Stardust Memories

Polvere. Polvere. Dappertutto polvere.
Ma quanto cazzo di polvere c’è in questo parcheggio, come qualcuno si ostina a chiamarlo, un’area strappata al deserto e riattata a circuito di Formula 1? Qualche visionario dice che qui, Las Vegas 1981, in questo caldo ottobre, si sta facendo la storia. Non perché si aggiudica il titolo di Campione del Mondo, ma perché sostiene che il futuro inizia qui: i circuiti storici sono avvisati, d’ora in poi chi ha abbastanza soldi potrà portarsi il Circus a casa propria, che un tracciato ce l’abbia già oppure no. “Per essere credibile la Formula 1 deve conservare un certo prestigio, un certo livello” dice Colin Chapman, nel suo motorhome. “Qui? Una corsa disprezzabile su un circuito disprezzabile. E’ quantomeno incredibile che si venga a correre su un parcheggio di Las Vegas quando ci sono tanti ottimi, veri circuiti. Ma forse è meglio che taccia… E’ una decisione che è stata presa da Bernie Ecclestone”. Sì, meglio tacere, si sa mai che ti facciano fuori: lo sanno tutti che il deserto lì fuori, tra Reno e qui, è pieno di fosse riempite da giocatori sfortunati che non potevano ripagare i debiti.
O forse è tutta una diceria.

Ma con tutta questa polvere e questo caldo, chissà come reggeranno le gomme, o se i filtri si intaseranno o se i cambi gripperanno. Tutto questo giallo ocra ricorda l’Argentina di due anni fa, il Baires in mezzo alla steppa bruciata dal sole, anche lì un caldo torrido, ma che giornata quella giornata: la tua stupenda Ligier JS11, azzurra e bianca come il cielo, che filava come mai avresti immaginato. Le Lotus, le Ferrari, le Mclaren, le Tyrrell, tutte messe in fila, e la gara era una cosa tra te e il tuo compagno. L’avevi detto a Guy quando aveva preso Depailler in squadra, la tua squadra, che doveva esserci un pilota numero uno e un numero due, ma il Patron da quell’orecchio non ci sentiva. E allora, che fosse sfida. Era partito meglio di te, ma dopo pochi giri l’avevi infilato in staccata alla Ascari e salutato. Tutti in piedi sulle tribune, forse anche i militari di Videla. Un trionfo, che si sarebbe replicato poco dopo in Brasile. Due Hat Trick di fila! Quell’anno un pensiero al mondiale l’avevi fatto, ma i pochi soldi dell’Equipe Ligier e la potenza del duo Ferrari, più la competitività della Williams FW07 avevano sciolto le speranze di poterci arrivare già all’inizio della seconda metà del campionato. Avevano detto che la macchina era andata indietro perché non era stata più sviluppata dopo che Patrick s’era fatto male, ma non era vero niente. Mancavano i soldi, non si poteva più tornare in galleria del vento per accorgersi che il Venturi non funzionava più come all’inizio, perciò niente, quel ’79 se n’era andato, con un quarto posto in campionato.

Certo, partire in sesta fila in questo Gran Premio di USA West, ultima gara del 1981, con Reutemann là davanti in pole position e sei punti di vantaggio in classifica, che manco lo vedi da qua, e con Piquet in quarta posizione e cinque punti avanti, quasi verrebbe da dire che il mondiale è già bello che andato, ciao a tutti, scendo e vado a casa. Ligier scuote la testa ed è rabbuiato e dice a destra e a sinistra: “Penso che ormai non ci sia più niente da fare, abbiamo perso il campionato”. E’ da mercoledì che lo dice, lui, quell’ex rugbista che non si è mai tirato indietro da nessuna mischia, se non quando è morto il suo amico Jo Schlesser, ed ha detto basta al mestiere di pilota. Ma le sue auto portano ancora l’omaggio all’indissolubile amicizia, e questa JS17 ne è l’ennesima prova, con quelle due iniziali. Ok, le prove sono state un casino, e ti sei incartato a saltare dalla tua alla vettura di Tambay senza trovare una soluzione. O quasi. Perché alla fine hai capito che era la tua che non andava, ma non c’era più tempo, e la dodicesima posizione è davvero una delusione, pure dietro a Patrick. Ma in fondo non eri decimo in griglia anche venti giorni fa in Canada? Là era pieno autunno, altro che il clima di oggi: freddo e acqua che dio la mandava, ma le tue Michelin andavano alla grande. Ma soprattutto eri in forma strepitosa. Una goduria infilarli uno dopo l’altro, in mezzo a spray d’acqua e a foglie gialle ovunque, buttarsi dentro alla cieca e sorpassarli, e al tredicesimo giro eri in testa, e ci sei rimasto fino alla fine. Che sberleffo. Anche sul podio uno show di smorfie. E Carlos e Nelson, il colpo l’avevano un po’ sentito.

E se Guy, anziché darti per spacciato e scuotere la testa, li avesse guardati un po’ meglio l’argentino e il brasiliano, appena prima di salire sulla Williams e sulla Brabham, avrebbe visto quello che hai visto tu. Lole fin qui è stato impeccabile, ma è un uomo solo contro il mondo. Soprattutto contro la sua squadra. A vederlo risalire i box con la sacca sulle spalle sembrava l’eroe triste di un film che ha il peso dell’universo su di sé. E ad osservare le occhiate di Williams, di Head e di Jones che lo accompagnano, c’è da gelarsi il sangue. Se uno come Alain dice che vincere non è tutto, è perché ha scoperto che è bello far perdere anche qualcun altro. Hai voglia di dire in giro, come fa Carlos, che se si sconteranno alla prima curva, lui e Jones, torneranno ai box dandosi pacche sulla schiena, come nulla fosse successo. Sì, come no, credici…
E Nelson, tutto il week-end a fare il simpatico mattacchione, quasi quanto te, aveva una faccia verde quando si è calato il balaclava sul viso. D’accordo, come dice Murray, lui in questa situazione ci si è trovato anche l’anno scorso, prima che Jones con manovra assassina lo stampasse a muro, ma ogni volta è diverso. E anche lui oggi forse ha il braccino. Comunque vada, oggi è una sfida tra campioni, e il warm-up ha già detto che i valori possono essere rimescolati.

Polvere, ancora polvere che si alza a sbuffi in questo giro di formazione quando una vettura esce appena dalla traiettoria, e qui dietro la polvere arriva in abbondanza. Ma appena si accende il verde capisci che sì, forse sì, la giornata può essere quella giusta comunque. Jones è partito per fare quel che vuole fare, cioè vincere. Ma Reutemann è imbambolato, alla fine del primo giro è quinto, al secondo è sesto; Piquet lo emula, e gli si accoda. Al terzo giro sono entrambi dietro di te, ma un brivido sale, nel vedere la vettura gemella della tua, quella passata a Tambay, sfasciata e priva di tutto il muso, con Patrick completamente esposto. Come non ripensare a quello che era successo al tuo vecchio compagno l’anno prima ad Hokenheim, all’altro Partrick, che aveva perso la vita nelle prove private con la sua Alfa. Per te qualche giorno dopo era arrivata la vittoria proprio su quel circuito, ed era stata la vittoria più amara, dedicata ovviamente a Depailler. Ma Tambay per fortuna si alza e sgattaiola via saltellando su una gamba sola. Puoi continuare, e concentrarti solo su quelli davanti.

Che stagione strana, questa del 1981. Per te era iniziata in maniera pessima, con la Talbot (sì, perché ufficialmente avevano pure cambiato nome alla tua squadra) fedele alla linea dei legalisti, che avevano interpretato in maniera rigorosa la proibizione delle bandelle mobili, rispettando i 6 centimetri da terra delle fiancate. Ma gli inglesi, al solito, ve l’avevano fatta sotto il naso: le doppie molle della Williams, i martinetti idraulici della Brabham avevano vanificato il divieto, e una volta in pista viaggiavano con le carrozzerie rasoterra, con una deportanza di gran lunga superiore alla vostra. Praticamente un’altra categoria. E il disastro dell’Argentina! Qualificato per il rotto della cuffia (al contrario di Jabouille, fuori) pigliavi per il culo tutti: “Ecco, a mio parere dobbiamo smettere. Gèrard, la tua macchina è una merda, rientra a casa tua, non sei capace di far correre neanche una Formula Renault”, e ai tecnici Matra :“Vi abbiamo lasciato alcuni anni fa e abbiamo vinto delle gare, vi ritroviamo sul nostro cammino ed ecco che riprendiamo a perdere…”. Qualche risata, ma a denti stretti. Chissà, forse Ducarouge se l’era pure legata al dito, visto che poi vi aveva abbandonati a metà stagione. E dopo Imola in classifica avevi un solo punto contro i venticinque di Reutemann di ventidue di Piquet. Ma dal Belgio qualcosa era cambiato, la macchina finalmente iniziava a marciare, il sistema idraulico Citroën per variare l’altezza funzionava. Il motore lo reputavi ancora più scarso di un Cosworth, ma cose erano cambiate.

Là dietro i due sudamericani continuano il loro tango lento, mentre davanti a te e a Giacomelli Villeneuve fa da tappo. Potresti essere più veloce di un secondo abbondante al giro, ma Gilles è insuperabile. Quella benedetta Ferrari 126C, in curva è una pena, ma in accelerazione e in velocità non la passa nessuno. Oh, un incubo, come al Jarama, tutti quei giri negli scarichi di Gilles, ne avevi per andare a vincere alla grande, e invece il canadese si difendeva in ogni curva, ed in ogni rettilineo ti lasciava indietro. Neanche un errore, ed eravate arrivati in cinque, tutti in fila, senza neanche una possibilità di attaccarlo. Che rabbia! E così anche oggi! Ma oggi non si può aspettare e basta, non bisogna indugiare. Al ventiduesimo giro ti tuffi dentro a Giacomelli in una delle curve tutte uguali di questo circuito che visto dall’alto sembra un ideogramma e lo passi, appena prima di ricevere una secchiata di sabbia. E’ Gilles che accosta la sua Ferrari. Appena prima Piquet era riuscito, con una bella manovra, a saltare Reutemann. Lole sembrava un pugile frastornato, uno dei tanti che vengono a combattere sul ring del Cesar Palace, e mentre barcollava s’è infilato pure Watson. Ormai non combatte più contro Nelson, o contro la sua Williams, o contro il suo box. E’ là fuori, solo contro i suoi fantasmi. Sbaglia cambiate in continuazione. E a Piquet non è che vada poi meglio. Boccheggia dentro il suo casco, in preda alla nausea, in cerca di aria, e quasi gli viene un colpo quando dai box gli segnalano che non è neanche a metà gara.

Si può fare, si può! Pure Prost si toglie da davanti, fermandosi a cambiare pneumatici, sei secondo, quella maledetta Coppa non è così lontana, quasi la puoi sfiorare. Se non fosse per queste benedette Michelin morbide: a viaggiare dietro a Gilles hanno raccolto tutto lo sporco che ci può stare su un pneumatico. Ai box Jean Pierre ti esorta a spingere forte, nella speranza che si ripuliscano, ma accidenti, pian piano ti stanno mollando. Te ne rendi conto, vedi Prost negli specchietti, che ha recuperato e ti passa davanti in un attimo, prima del tracollo definitivo. Non c’è nulla da fare se non cambiare le gomme e rituffarsi in pista, con solo venti giri davanti. C’è tempo per passare ancora una volta davanti a Lole, e poi Watson e arrivare ad un secondo da Piquet, ma cala la bandiera, e il mondiale se n’è andato.

Si ferma Nelson. Ha una dannata fame di aria, ha cercato di respirare finalmente dopo un’apnea di un’ora. Tutti si affollano intorno alla sua vettura, Bernie, Fittipaldi, tutti quanti. Si sfila il casco, ancora in macchina, ed inizia a piangere. Un meccanico lo aiuta ad uscire, lui barcolla, sbianca e si accascia. Lo rianimano, si alza incerto, dopo pochi istanti, ma l’ebbrezza della vittoria gli dà forza, e si avvia verso il podio, ad aggiungersi a Jones, a Prost e a Giacomelli, sotto lo sguardo accigliato di Balestre.

Si ferma Carlos. Sbircia fuori dalla visiera del casco. Il comitato di benvenuto di Frank Williams è lì, ad aspettarlo, sulla destra. Lui rimane in macchina, e dopo un po’, scrollandosi un po’ di polvere di dosso, si alza e scende. Dalla parte opposta. Con gesti lenti e misurati gli volta le spalle, abbozza qualche saluto ai giornalisti, e sorreggendosi ad ogni appiglio che offre lo scarno box, se ne va, forse risollevato che il supplizio abbia avuto termine.

Ti fermi tu. Ci sono Guy Ligier e tuo cognato Jean Pierre Jabouille ad aspettarti. Balzi giù dalla Talbot, allarghi le braccia davanti alle loro facce deluse. Dopotutto l’idea di fare uno sberleffo meraviglioso, una suprema pernacchia, l’avevate accarezzata tutti assieme. Qualche pacca sulle spalle, qualche stretta di mano ai meccanici e via, non c’è festa da fare.

Scende lieve la polvere, ora, dopo che tutto si è fermato, dopo che i 75 giri sono stati percorsi, dopo che la gente è scemata dalle tribune, pensando ormai più alle slot machines dove perderanno soldi stasera che non alla gara appena finita. Polvere comune, non polvere di stelle. Polvere che non andrà a imbrattare un trofeo che non hai vinto: col risultato di oggi Jones ti ha passato in classifica, e non sei più neanche terzo. Pazienza, in fondo il mese prossimo compirai solo 38 anni, sei ancora un ragazzino, hai ancora una carriera davanti e sei sempre dannatamente veloce. Sarà per l’anno prossimo, Jean Pierre dice che sta progettando una vettura che farà impallidire le Lotus 80 e 88 (ah, beh, mah…) o quello seguente, se Williams si farà sentire ancora. Delusione? Ma no, quella forse ce l’avrà qualche tifoso dall’altra parte dell’oceano, in Francia o forse pure in Italia.
In fondo, ai box, ti conoscono tutti. Sei Jacquot. Sei Jacques Laffite. Non c’è nulla che una delle tue guasconate seguita dalle fragorose risate non possa rendere sopportabile.

 

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Jacques Laffite dopo quel giorno ha corso ancora 71 Gran Premi, salendo ancora diverse volte sul podio, ma non vincendo più una gara e senza riuscire più a lottare per un mondiale. La sua carriera in Formula 1 si è conclusa alla prima curva del Gran Premio di Gran Bretagna del 1986, contro un guard-rail sulla destra. Ha corso 176 Gran Premi, vincendone 6. Mi piace ricordarlo come uno dei migliori piloti della sua generazione, e nel mio cuore ha un posto del tutto particolare.

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