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L’era del Turbo

16 luglio 1977, Silverstone: al via del Gran Premio d’Inghilterra l’attenzione del pubblico era focalizzata sull’avvincente lotta per il titolo, per la quale erano coinvolti ben quattro piloti raccolti in una manciata di punti, ovvero Lauda a quota 33, la coppia Andretti – Scheckter distaccata di un solo punto e l’altro ferrarista Reutemann a meno quattro. In un anonima ventunesima posizione in griglia si trovava Jean Pierre Jabouille, pilota dalle grandi doti di collaudatore e fresco vincitore del titolo nel prestigioso campionato europeo di Formula 2, al volante della Renault equipaggiata con un motore sovralimentato spinto da 600 Cv in 1492 cm³ e strutturato in 6 cilindri disposti a V di 90°, che nell’occasione costrinse il pilota al ritiro dopo soli sedici giri scatenando l’ironia dei “garagisti” inglesi, tra i quali Ken Tyrrell, che ribattezzò la vettura francese “Teiera gialla” a causa del fumo rilasciato in seguito al guasto, ponendo in evidenza lo scetticismo di un ambiente convinto che il Turbo sarebbe stato troppo penalizzato dal regolamento in quanto limitato ai 1500 cm³ contro i 3000 cm³ degli aspirati; nonostante il disinteresse dei competitor e numerosi problemi, soprattutto in merito all’affidabilità, la Renault proseguì la propria avventura e, dopo aver saltato due Gran Premi, si ripresentò a Zandvoort, Monza e Watkins Glen senza riuscire ad arrivare al traguardo, mentre in Canada mancò la qualificazione. La scelta non fu certo improvvisata: tutto nacque all’inizio degli anni settanta quando il giovane motorista Dudot montò un propulsore sovralimentato su una Alpine A110 che si impose subito al Rallye Critérium des Cévennes e spinse l’azienda a investire per un approfondimento sul tema svolto negli Usa dallo stesso Dudot; lo stesso successivamente sviluppò un motore Turbo destinato alle barchette Alpine impiegate nelle competizioni Endurance con Larrousse e Jabouille alla guida, avviando un progetto che trovò il proprio coronamento nella vittoria alla 24 di Le Mans del 1978 ottenuta da Pironi e Jassaud al volante della Alpine A442 Renault Turbo. Grazie all’appoggio della Elf e sotto la supervisione di Larrousse, con il solito Dudot a curare la progettazione del motore, venne creata una struttura destinata alla produzione di una monoposto che servì da laboratorio per il modello che debuttò nel campionato del mondo di Formula 1 del 1977 e sul quale l’azienda riponeva grande fiducia.


I continui test e interventi tesi ad ottimizzare le prestazioni non portarono particolari miglioramenti e nel 1978 Jabouille non riuscì mai a lottare per posizioni di rilievo, invertendo la rotta solamente nel finale di stagione con due terzi posti in griglia e un quarto posto al traguardo a Watkins Glen. Nella stagione successiva la Renault si mise invece da subito in evidenza in qualifica e Jabouille, ora affiancato da Arnoux, fresco campione europeo di F2, partì dalla pole in Sudafrica, ma la scarsa affidabilità del mezzo non consentì di raccogliere punti nella prima parte del campionato; la svolta avvenne con l’avvento della RS10 ad effetto suolo con la quale, dopo un paio di battute a vuoto, i due piloti furono protagonisti nel Gran Premio di casa, disputato a Digione: conquistata la pole position, Jabouille dominò e vinse la corsa, mentre Arnoux concluse al terzo posto al termine di uno storico duello con Villeneuve che finì per oscurare un successo dalla portata storica per una tecnologia che avrebbe condizionato tutto l’ambiente della Formula 1 negli anni a venire. Arnoux terminò la stagione con altri importanti piazzamenti quali un secondo posto a Silverstone, un sesto a Zeltweg e un altro secondo a Watkins Glen, poi visse un avvio trionfale nel campionato seguente, proiettato in testa alla classifica dopo i successi di Interlagos e Kyalami, salvo poi subire un calo nel resto della stagione dove colse tre pole position ma solamente altri undici punti, terminando al sesto posto in classifica generale, mentre Jabouille fu tormentato da costanti problemi tecnici e come l’anno precedente concluse a punti un solo Gran Premio, vincendolo, precisamente a Zeltweg. Quella del pilota francese fu una gioia purtroppo breve in quanto poche settimane più tardi, nel corso del 25esimo giro del Gran Premio del Canada, finì a muro causa un guasto alla sospensione: venne estratto dalla vettura solamente un’ora più tardi e con serissime ferite alle gambe che lo costrinsero ad un lungo stop, mettendo di fatto la parola “Fine” sulla sua avventura. Chiuse la carriera l’anno seguente dopo soli cinque Gran Premi disputati con la Ligier, prima di intraprendere una nuova avventura con la Peugeot come pilota Endurance e poi come dirigente; l’era del Turbo stava dunque entrando in una nuova fase senza il suo protagonista più rappresentativo, colui che aveva accettato con grande coraggio una sfida su cui nessuno avrebbe scommesso, lavorando intensamente senza alcuna possibilità di confronto con la concorrenza fino a portare la propria squadra e il suo rivoluzionario propulsore tra i protagonisti della scena.


Mentre la Renault scalava la classifica iridata, nel 1980 la Ferrari affrontò una stagione tra le più deludenti della propria storia, dove la 312 T5, erede della T4 con cui Scheckter e Villeneuve avevano dominato la stagione precedente, si rivelò antiquata sul piano tecnico e disastrosa riguardo l’affidabilità; la deficitaria situazione di classifica spinse lo staff di Maranello verso una rinnovo totale del progetto sulla nuova vettura, a partire dall’accantonamento del motore aspirato a 12 cilindri “piatto” in virtù di un nuovo propulsore sovralimentato da 1496 cm³ strutturato in 6 cilindri disposti a V di 120°, una soluzione che portò tra l’altro ad una riduzione degli ingombri ottimale per le esigenze aerodinamiche di una wing car. La rapidità dei tecnici Ferrari permise alla Scuderia di schierare la 126C già durante le prove del Gran Premio d’Italia 1980, dove Villeneuve dimostrò la bontà del progetto girando più veloce di Scheckter di oltre un secondo, anche se i dubbi sull’affidabilità spostarono il debutto ufficiale alla stagione seguente, durante la quale il canadese, ora affiancato dal francese Pironi, colse due importantissimi successi a Montecarlo e Jarama, piste particolarmente tortuose dove la potenza del Turbo e la scarsa maneggevolezza del mezzo avrebbero dovuto in teoria rappresentare un handicap. Al contempo la Renault continuò il proprio percorso di crescita e ingaggiò il promettente Alain Prost, il quale dopo un avvio difficile mise in mostra tutto il proprio talento e le proprie capacità nella messa a punto, affrontando una seconda parte di stagione da protagonista, forte di tre vittorie e due secondi posti che lo portarono in quinta posizione a soli sette punti dal campione del mondo Piquet.
Le quattro vetture Turbo schierate da Ferrari e Renault conquistarono dunque cinque successi su un totale di quindici Gran Premi a confronto con quasi trenta avversari, i quali dovettero “arrendersi” all’evidenza dei fatti avviando la ricerca di un nuovo partner per la fornitura di un motore sovralimentato, scelta che portò ad una vera e propria rivoluzione in un ambiente da anni abituato alla lotta tra la Ferrari e i costruttori inglesi, legati al tradizionale Ford Cosworth e ad un regolamento che permetteva di affrontare stagioni di successo contando sul proprio ingegno e costi relativamente contenuti. Oltre alla Toleman, scuderia che stava scontando lo scotto dell’inesperienza nel passaggio dalla Formula 2 insieme al proprio partner Brian Hart, artigiano impegnato nello sviluppo di un motore Turbo che potesse permettere al team di affrontare il salto di qualità, nel 1982 tentò la nuova strada anche la Brabham campione in carica, che montò un motore Bmw sulla Bt50 con cui Piquet vinse il Gran Premio del Canada, mentre l’altro pilota Riccardo Patrese vinse a Montecarlo con la Bt49 motorizzata Ford Cosworth ed utilizzata prevalentemente ad inizio stagione. In avvio di campionato Prost tentò la fuga con due vittorie nelle prime due gare, prima di essere ridimensionato da una lunga serie di ritiri che favorirono l’altra scuderia favorita, la Ferrari, purtroppo sconvolta nelle settimane successive dalla tragica scomparsa di Villeneuve e poi dal gravissimo incidente di Pironi, il quale concluse il mondiale al secondo posto a soli cinque punti dal campione del mondo Rosberg anche se fu costretto a saltare gli ultimi cinque Gran Premi, ennesima dimostrazione del grande potenziale della monoposto di Maranello, comunque Regina tra i costruttori grazie ai punti raccolti da Tambay e poi da Andretti, degni sostituti dei piloti titolari, privati della gioia di vivere una stagione trionfale a causa di un destino avverso.


Il campionato del mondo 1982 fu segnato da gravi tragedie e da un equilibrio visto raramente nel mondo della Formula 1, con ben nove vincitori differenti su sedici Gran Premi e Rosberg campione del mondo con soli 44 punti e una vittoria in carniere; fu il canto del cigno per l’aspirato Ford Cosworth, che nel 1983 si impose solamente a inizio stagione in circuiti cittadini, ovvero a Long Beach, dove Watson compì una rimonta da record vincendo dopo essere partito dalla 22esima posizione, poi a Montecarlo con Rosberg e infine con Alboreto a Detroit, 155esima e ultima affermazione per Cosworth in Formula 1. I successivi cinque Gran Premi furono appannaggio della Ferrari di Arnoux, che recuperò terreno dopo un inizio deludente, e della Renault di Prost, avviato verso la conquista di un titolo che sembrava ormai una formalità, dato che dopo l’appuntamento di Zandvoort, dove tra l’altro la Mclaren di Lauda fu spinta per la prima volta dal Tag-Porsche, la classifica vedeva il francese saldamente al comando con 51 punti, contro i 43 di Arnoux e i 37 di Tambay e Piquet, poi quest’ultimo vinse due gare consecutive e approfittò degli errori di Prost e della Renault, nel frattempo divenuta anche fornitrice della Lotus, per cogliere a Kyalami un terzo posto che fu sufficiente per concludere la rimonta e permettere alla Brabham di conquistare il primo titolo nell’era del turbo. In occasione del Gran Premio del Sudafrica tra l’altro la Williams scese in pista con il motore sovralimentato della Honda, che nel corso della stagione aveva debuttato grazie alla piccola scuderia Spirit, aggiungendosi al lotto delle vetture Turbo insieme all’Ats, che aveva stipulato un accordo con la Bmw, e l’Alfa Romeo, protagonista della propria migliore stagione dal rientro grazie ai risultati ottenuti da De Cesaris al volante della 183T equipaggiata dal turbo V8 tipo 890T. Già a campionato in corso erano sorte grandi polemiche in quanto era opinione di alcuni che la Brabham utilizzasse benzine irregolari, ma dopo un ammissione scritta di Ecclestone, che dichiarò di aver errato in buona fede, nessuno sporse reclamo e il titolo venne convalidato, opzione tesa ad accontentare tutti e nessuno, ma soprattutto a scatenare un dibattito eterno in merito alla regolarità del titolo conquistato in pista dal team britannico.
Superate le polemiche, la Formula 1 si apprestò ad affrontare nel 1984 il festival del Turbo: Williams, Lotus e Mclaren consolidarono la propria partnership e si apprestavano a sfidare Brabham, Renault e Ferrari, la Ligier passò al motore Renault, l’Osella ottenne i propulsori dall’Alfa Romeo, la Spirit ricevette il sostegno della Hart e la Arrows si accordò con la Bmw battendo sul tempo la Tyrrell, che tentò senza fortuna di trovare un accordo con la Porsche e dovette accontentarsi ancora dei tradizionali motori aspirati Cosworth, una vera e propria beffa considerando l’ironico soprannome coniato da Ken Tyrrell a Silverstone nel 1977 per la “teiera gialla” Renault e per il suo motore Turbo, ormai fondamentale per poter essere competitivi nel Circus. Il team del “Boscaiolo”, ormai lontano dai fasti dei primi anni settanta, nel corso della stagione subì l’onta della squalifica a causa dei pallini di piombo inseriti nel serbatoio del liquido refrigerante che secondo Tyrrell servivano per mantenere la vettura nei limiti di peso previsti del regolamento, mentre la federazione contestò la situazione in quanto le zavorre dovevano essere necessariamente ispezionabili, accusando la scuderia di frode. La diatriba proseguì trovando il proprio epilogo a Zeltweg, dove Johansson mancò la qualificazione e l’altra Tyrrell di Bellof venne squalificata risultando sottopeso di 3Kg: per la prima volta dal 1967 non vi fu nemmeno un Ford Cosworth al via di un Gran Premio di Formula 1, mentre il team britannico vide definitivamente cancellati i risultati della stagione, con la possibilità di iscriversi alle gare pur senza la facoltà di conquistare punti, perdendo l’appoggio degli sponsor e avviando un lungo declino culminato con la definitiva scomparsa sul finire degli anni novanta. La stagione dei Gran Premi proseguì con lo spettacolare duello tra Lauda e Prost, alfieri di una Mclaren destinata a recitare il ruolo di protagonista negli anni a venire, mentre la Renault si trovò ai margini e dovette accontentarsi di modesti piazzamenti, fino al mesto ritiro avvenuto alla fine del campionato 1985, pur confermando l’impegno come motorista.


Consolidata la presenza dei motori Turbo, che tra il 1985 e 1986 diventarono gli unici presenti in griglia e poi gli unici ammessi, i progettisti si trovarono a confronto con una nuova sfida: quella relativa ai consumi, in quanto nel tentativo di limitare le prestazioni, dal 1984 venne vietato il rifornimento e fissato il limite standard del serbatoio a 220 litri, capacità che l’anno seguente scese a 195; nonostante alcuni incidenti di percorso, gare interrotte anzitempo per mancanza di carburante e finali anomali come quello di Imola nel 1985, la velocità delle vetture continuò ad incrementare e i cavalieri del rischio nell’era del Turbo si trovarono al volante di mostri dalla scarsa maneggevolezza capaci di sprigionare potenze incredibili, superiori ai mille cavalli nelle configurazioni da qualifica, in un contesto dove la sicurezza non aveva ancora trovato spazio sufficiente, come dimostrato dal tragico incidente occorso a Elio De Angelis, decollato a causa del distacco dell’alettone posteriore avvenuto a piena velocità durante un test al Paul Ricard dove le misure adottate si rivelarono fatalmente inadeguate. La scomparsa del pilota italiano, l’idea che le monoposto stessero diventando ingestibili e il continuo incremento dei costi portarono la Federazione a stabilire un piano di progressiva eliminazione dei motori sovralimentati attraverso una serie di limitazioni tecniche che avrebbero guidato i team verso il ritorno agli aspirati a partire dal 1989.

Nel 1987, anno caratterizzato dall’avvincente battaglia in casa Williams, con successo di Piquet su Mansell, venne ulteriormente ridotta la capacità dei serbatoi, oltre alla pressione di sovralimentazione, mentre in griglia tornarono alcune vetture con motori aspirati, ai quali venne dedicata una classifica riservata intitolata a Jim Clark, trofeo conquistato dalla Tyrrell di Jonathan Palmer. Nel 1988 la pressione di sovralimentazione consentita scese a 2,5 bar, mentre la quantità di carburante venne ridotta a 150 litri, ma i cambiamenti regolamentari non impedirono alla Honda, nel frattempo passata dalla corte di Sir Frank Williams alla Mclaren di Ron Dennis, di confermare il proprio dominio, grazie a quindici successi su sedici Gran Premi, dei quali nove conquistati dall’astro nascente Ayrton Senna, ultimo campione del mondo “Turbo” nella storia della Formula 1. Il ritorno agli aspirati creò l’illusione di poter tornare a competere con costi contenuti, idea che fece incrementare il numero degli iscritti a trentanove unità, con venti team e sette motoristi a dare vita al nuovo corso della categoria regina del Motorsport, dove nei successivi lustri, con titoli conquistati come motorista e come scuderia, tra i protagonisti assoluti vi sarà proprio la Renault.

Mister Brown

 

 

F1 in pillole – Capitolo 7

Nel corso della stagione 1986 i motori sovralimentati avevano raggiunto in qualifica potenze ben oltre i 1000 cv, determinando costi di sviluppo sempre più elevati, oltre a serie preoccupazioni sulla sicurezza, purtroppo confermate dal tragico schianto che costò la vita a Elio De Angelis durante un test al Paul Ricard, dove le misure di sicurezza si dimostrarono pesantemente inadeguate. In base alle deroghe definite dal “patto della concordia”, la FISA decise senza consultare i team di avviare la progressiva eliminazione dei motori turbo con la contestuale introduzione di limitazioni. arrivando alla messa al bando prevista per il 1989. In questa grande fase di cambiamento Alain Prost mise nel cassetto l’etichetta di eterno secondo, il mansueto Mansell divenne un leone, Piquet conquistò il terzo titolo iridato e, mentre la Ferrari si allontanò dal vertice, una nuova stella iniziò a brillare nel mondo dei gran premi: Ayrton Senna. Oltre ai grandi protagonisti, tra spese folli e potenze mostruose, tra i piccoli team non cessò mai la speranza di conquistare un posto al sole, ed è proprio a loro che dedichiamo il piccolo spazio di oggi.

La F1 verso il ritorno agli aspirati

Con la previsione di ritorno ai motori aspirati e considerando la differenza di prestazione tra gli stessi e i turbo, la FIA promosse nel 1987 un trofeo dedicato intitolato a Jim Clark per i piloti e un altro dedicato a Colin Champan riservato ai costruttori. Partecipavano Tyrrell, AGS, Larrousse, March e Coloni (ovvero le vetture sprovviste di motore sovralimentato) con i rispettivi piloti, attraverso l’assegnazione di punti identica a quella del mondiale considerando l’ordine di arrivo “relativo” delle vetture partecipanti nella classifica di fine gara. Il Trofeo Jim Clark venne assegnato a Jonathan Palmer, pilota della Tyrrell a motore Cosworth, la quale vinse il Trofeo Colin Chapman per i costruttori.

Zakspeed finalmente tra i primi sei

La Zakspeed, dopo alcune esperienze in campionati automobilistici tedeschi, tentò la strada della Formula 1 con un consistente sponsor “tabaccaio” ed un ambizioso progetto di vettura interamente costruita in casa, stile Ferrari, con un proprio motore sovralimentato. Dopo due stagioni difficili, nel 1987 venne ingaggiato Martin Brundle, che ad Imola partì in ottava fila e chiuse al quinto posto, cogliendo gli unici punti nella storia del team, che nei due anni successivi riuscì a qualificarsi con sempre maggiore difficoltà (nel 1989 solo due partenze e due ritiri su 32 tentativi), decidendo poi di chiudere i battenti per spostare la propria attenzione sulle ruote coperte.

Primi punti giapponesi in F1

Tra gli anni settanta e ottanta i piloti giapponesi in Formula 1 erano soliti disputare esclusivamente il gran premio di casa con alterne fortune, tanti anni dopo il primo a correre con regolaritá fu Satoru Nakajima, che alla sua seconda apparizione, nel 1987 a Imola, andó a punti. Esaurita la benzina a due giri dal termine, fu classificato sesto. Corse fino al 1991 con Lotus e Tyrrell, ottenendo 16 punti in 80 gran premi.

A Spa paura per Palmer e Streiff

Il Gp del Belgio 1987 richiese due start in quanto alla prima partenza Streiff uscì di strada all’Eau Rouge e venne colpito dal compagno di squadra Palmer. L’immagine terrificante con la vettura spezzata in due tronconi generò apprensione, ma i due piloti uscirono fortunatamente dall’abitacolo senza danni fisici. Due anni più tardi la sorte non fu però benevola con Streiff, vittima a Jacarepagua di un incidente con l’Ags che lo rese tetraplegico; il francese si distinse poi per le proprie attività sociali e a favore dell’inserimento dei disabili nello sport e per recenti polemiche sorte circa alcune sue dichiarazioni sulla salute di Michael Schumacher poi smentite dalla famiglia del campione tedesco.

Mandingo più forte della sfortuna

Nel 1985 per De Cesaris sfumò un passaggio ormai certo alla Brabham che si concretizzò solamente due anni più tardi, quando il team era ormai in totale declino. Il pilota romano mise in pista la consueta grinta ma l’inaffidabilità del mezzo non gli consentì mai di tagliare il traguardo, nemmeno in occasione del podio ottenuto a Spa, quando al termine di una gara di grande sostanza e intelligenza tattica rimase senza benzina a pochi metri dal traguardo; ultimo pilota a pieni giri, uscì sconsolato dalla vettura ma venne classificato terzo, risultato meritatissimo.

Ags: chi va piano arriva sano

Dopo due gare con Capelli e il turbo Motori Moderni nell’anno del debutto, dal 1987 l’Ags passò al motore aspirato Cosworth e scelse il debuttante Pascal Fabre. La vettura si rivelò molto lenta, tanto che in prova il francese accusò costantemente distacchi di oltre dieci secondi dalla pole, anche se l’affidabilità permise al team di ritirarsi in due sole occasioni nelle prime dieci gare, con un nono posto in Francia e Inghilterra come migliore risultato. Pare che lo sponsor principale non fosse troppo dispiaciuto per le prestazioni in quanto Fabre solitamente terminava le gare con alcuni giri di distacco e il doppiaggio da parte dei top team garantiva un buon numero di passaggi televisivi. Per le ultime due gare il volante fu affidato a Roberto “Pupo” Moreno che ad Adelaide si qualificò 25esimo a 6,3″ dalla pole, arrivando sesto in gara a tre giri dal vincitore, vincendo il confronto con la Zakspeed di Danner. L’Ags restò in Formula 1 fino al 1991 conquistando solamente un altro punto con Gabriele Tarquini, sesto al gran premio del Messico del 1989. Terminata l’esperienza in F1 la scuderia francese si è specializzata in rinomati corsi di pilotaggio.

Punti fantasma per Dalmas

Definito da alcuni “il nuovo Prost”, grazie alle ottime prestazioni nelle formule minori, Dalmas ha conquistato notevoli successi a ruote coperte quali un mondiale sport prototipi, quattro affermazioni alla 24 ore di Le Mans e una vittoria alla 12 ore di Sebring. In Formula 1 non ebbe grandi occasioni di mettersi in mostra e si piazzò tra i primi sei una sola volta, in Australia nel 1987, anche se in quell’anno la Larrousse aveva iscritto una sola vettura (per Alliot) e da regolamento il secondo pilota iscritto (nel suo caso per le ultime tre gare) non poteva conquistare punti validi per il mondiale. Nel 1988 non ottenne punti, poi si fermò momentaneamente per motivi di salute, mentre nei due anni successivi, tra Larrousse e Ags, si qualificò in sole cinque occasioni, ritornando per una breve esperienza in due gare nel 1994 senza ottenere risultati e spostandosi poi definitivamente verso le ruote coperte.

Finisce l’era del turbo

La Formula 1 partì nel 1988 da Jacarepagua con le nuove norme di equivalenza FISA fra i turbo e gli aspirati (riduzione della pressione di sovralimentazione a 2,5 bar e capacità dei serbatoi a 150 litri) che, contrariamente alle previsioni, non si rivelarono particolarmente efficaci: le vetture turbo infatti inizialmente dominarono la scena. Tra i nuovi team, con un convenzionale Cosworth, debuttò la Eurobrun, che riuscì a qualificarsi con entrambi i piloti. Oscar Larrauri, 26esimo in prova a 7.6 sec. da Senna, non riuscí a terminare nemmeno un giro causa un guaio elettrico, poi in stagione ottenne un 13esimo posto come migliore risultato, mentre Stefano Modena riuscì a classificarsi undicesimo all’Hungaroring.

L’ultima Formula 3000 in Formula 1

Nelle prequalifiche di Jacarepagua la Scuderia Italia debuttò schierando una vettura di F.3000, (come la March nel 1987): la nuova monoposto 188 F1 prodotta dalla Dallara non era ancora pronta e il team, per non incorrere in sanzioni economiche, si presentò con una Dallara 3087 di Formula 3000, dotata di un motore Cosworth DFV da 3000 cm³. Com’era prevedibile, Alex Caffi non riuscì a superare le prequalifiche; fu l’ultima F3000 iscritta nel mondiale di Formula 1.

La Formula 1 saluta Detroit

Il circuito di Detroit, disegnato lungo le sponde dell’omonimo fiume nelle vicinanze del Renaissance Center, ​come molti circuiti cittadini aveva una​​ sede stradale stretta delimitata da muretti e guard rai​l ​per una lunghezza totale di 4.023 metri.​ ​La Formula 1 ​vi ​ha corso tra il 1982 e 1984 (gran premio Usa Est) e tra il 1985 e il 1988 (gran premio degli Usa) prima che la competizione in terra americana ​​si spostasse a Phoenix.​ ​Nell’ultima edizione vinse Ayrton Senna, che già aveva trionfato nelle due precedenti.

Nuovi motoristi nel Circus

Fondata da John Judd e Jack Brabham al fine di produrre i motori per la Brabham, la Judd divenne poi la prima casa autorizzata per produzione e manutenzione del Cosworth DFV, espandendosi con successo in varie categorie. Con il ritorno agli aspirati la casa inglese si accordò con la March per la produzione di un motore F1 V8 da schierare nel 1988, scelto anche da Williams e Ligier. Quest’ultima lo montò sulla JS31, vettura progettata con posizione del motore molto avanzata, immediatamente dietro le spalle del pilota con il serbatoio di benzina diviso in due parti. Dopo un incoraggiante debutto a Rio, a Imola sia Arnoux che Johansson non si qualificarono (+ 8,5 sec dalla pole), preludio di una stagione fallimentare con nessun punto raccolto e numerose esclusioni.

La prima opera di Ross Brawn…

Nel 1987 la Arrows schierò la A10, prima vettura disegnata da Ross Brawn, evoluta l’anno seguente nella versione B, spinta dal turbo Bmw marchiato Megatron, che fruttò il quarto posto tra i costruttori, miglior risultato nella storia del team. Tra i vari piazzamenti a punti, a Monza Cheever e Warwick stazionarono costantemente alle spalle di Mclaren (poi ritirate) e Ferrari, piazzandosi rispettivamente al terzo e quarto posto.

…e la prima di Adrian Newey

La March 881 fu la prima opera Formula 1 interamente progettata da Adrian Newey: innovativa, particolarmente rigida, caratterizzata da una linea affusolata e tanto stretta che Ivan Capelli faticava ad entrare. Gli ottimi risultati confermarono la bontà della monoposto, in quanto il pilota italiano fu protagonista di una grandissima stagione conclusa al settimo posto con ben 17 punti e due podi all’attivo. Dopo aver duellato con Senna all’Estoril, Capelli a Suzuka restò per diversi giri negli scarichi del leader Prost cullando il sogno di una possibile vittoria, ma un guasto al motore Judd lo costrinse al ritiro.

Finito un capitolo, per la F1 si aprì una nuova storia, non certo priva di spunti interessanti, con l’ingresso di un numero incredibile di team, quasi quaranta iscritti, la roulette russa delle prequalifiche e tanto, tanto ancora.

Mister Brown

Per fare un salto indietro nel tempo leggere qui:

Pillole di F1 cap. 1 – Anni ’50 e ‘60
Pillole di F1 cap. 2 – Anni ’70 (prima parte)
Pillole di F1 cap. 3 – Anni ’70 (seconda parte)
Pillole di F1 cap. 4 – Anni ’70 (terza parte)
Pillole di F1 cap. 5 – Arrivano gli anni ’80
Pillole di F1 cap. 6 – L’era del turbo (inizio)

Lotta per il potere in F1: la guerra FISA-FOCA

Correva l’anno 1980. 20 alla fine del millennio. La F1 era una categoria in piena ascesa, veniva da un decennio in cui tutto era stato grande, le imprese, le tragedie, l’evoluzione tecnologica, l’aumento dell’attenzione mediatica. Da un lato il progresso sul fronte dei motori, con la coraggiosa introduzione del turbo da parte della Renault, e dall’altro l’esasperazione aerodinamica portata da Colin Chapman, frutto della necessità da parte dei team inglesi (o garagisti, come li chiamava Enzo Ferrari) di sopperire alla mancanza di cavalli del motore Cosworth.

Gli inglesi erano sempre stati convinti che la F1 dovesse essere cosa loro. Capeggiati da Bernie Ecclestone, che per primo aveva capito il grande potenziale commerciale della categoria, i team si erano costituiti in una associazione denominata FOCA (Formula One Constructors Association), il cui obbiettivo era tutelare i diritti degli stessi in maniera organizzata, costituendo un’unica entità con la quale trattare con il potere sportivo, rappresentato dalla FISA (Fédération Internationale du Sport Automobile ), emanazione della FIA. La FISA era guidata da una sorta di despota dai tratti fra il comico e il grottesco che di nome faceva Jean Marie Balestre.

Le questioni da affrontare erano tante, e andavano dalla definizione della spartizione dei ricavi fino ai regolamenti tecnici. Perchè di soldi ne iniziavano a girare parecchi. Da qualche anno la F1 godeva di una copertura televisiva continua in moltissime nazioni. C’erano quindi diritti televisivi da gestire, trattative da fare, con organizzatori, televisioni e sponsor, e colui che più degli altri aveva ben chiaro il da farsi era proprio Bernie Ecclestone.

Ma, ovviamente, c’era chi non voleva lasciare in mano tutto agli inglesi, e il fronte contrapposto era costituito dal sopra citato Jean Marie Balestre e, ovviamente, da Enzo Ferrari, che era al tempo stesso stimato e detestato dai team di oltremanica. Soprattutto nell’ultima parte degli anni 70, quando la Ferrari era tornata prepotentemente a vincere.

Come in tutte le guerre, c’è un fattore scatenante, la scintilla che dà il via alle ostilità, e nel nostro caso questa scintilla ha il nome di un vestito femminile molto di moda negli anni precedenti: la minigonna. O, meglio, le minigonne. Una delle tante furbate che gli inglesi mettevano in pista all’epoca per potere stare davanti alla Ferrari. O, se proprio non vogliamo considerarle furbate, possiamo definirle “interpretazioni al limite del regolamento”. Limite che Ferrari non voleva mai nemmeno sfiorare. Le suddette minigonne erano state introdotte da Colin Chapman sulla prima vera wing-car, la Lotus 79, ed erano palesemente irregolari, essendo appendici mobili con funzione aerodinamica. Da Maranello partirono veementi le proteste, motivate non solo da questioni regolamentari ma anche dal fatto che quel motore 12 cilindri a V di 180° che negli anni precedenti era stato il punto di forza delle rosse, non consentiva, per l’ampiezza dell’angolo fra le bancate, di realizzare una wing-car perfetta, ed era così diventato improvvisamente un punto di debolezza.

E, in più, a Ferrari l’idea che il motore non fosse l’elemento vincente di un’auto non piaceva troppo. Si creò così il cosiddetto fronte dei “legalisti”, costituito dai team che pretendevano il rispetto totale del regolamento tecnico deciso dalla FISA. Niente minigonne e niente furberie similari. E, magari, meno potere agli inglesi. Questo fronte coincideva con il gruppo dei costruttori all’epoca impegnati in F1, Ferrari, Renault e Alfa Romeo, cui si aggiunsero nel tempo altri team minori non inglesi, come la Osella.

Lo scontro fra i due fronti era quindi nominalmente dovuto a questioni regolamentari, ma il vero motivo erano ovviamente i soldi e la gestione della F1 più in generale.

La guerra fra legalisti+FISA da una parte, e FOCA dall’altra, iniziò alla fine del 1979 e si protrasse per poco più di due anni, anche dopo la firma di quel Patto della Concordia che dal 1981 regola la F1, e che continuerà a farlo almeno fino al 2020, attraversando quindi 4 decenni, caratterizzati da mutamenti del contesto economico internazionale, della tecnologia, dei gusti del pubblico, dei mezzi di comunicazione. Avendo, almeno fino ad ora, due punti fermi: Ecclestone e la Ferrari. Con il primo che riuscì abilmente a fare assegnare alla FOCA (e quindi a se stesso) la gestione dei lucrativi diritti televisivi, e con la seconda destinataria di un bonus permanente garantito. Facendo inoltre arricchire in modo spropositato molti (non tutti) fra coloro che parteciparono alla costituzione dell’accordo.

Alcune delle battaglie di questa guerra si svolsero sulle piste. Ci furono GP corsi con solo i team di un fronte o solo quelli dell’altro: il GP di Spagna del 1980 e quello del Sudafrica del 1981, entrambi corsi dai soli team inglesi, e il GP di San Marino del 1982 corso ad Imola, cui parteciparono i soli team legalisti con l’aggiunta della Tyrrell che aveva sponsor italiano. I primi due non ebbero validità mondiale e furono entrambi vinti dalla Williams, con Jones e Reutemann, e il terzo è passato alla storia per il nefasto duello Pironi-Villeneuve.

Se nel caso del GP di Spagna e di quello di San Marino il forfait di parte dei team fu una forma di protesta decisa durante il week-end di gara o poco prima, il GP del Sudafrica del 1981 fu un atto di sfida pianificato nei confronti della FISA, volendo essere, in effetti la prima prova di un campionato alternativo organizzato da Ecclestone e a cui avrebbero dovuto partecipare i team appartenenti alla FOCA. Si corse con un regolamento che non era quello previsto dalla FISA per quell’anno, e non ebbe un particolare successo.

Nel 1981 la prospettiva di avere due campionati fu quindi concreta, e in effetti vennero divulgati i due calendari, quello della FISA e quello della FOCA. Ma, visto anche lo scarso successo del GP del Sudafrica, le parti compresero che nella divisione entrambe ci avrebbero perso (come in effetti successe tanti anni dopo negli Stati Uniti con lo split fra Cart e IRL, avvenuto per motivi in un certo senso analoghi e che ha poi comportato la distruzione di un campionato che negli anni ’80 e ’90 era arrivato a fare concorrenza alla F1 stessa).

Fu quindi trovato l’accordo per correre tutti assieme nel 1981. La Ferrari ottenne l’abolizione delle minigonne e l’imposizione dell’altezza minima da terra di 6 cm, ma i team inglesi aggirarono subito la norma grazie ai martinetti idraulici. E il campionato si concluse con la vittoria della Brabham di Ecclestone. E così per il 1982 fu abolita la regola dell’altezza da terra, di fatto inefficace, e si tornò al regolamento del 1980. Non passò però la richiesta degli inglesi di ridurre la cilindrata dei motori turbo. Nel corso di quell’anno il divario fra turbo e aspirati era diventato di un centinaio di cavalli, troppi per essere compensati con l’aerodinamica. E così si inventarono il trucco dei serbatoi di raffreddamento dei freni, giocando sul fatto che il peso minimo si misurava dopo avere rabboccato i liquidi di qualsiasi tipo, carburante escluso. Di fatto Williams, Brabham e compagnia correvano con decine di kg in meno rispetto alle legalissime Ferrari e Renault, e riuscirono a tenerne il passo nelle prime gare. Ma, dopo le forti proteste dei legalisti stessi, la FISA tolse loro i risultati ottenuti e per protesta gli inglesi disertarono in massa il GP di San Marino ad Imola. Ma quella fu l’ultima battaglia, anche perchè subito dopo iniziarono le tragedie e diventò chiaro a tutti che l’accoppiata turbo+wing car era eccessivamente pericolosa. Saggiamente, le parti in conflitto decisero di fare l’interesse della F1 fermando le ostilità e dando priorità alle questioni più urgenti, tenendo fede al patto della Concordia firmato l’anno precedente. Furono abolite le wing-car, con l’imposizione del fondo piatto, e i principali team FOCA siglarono accordi di fornitura con grandi costruttori (Honda, Porsche, BMW) eliminando il problema del gap prestazionale, e trasformando definitivamente la F1 da categoria per assemblatori a luogo nel quale le grandi case automobilistiche potevano mostrare al mondo le loro capacità.

Nei decenni successivi vi sono stati altri momenti nei quali si è paventata la costituzione di un campionato alternativo, ma a guidare le fronda erano le case automobilistiche, stanche di incamerare solo una piccola parte dei grandi ricavi che la F1 produce. Perchè i cordoni della borsa li ha sempre avuti in mano Ecclestone, e lui ha sempre trovato il modo di riportare la pace, evitando che dalle intenzioni si passasse ai fatti.

Alla fine non sono stati i costruttori a togliere a Mr E il potere ma coloro che hanno comprato l’intero (o quasi) business. Evidentemente è sempre stato chiaro a tutti il fatto che Bernie, pur gestendo l’azienda quasi come un’impresa familiare, in primissima persona, curando tutti gli aspetti e circondandosi di collaboratori fedelissimi anche se dal curriculum a volte discutibile, ha sempre ottenuto e fatto ottenere a tutti ciò che si aspettavano, e cioè una montagna di soldi. Ma adesso, da qualche giorno, il comando è affidato ad altri.

La conclusione che vogliamo trarre da questo sintetico excursus sulla prima guerra di potere avvenuta in F1 è che se all’epoca le manovre di Ecclestone sembravano quelle di un intraprendente uomo d’affari impegnato a fregare FISA e Ferrari per fare gli interessi suoi e quelli dei suoi amici inglesi, la storia ha poi dimostrato che è proprio grazie a lui se la F1 è diventato un business in grado di generare profitti notevoli per la maggior parte di coloro che vi hanno partecipato. E’ vero che in anni recenti la sua gestione è sembrata non adattarsi al mutato contesto del mercato, è anche vero che, specialmente negli ultimi anni, sono piovute critiche sul Patto della Concordia e sulle modalità di spartizione dei soldi, ma in fin dei conti la F1 ha sempre continuato a portare sulla griglia di partenza un numero più che accettabile di partecipanti laddove altre categorie (MotoGP compresa) soffrivano. E’ ciò è dovuto al fatto che Mr E ha sempre avuto ben chiaro quale fosse l’interesse primario del business, e seguendo la sua linea ha, in fondo, sempre fatto l’interesse di tutti, o, almeno, della maggior parte. Prova ne sia il fatto che i precedenti azionisti di maggioranza hanno comunque voluto che fosse lui a mandare avanti operativamente gli affari. E, dalle voci che girano, la defenestrazione è stata oggetto di accese discussioni fra nuovi e vecchi azionisti.

Terminiamo con una domanda: la triade che è subentrata a Mister E, costituita da due perfetti sconosciuti (per il mondo della F1) e da un conosciutissimo storico nemico di Ecclestone, ancorchè persona estremamente esperta e competente, che di nome fa Ross Brawn, sarà capace di mantenere unita la F1 come di fatto è successo negli ultimi 4 decenni? O, fatto fuori il grande capo, si scatenerà una vera e propria guerra civile, come sempre succede quando un dittatore viene deposto? Se quest’ultima è la risposta, a nostro parere la F1 ha molte meno probabilità di riuscire a sopravvivere come entità unica rispetto a quante ne avesse all’epoca della prima guerra di potere, quella fra FISA e FOCA.