o, meglio, sempre lo stesso, e anche la recente manifestazione di interesse da parte di un grande gruppo americano non si è ancora concretizzata in un vero e proprio deal. Il mancato rinnovamento del management è un’altra costante delle aziende che arrivate al culmine del successo, poi iniziano una discesa più o meno veloce. Se si vuole continuare a crescere, bisogna cambiare, avere idee nuove per attrarre nuovo pubblico, e la F1 non ha fatto nè l’una nè l’altra cosa. O, meglio, ci ha provato, con due grandi cambiamenti regolamentari, quello del 2014 e quello che entrerà in vigore nel 2017, ma da un punto di vista dello spettacolo e dell’interesse, almeno il primo si è rivelato un completo fallimento, aprendo un periodo di dominio da parte di un solo team come mai si era visto prima. E facendo crollare ulteriormente interesse e indici di ascolto.

Sarà da verificare se il nuovo cambio regolamentare, che sulla carta è molto promettente, non sia arrivato troppo tardi. Se, in altre parole, i buoi non siano già scappati. E per buoi intendiamo sia il pubblico, in particolare i giovani, ai quali della F1 interessa obbiettivamente molto poco, sia i grandi costruttori, quelli che hanno dato il via, alla fine degli anni 70, al salto di qualità, e che sono fuggiti in concomitanza con la grande crisi del 2008. Si pensava sarebbero tornati, ma così non è stato, perchè nel frattempo il mondo è cambiato, la percezione dell’auto anche, e la FIA per la prima volta nella sua storia ha iniziato a supportare con convinzione una serie diversa, che in teoria non fa concorrenza alla F1 ma che di fatto ne rischia di diventare un concorrente molto pericoloso: la Formula E.

Recentemente ha fatto scalpore la dichiarazione di Marchionne in merito ad un ingresso della Ferrari in FE. Mai e poi mai ci si aspetterebbe di vedere una Ferrari elettrica, e il motivo è molto semplice: potenza e rumore non si associano ad un motore elettrico, e una macchina rossa è sia potenza che rumore. Ma se il secondo di sicuro non è una caratteristica di tale tipo di motore, la prima non è detto che non lo diventi. E qui sta il punto: quanto siamo disposti a scommettere che la tecnologia non ci porti, nel giro di pochi anni, se sviluppata in un ambito racing, ad avere auto con una potenza importante (>500 cv) che riescano a girare per una quantità di tempo accettabile? Per ora di sicuro non se ne parla, ma è ormai chiaro, per tutti i costruttori di automobili, che l’endotermico ha gli anni contati. Forse più per una questione di immagine che per una questione di rispetto ambientale, o forse per entrambi, ma ciò che è sicuro è che tutti i grandi costruttori si stanno spostando sull’elettrico passando dall’ibrido, che rappresenta una via di mezzo molto complicata da un punto di vista tecnologico e probabilmente nemmeno troppo apprezzata dal mercato.

Non dobbiamo dimenticare quanto accadde negli anni 70 con il motore turbo. Quando la Renault decise, nel 1976, di tentare la via del 1500 sovralimentato, le prime versioni a fatica arrivano a 500 cv, e c’era chi scommetteva che non avrebbero cavato un ragno da un buco. Sette anni dopo, il 4 cilindri BMW raggiungeva, in qualifica, i 1400 cv. In mezzo c’era stato uno sviluppo frenetico di tutte le componenti, grazie al grande livello di competizione portato dal coinvolgimento di diversi grandi costruttori, che vedevano nella F1 una grande opportunità di mettere in mostra le loro capacità tecnologiche. Proprio ciò che sta succedendo in FE, e non è detto che la storia non si ripeta anche dal punto di vista dell’enorme miglioramento della performance. Oggi la potenza delle auto è, espressa in cavalli, di circa 270 come picco massimo (che può peraltro essere mantenuto per pochissimo tempo), e vi è la necessità di cambiare auto dopo 25 minuti, caratteristiche piuttosto lontane dall’essere accettabili per una formula da considerarsi “maggiore”. Chissà se fra 7 anni vedremo motori elettrici con 500 cavalli di potenza e batterie in grado di alimentarli per un’ora. Oggi sembra tecnicamente molto improbabile, ma non lo si può certo escludere a priori.

Per quanto riguarda il pubblico, la categoria elettrica ha scelto un approccio totalmente opposto a quello della F1, puntando ai giovani, e scegliendo di correre in città, vicino alla gente, con tutto il programma svolto in un’unica giornata. Dopo la prima stagione, i grandi costruttori hanno aderito in massa, chi partecipando direttamente costruendo motore e cambio (le uniche componenti al momento lasciate libere dal regolamento), chi dando solo il proprio nome al team. Coloro che attualmente non partecipano, come Mercedes, BMW e Toyota, o stanno seguendo attentamente l’evoluzione della categoria o hanno già pubblicamente manifestato il proprio interesse ad entrare nei prossimi anni come competitor.

Dal punto di vista di chi costruisce automobili destinati al grande pubblico, la FE si sta quindi dimostrando molto più interessante della F1, e questo deve fare riflettere chi della F1 stessa gestisce il presente ma sopratutto gestirà il futuro. Se proviamo ad immaginarci cosa vedremo in pista fra 20 anni da un punto di vista del propulsore, dobbiamo probabilmente pensare a qualcosa di completamente diverso da ciò che c’è oggi. Anche se questo fa inorridire gli appassionati di lunga data, quelli che, come chi scrive, hanno vissuto gli anni 70 e 80, l’idea di una vettura di F1 silenziosa nella quale la potenza motrice sia generata in grande percentuale, se non per la sua totalità, da energia elettrica, non è probabilmente sbagliata. E questa prospettiva, assieme alla necessità di attrarre un pubblico giovane, o molto giovane, deve essere tenuta in grande considerazione fin da ora. Il futuro di medio-lungo termine potrebbe vedere la F1 e la FE convergere in quella che potrebbe essere una “F1E”, prendendo il meglio di entrambe le categorie, e non è detto che sia una cosa negativa. Anzi, potrebbe essere una evoluzione inevitabile per mantenere tale quella che da oltre 50 anni è la categoria regina del motorsport.

La rivoluzione del carbonio: la McLaren MP4/1

La Formula 1 ha vissuto un decennio di grandi innovazioni fra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’80. Alcune di queste hanno fatto scuola solo nell’ambito ristretto del motorsport, altre hanno trovato applicazione anche nell’industria automobilistica. Ma ve ne è una, poco visibile al grande pubblico, che ha letteralmente aperto un mondo di applicazioni in tutti i settori industriali. Questa è la storia della McLaren MP4/1, la prima monoposto con telaio completamente in fibra di carbonio ad avere partecipato ad un gran premio.

Continua la lettura di La rivoluzione del carbonio: la McLaren MP4/1

Quando la semplicità paga: la Williams FW07

A volte la semplicità è l’elemento che rende un progetto vincente. Questa è la storia della wing-car più vincente: la Williams FW07. E dei primi successi del team di patron Frank, che fino a quel momento nella sua carriera di team manager aveva passato più tempo a calmare i creditori che non a gestire i propri piloti.

Frank Williams iniziò la sua avventura in F1 nel 1970, nel team di De Tomaso, dove il progettista era l’ing. Giampaolo Dallara. Esperienza segnata dalla tragedia di Courage, che di fatto pose fine all’avventura di De Tomaso come costruttore. Continua la lettura di Quando la semplicità paga: la Williams FW07

L’ultima grande sfida di Chapman: la Lotus 88

Ci sono casi in cui a progetti ingegnosi non viene data la possibilità di manifestarsi in tutta la loro potenza, lasciando ai posteri solo grandi interrogativi su cosa avrebbe potuto essere e non è stato. Questa è la storia della Lotus 88, l’ultima grande sfida di Chapman, un’auto alla quale non è stato permesso di correre ma che, ancora una volta, inglobava tecnologie destinate a diventare lo standard nella progettazione delle monoposto di Formula 1. Un’auto che, nelle intenzioni dei suoi creatori, avrebbe dovuto riportare in alto il team che nel decennio precedente aveva lasciato un segno indelebile non solo nell’albo d’oro ma anche nell’evoluzione tecnica della F1, aprendo definitivamente, con il modello 79, la strada della ricerca aerodinamica esasperata. Continua la lettura di L’ultima grande sfida di Chapman: la Lotus 88