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Hamilton e la Mercedes dominano a Monza

“Sapevamo che sarebbe stata una pista difficile, lo abbiamo detto tante volte in questo week-end”. Così doveva essere e così è stato.
Mentre Hamilton andava ripetendo che gli sarebbe piaciuto fare doppietta proprio in casa del nemico, per dare un segnale forte. E anche questo è successo, la Mercedes è stata costantemente superiore alla Ferrari, con un divario medio in gara oltre il mezzo secondo al giro. Sul primo pilota, perché la seconda guida è arrivata molto più lontana, autrice di una gara che rende ancora più inspiegabile la riconferma per il 2018, a differenza della seconda guida Mercedes, sempre vicina al caposquadra dopo avere immediatamente fatto dimenticare la brutta qualifica di ieri.

Vettel perde la leadership del mondiale, e se si guarda il conto totale delle vittorie si capisce che il distacco di oggi non è frutto del caso: 8 Mercedes, 4 Ferrari. Ma bisogna essere ottimisti. Lo devono essere soprattutto in Ferrari, perchè, come ripetono spesso i rossi, bisogna anche considerare dove erano lo scorso anno. All’inizio della stagione pochi avrebbero scommesso che dopo Monza Vettel sarebbe stato ancora ben in corsa per il titolo. Ma, si sa, l’appetito viene mangiando, e ora l’obiettivo è vincerlo, questo titolo. Dopo la gara di oggi è ancor più chiaro che servirà non solo che funzionino gli sviluppi portati gara per gara, ma anche avere Vettel al massimo della forma in ogni occasione. E anche Raikkonen, ovviamente. Sarà comunque durissima.

In questo week-end la Ferrari è stata la terza forza in pista, dietro anche alla Red Bull, che dopo avere fatto un secondo e terzo posto virtuali in qualifica, vanificati dalle penalizzazioni, ha poi mostrato in gara un passo notevole, consentendo a Ricciardo di arrivare quarto a poca distanza da Vettel (splendido il sorpasso su Raikkonen) e a Verstappen di arrivare decimo dopo un incidente iniziale che l’ha costretto ad una fermata supplementare. E’ molto probabile, che senza penalità, per la Ferrari ci sarebbe stata solo la possibilità di lottare per il quinto posto, e sarebbe stato piuttosto sorprendente considerando il (teorico) deficit di potenza della PU Renault rispetto alla Ferrari.

E proprio questo fa venire il dubbio su quali siano i reali motivi delle prestazioni viste in questo week-end. La Mercedes davanti ci poteva stare, ma il distacco della Ferrari è inatteso, e la prestazione Red Bull pure. Non può essere tutto spiegato solo con la differenza fra le PU, è evidente che di mezzo c’è uno sfruttamento delle gomme più o meno buono, e in questo la Ferrari è ovviamente stata la peggiore. E’ sperabile che nel prosieguo del campionato non si riproponga l’atavica allergia della rossa alle coperture italiane, che è già costata in passato vittorie e mondiali.

Dietro ai primi 3 team, da segnalare le ottime prestazioni di Ocon sesto e Stroll settimo. La somma degli anni dei due fa l’età di Raikkonen, e quest’ultimo ha dovuto lottare duramente per stare loro davanti. I due ragazzi sono stati molto intelligenti a non farsi prendere la mano, evitando duelli all’arma bianca e cercando di portare a casa quello che per loro era il migliore risultato possibile, resistendo anche al ritorno dei due compagni di squadra Massa e Perez, piazzatisi subito dietro di loro (con Massa che per la verità ha – logicamente – coperto le spalle a Stroll, più che impensierirlo).

Già detto di Verstappen che chiude i piazzati a punti, per le altre 5 squadre Monza è una gara da dimenticare in fretta. Renault e Haas sono state l’ombra di quelle viste a SPA. La McLaren no perchè se fosse stata l’ombra di se stessa sarebbe probabilmente andata meglio. La Toro Rosso non è praticamente mai esistita, mentre la Sauber non esiste dall’inizio dell’anno e quindi oggi non si è visto niente di nuovo.

Ora si va a Singapore, dove, a parere di chi scrive, la Ferrari si gioca una grossa fetta delle possibilità di portare a casa questo mondiale. E’ una pista sulla quale sia la vettura di Maranello che Vettel sono sempre andati benissimo, e quindi l’obiettivo minimo è compensare la doppietta di oggi relegando Hamilton al terzo posto (o più giù). Ma è anche una pista nella quale l’imprevedibile accade, e sarà indispensabile essere perfetti per centrare l’obiettivo.

F1 in pillole – Capitolo 4

La storia della Formula 1 ha conosciuto una costante evoluzione tale da mettere talvolta in contrasto gli appassionati, tra i romantici legati all’immagine eroica dei piloti tutto cuore e quelli più affascinati dall’evoluzione tecnica che ha portato nell’arco di pochi decenni a vedere in pista vetture sempre più veloci ed evolute, sempre protese a portare all’estremo lo studio applicato alle quattro ruote.

I piloti sono e restano il filo rosso che lega questa fantastica avventura, per questo motivo abbiamo scelto di raccontare la storia di questo sport attraverso le loro avventure (con particolare attenzione per quelle meno note) e dopo le prime tappe arriviamo fino al 1980, ovviamente senza alcuna intenzione di fermarci.

Il figlio del re delle montagne

La March non disponeva di grandi risorse per il 1976 e si accontentò di aggiornare la vettura a disposizione trovando team e sponsor acquirenti, quali furono la Lavazza per Lella Lombardi, l’Ovoro per Merzario e la Beta per Brambilla. Il team ufficiale poteva invece contare su Peterson e Stuck, il quale nel gran premio di casa, al Nurburgring, riuscì ad ottenere uno straordinario quarto tempo in prova, mentre in gara fu tradito dalla frizione ancora prima di iniziare. Figlio del leggendario Hans (detto Bergkönig, re delle montagne) , il tedesco ha preso il via a 74 Gp di Formula 1 con due podi, mentre la carriera con vetture Sport è stata lunghissima e ricca di successi.

La svolta di Piedone

A Long Beach nel 1976 la Parnelli scese in pista l’ultima volta. Un giornalista chiese ad Andretti: “Cosa pensa della sua ultima gara in Formula 1? Me l’ha detto Vel Miletich, co-fondatore del team”. Piedone rispose lapidario: “Per lui sarà l’ultimo gran premio, non certo per me!”. Non sbagliò, passò infatti alla Lotus con cui vinse il titolo nel 1978, poi chiuse la carriera nel Circus alla fine del 1982 guidando per la  Ferrari dopo una breve parentesi con l’Alfa Romeo.

Mr. Jack O’Malley

Bruno Giacomelli iniziò in F1 correndo sporadicamente per la Mclaren: i tecnici inglesi non riuscivano a pronunciare correttamente il suo nome e quindi lo ribattezzarono, con tanto di indicazione sulla vettura, Jack O’Malley.

Il “maestro” di Ayrton

Alcuni piloti sudamericani si sono fatti notare anche per dichiarazioni pubbliche in merito alla propria vita spirituale, tra i quali il più noto fu sicuramente Ayrton Senna, che fin dagli inizi della carriera raccontò il proprio rapporto con Dio e di come questo fattore lo aiutasse in pista. Magic fu avviato dalla Chiesa Evangelica dalla sorella Viviane e dal cognato, ma un ruolo decisivo in questo percorso lo ebbero anche Nuno Cobra e il pilota Alex Dias Ribeiro, il quale era solito correre con visibili scritte “Jesus Saves” o “Cristo Salva” sulle proprie vetture. Ribeiro tentò 20 partecipazioni in Formula 1, riuscendo a qualificarsi in 10 occasioni, ottenendo come miglior risultato un ottavo posto ad Hockenheim nel 1977 con la March, risultato ripetuto a fine stagione a Mosport.

Prime pagine della storia Williams

In seguito all’acquisto da parte di Walter Wolf della Frank Williams Racing Cars (rinominata Wolf) Frank Williams fondò la Williams GP Engineering, schierando nel primo anno, al pari di altri team, un telaio March 761 e un motore Ford Cosworth. Fu ingaggiato il belga Patrick Neve, che riuscì a qualificarsi in otto occasioni su undici tentativi, sfiorando la zona punti a Monza, dove concluse settimo a due giri dal vincitore. L’anno successivo Neve tentò di partecipare al Gran Premio di casa ma non superò le qualifiche: fu l’ultimo pilota ad essersi iscritto a titolo personale per una gara di Formula 1.

Lo sfortunato caso di Renzo Zorzi

Ancora scosso dopo essere stato spettatore del terrificante incidente del compagno di squadra Tom Pryce, Renzo Zorzi scese in pista a Long Beach dove fu costretto al ritiro, così come nel successivo appuntamento a Jarama. Le convincenti prestazioni del nuovo compagno Jones, l’interesse del team per il promettente Patrese e forse anche il fatto di essere stato involontaria causa scatenante dell’incidente di Pryce in un ambiente cinico, fatalista e a volte scaramantico, gli chiusero le porte della Formula 1, tra l’altro senza nessun preavviso, visto che Zorzi si presentò a Montecarlo e solo ai box gli venne comunicata la decisione del team; ebbe modo di rifarsi con grandi soddisfazioni in competizioni a ruote coperte e con la sua scuola di pilotaggio, fino alla scomparsa avvenuta nel 2015.

Il sogno di una March a 6 ruote

Prima del mondiale 1977 il tecnico March Wayne Eckersley costruì un retrotreno a 4 ruote motrici per la 761, vettura a 6 ruote designata March 2-4-0, dove lo zero indicava l’assenza del differenziale. Ai test di Silverstone partecipó anche Ian Scheckter, fratello del più noto Jody, ma la vettura richiedeva tempi di sviluppo troppo lunghi e non fu mai impiegata in gara. Il pilota sudafricano, che negli anni precedenti corse saltuariamente, ebbe l’occasione di partecipare a tutta la stagione ma, nonostante l’appoggio della Rothmans, il team corse in economia e il miglior piazzamento fu un decimo posto a Zandvoort, poi a fine anno il nome March scomparve dalla Formula 1, tornando a cavallo tra gli anni ottanta e novanta.

Problemi di comunicazione

Grazie ai buoni risultati ottenuti nella Can-Am, nel 1977 Tambay ebbe occasione di debuttare in Formula 1 alla guida di una Surtees, mancando però la qualificazione. Dalla gara successiva trovò un posto alla Theodore (scuderia che correva con telai Ensign) grazie al pagamento di un’ingente somma;  il manager del team Teddy Yip tentò poi di fargli firmare un contratto scritto completamente con ideogrammi, ma il francese si rifiutò di sottoscriverlo, motivo per cui prima del Gp di Germania dovette intervenire Bernie Ecclestone per risolvere la questione e garantirgli la possibilità di correre la gara, dove tra l’altro colse il primo punto in carriera.

Apollon Fly, racconto edizione “tascabile”

Dopo una breve esperienza con la Ram, Loris Kessel prese contatti con Frank Williams, che non aveva posto in squadra, ma fu disponibile a vendere una vecchia FW03 al Jolly Club Svizzero che la ribattezzò Apollon Fly dal nome dello sponsor principale. Il team tentò di iscriversi ad alcune gare senza successo, riuscendo a presentarsi a Monza, dove si accontentò di un posto all’aria aperta visto che le postazioni ai box non erano disponibili. Kessel percorse alcuni giri ma la vettura era lenta e girava ad oltre sei secondi dall’ultimo tempo utile per qualificarsi, così dopo un’uscita di pista lo svizzero decise di ritirarsi, chiudendo la breve avventura del team. Abile imprenditore e manager, Kessel ha ottenuto grandi successi nelle gare Gt, prima di spegnersi a causa della leucemia.

Le avventure di Cavallo pazzo

A soli 21 anni Beppe Gabbiani “Cavallo pazzo” (soprannome coniato da Enzo Ferrari) venne chiamato dalla Surtees per sostituire l’infortunato Brambilla e a Watkins Glen su pista bagnata fece incredibilmente segnare il miglior tempo nelle libere, mentre in qualifica commise un errore mentre stava per staccare un sorprendente sesto tempo e vide sfumare la possibilità di qualificarsi (a onor del vero all’epoca non si calcolavano gli intermedi ma la versione dell’epoca è rimasta tale). Le grandi doti dimostrate valsero in ogni caso i complimenti di Hunt e Depailler, mentre Alan Jones gli offrì addirittura un brindisi dopo che Gabbiani, con la consueta esuberanza, gli disse che con gomme migliori sarebbe andato più forte.

Capolinea per la Hesketh

Nel 1978, dopo due tentativi con Divina Galica (non qualificata) e una presenza di Cheever, ritiratosi dopo soli 8 giri a Kyalami, sul difficile tracciato di Long Beach la decaduta Hesketh schierò Derek Daly, il primo irlandese a correre in Formula 1 dopo i tentativi di Joe Kelly nel 1950 e 1951. Daly non riuscì a passare le prequalifiche, così come a Montecarlo, mentre a Zolder venne iscritto alle qualifiche ufficiali, ma anche in quel caso l’ostacolo risultò insormontabile. A quel punto il team chiuse i battenti e l’irlandese si accordò con l’Ensign con cui ottenne un punto nel gran premio del Canada; corse poi fino a tutto il 1982 con Tyrrell, March, Theodore e Williams.

Avanti, in casa Ats c’è posto

La Ats era entrata in Formula 1 nel 1977 utilizzando delle Penske, mentre dall’anno seguente schierò le proprie vetture, su cui si alternarono ben 7 piloti: la stagione iniziò con Mass (poi infortunato) e Jarier (licenziato per un litigio con il patron Schmidt), poi scesero in pista anche Colombo, Binder, Rosberg, Ertl e Bleekemolen; quest’ultimo a Watkins Glen riuscí a qualificarsi per l’unica volta in carriera, ma fu costretto al ritiro per una perdita d’olio.

Fangio rimandato come sbandieratore

La prova inaugurale del mondiale 1978, disputata a Buenos Aires, si chiuse dopo 52 giri e non secondo i 53 previsti, a causa di un errore dello sbandieratore Juan Manuel Fangio, che abbassò la bandiera a scacchi con un giro d’anticipo. Fu l’unica gara che vide la partecipazione di Lamberto Leoni, il quale si ritirò al 28esimo giro dopo essere partito dalll’11esima fila; nel successivo Gp del Brasile fu tradito dalla sua Ensign nel giro di formazione poi, dopo due mancate qualificazioni, lasciò la F1 e si spostò verso la motonautica, abbandonata in seguito alla morte di Pironi.

L’importante è partecipare

Nella storia della Formula 1 tanti piloti hanno tentato la gloria senza mai riuscire a qualificarsi, tra questi Tony Trimmer, che dopo alcune prove con la Maki, venne iscritto in due occasioni al Gp d’Inghiterra dal team privato Melchester, che gli mise a disposizione prima una Surtees e poi una Mclaren, quest’ultima nella sua ultima apparizione iridata,a Brands Hatch nel 1978. A onor di cronaca l’inglese portò a termine nel 1975 il Gp di Svizzera disputato a Digione e non valido per il mondiale: alla guida della Maki chiuse tredicesimo a sei giri dal vincitore Regazzoni.

Rebaque fai da te

Unico costruttore messicano ed ultimo a portare a punti una vettura privata (Germania, 1978), Rebaque nelle ultime gare del 1979 schierò una propria vettura, la Hr100: riuscí a qualificarsi solo in Canada, senza riuscire a terminare il gran premio, poi dalla stagione successiva passò alla Brabham accantonando il proprio team.

Zunino “erede” di Lauda

Pilota argentino con qualche esperienza e una vittoria in Formula Aurora, Zunino nel 1979 provò una Brabham a Silverstone, mentre poche settimane dopo si presentò a Montreal come spettatore e a sorpresa corse. Niki Lauda disputò le libere, poi annunciò il ritiro ad effetto immediato e  Zunino (inizialmente con casco e tuta dell’austriaco) scese in pista: in prova fu diciannovesimo a circa 3 secondi dal compagno di squadra Piquet, mentre in gara fu regolare e attento, chiudendo settimo a quattro giri dal vincitore Alan Jones. Forte di risorse importanti venne confermato, ma con la Brabham che ambiva al titolo non marcò punti e dopo sette gare fu sostituito da Rebaque; corse due gran premi con la Tyrrell nel 1981 prima di ritirarsi definitivamente.

L’era delle vetture clienti volge al termine

Al termine di una stagione combattuta, nel 1980 a Montreal la Williams si aggiudicò matematicamente il primo titolo della propria storia. In quell’evento furono ben quattro le vetture di Sir Frank iscritte: oltre alle ufficiali di Jones e Reutemann, primo e secondo al traguardo, due private gestite dalla Ram, una per Keegan (Penthouse Rizla) e una per Cogan (Rainbow Jeans), ma nessuno dei due riuscì a qualificarsi.

Rupert Keegan, campione Formula Aurora nel 1979, riuscì a prendere il via a Watkins Glen (concluse nono) in quella che fu l’ultima gara in cui una vettura privata partì in concorrenza con le vetture ufficiali del costruttore. Dopo un altro anno di “pausa”, Keegan tornò nel circus con la March, qualificandosi in tre occasioni pur senza ottenere punti, prima di passare alle vetture sport e infine alla Cart.

 

Ed eccoci al 1980, in pieno fermento per la crescente competitività dei motori turbo, che nel giro di pochi anni porterà ad una trasformazione di tutto l’ambiente, con l’ingresso di grandi gruppi, incremento dei costi e spazio sempre più ridotto per il sogno dei piccoli artigiani di competere contro i colossi dell’auto, la storia della Formula 1 stava per scrivere un nuovo e importante capitolo.

Mister Brown

Per le storie precedenti vedere qui:
Pillole di F1 cap. 1 – Anni ’50 e ‘60
Pillole di F1 cap. 2 – Anni ’70 (prima parte)
Pillole di F1 cap.3 – Anni ’70 (seconda parte)

 

F1 in pillole – Capitolo 2

Dopo aver viaggiato fino ai pionieri degli anni cinquanta e sessanta, la macchina del tempo del Blog del Ring arriva ai non meno folli ’70, un’epoca in cui la Formula 1 iniziava a ragionare diversamente sulla sicurezza, ma continuava a correre su piste affascinanti e pericolose con auto sempre più veloci e in piena sperimentazione tecnica. I piloti erano più professionali e professionisti, alcuni (come ad esempio Stewart) avevano già intuito il potenziale economico di un eroe dei gran premi, altri si limitavano a sporadiche apparizioni tramite pagamento di somme più o meno accessibili, oppure si lanciavano in avventure impossibili al servizio di team piccoli e coraggiosi che accedevano ai Gp con mezzi improvvisati calcando però lo stesso asfalto di Ferrari, Lotus e altre leggende. Passione e coraggio nel Dna, c’era anche chi faticò ad adattarsi all’ormai indispensabile casco integrale, ma lo leggerete tra poche righe.

Il coraggio di avere paura – Già pilota Matra, nel 1970 Servoz-Gavin passò alla Tyrrell per affiancare Stewart, ma nel travagliato inizio di stagione si ferì ad un occhio durante un rally con conseguenti problemi di vista, inoltre a Jarama (dove arrivò quinto) la sua vettura venne lambita dal fuoco sprigionatosi dallo scontro tra Ickx ed Oliver, situazione che lo scosse particolarmente. Nel successivo Gp a Montecarlo non si qualificò e a sorpresa, durante un party sul suo yacht, annunciò il ritiro dalle corse, ammettendo: “Quando non ci si sente è meglio ritirarsi in buon ordine e non continuare inutilmente, non ho più la fede indispensabile per riuscire in questo mestiere, la paura ha finito per vincermi.”

C’è posto per tutti –  Nel corso degli anni la Formula 1 ha visto la presenza dei piloti limitarsi ad un massimo di due per team, ma un tempo non era così, e oltre alla cessione di vetture ad altri team o a privati, le varie scuderie erano solite utilizzare diversi piloti per tutta o parte della stagione. Oltre a Jochen Rindt, che vinse il titolo pur essendo tragicamente scomparso a Monza, nel 1970 la Lotus impiegò Soler-Roig (poi sostituito da Fittipaldi) e John Miles, poi rimpiazzato dallo svedese Reine Wisell, che debuttò a Watkins Glen salendo sul podio per l’unica volta in carriera.

800Km in testa e zero vittorie, vero o falso? – Oltre alle indubbie doti di velocità e sensibilità tecnica, Chris Amon è noto anche per la proverbiale sfortuna, che lo portò a percorrere oltre 800 Km in testa nel mondiale di F1 senza mai vincere un Gran Premio. In realtà il neozelandese di corse ne vinse due, ma non erano valide per il titolo (all’epoca capitava non di rado che venissero organizzati eventi “fuori classifica”), ovvero il Gp d’Argentina del 1971 e il BRDC International Trophy di Silverstone l’anno precedente, quest’ultimo vinto davanti a Stewart, che a proposito ebbe modo di dire: “se c’è un pilota in grado di battermi, quello è sicuramente Chris Amon”

La prima tappa di un’era leggendaria – Figlio di una famiglia nobile, Giunti iniziò a correre di nascosto arrivando già nel 1970 a risultati di rilievo che gli aprirono le porte della F1, quali la vittoria alla 12 ore di Sebring, il secondo posto alla 1000 km di Monza, oltre ai terzi posti alla Targa Florio e alla 6 Ore di Watkins Glen. Il debutto nel circus avvenne a Spa, dove Giunti ottenne un ottimo quarto posto, cogliendo i primi punti per il motore Ferrari tipo 001, conosciuto come 12 cilindri boxer o, come giustamente e tecnicamente lo definì l’Ing. Forghieri, 12 cilindri “piatto”. Quel particolare motore portò alla Ferrari, con tutte le sue evoluzioni, 37 vittorie, 4 mondiali costruttori e tre titoli piloti; purtroppo lo sfortunato Giunti non ebbe modo di essere protagonista di quell’era di successi, morì infatti nel 1971 nel corso della 1000 Km di Buenos Aires, colpendo la Matra che Beltoise stava spingendo a piedi fino ai box: la violenza dell’impatto e il conseguente incendio non lasciarono scampo al pilota.

La triste storia dei fratelli Rodriguez – Per il Gp del Belgio del 1970 la Brm non sembrava favorita in quanto il telaio non si stava dimostrando efficace nella gestione del potentissimo V12, ma Rodriguez stupì tutti conquistando il sesto tempo in prova e poi la vittoria, seconda ed ultima in carriera, alla velocità media record di 241 km/h. Rodriguez portava sempre un anello in ricordo del fratello Ricardo (deceduto in F1) ma nel 1971 lo smarrì e confidò di non sentirsi più sicuro. Fece fare una copia esatta dell’anello ma ribadì che non era la stessa cosa: pochi mesi dopo perse la vita al Norisring durante una gara Interserie. Ai fratelli Rodriguez è intitolato il circuito di Città del Messico, tempio della velocità recentemente deturpato da Tilke.

Il ritorno del biscione – Dopo aver dominato le prime due edizioni del mondiale di F1 l’Alfa Romeo si ritirò, limitandosi alla fornitura per alcuni team minori (Lds, Cooper e De Tomaso) di un propulsore a quattro cilindri in linea. Un primo tentativo di rientro avvenne quando l’Alfa portò in pista un V8 derivato da quello installato sulla Tipo 33, montato nel 1970 su una McLaren e nella stagione successiva su una March, in entrambi i casi con Andrea De Adamich alla guida. I risultati non furono all’altezza delle aspettative: il pilota italiano mancò la qualificazione nei primi tre tentativi, in Francia non venne classificato e in Inghilterra non riuscì a partire; il miglior risultato rimane quello di Monza nel 1970, con De Adamich ottavo a sette giri dal vincitore Regazzoni. La casa del Biscione stabilì successivamente un accordo con la Brabham, poi iscrisse per alcuni anni una propria scuderia, mentre il promettente De Adamich fu invece costretto a ritirarsi a causa delle ferite riportate in un terribile incidente avvenuto a Silverstone nel 1973.

Mucchio selvaggio – A Monza, in una gara dal ritmo infernale (media di 242,615 kmh), lottarono per la vittoria cinque piloti che fino a quel momento non erano mai saliti sul gradino più alto del podio. Riuscì a spuntarla Peter Gethin superando Peterson all’ultima curva e vincendo con il minimo distacco mai registrato tra primo e secondo, ovvero 1 centesimo di secondo. Vicinissimi anche gli altri, con Cevert a 9 centesimi, Hailwood a 18 centesimi e Ganley a 6 decimi. Sempre a Monza Gethin conquistò l’anno seguente l’ultimo punto in Formula 1, poi si ritirò, dopo alcune apparizioni sporadiche; è scomparso nel 2011 a 71 dopo lunga malattia.

La prima bandiera rossa – Grazie ai buoni risultati in CanAm e ChampCar Donohue ebbe l’occasione di debuttare in Formula 1 con una Mclaren gestita dal team Penske, sul circuito di Mosport: lo statunitense partì ottavo e centrò un incredibile terzo posto, nella prima gara della storia interrotta (causa pioggia intensa) con bandiera rossa. Iscritto anche al successivo Gp, quello di casa, non potè partecipare in quanto impegnato al pari di Andretti in una gara Usac precedentemente interrotta per pioggia e inspiegabilmente rimandata nello stesso fine settimana della gara di Watkins Glen, con grande disappunto del pubblico americano, accorso in massa per vedere all’opera i propri beniamini.

Eravamo quattro amici al bar – Peter Connew lavorava come progettista per la Surtees, ma dopo alcuni dissidi con il fondatore John lasciò l’incarico, motivato a costruire una Formula 1 in proprio. Progettata insieme ad un amico e al cugino, la PC1 venne ultimata in 18 mesi, anche se il debutto venne rimandato prima per un cambio regolamentare e poi per un difetto di produzione. L’unica prova iridata disputata fu il Gp d’Austria del 1972 con al volante Francois Migault (che fornì anche un camion al team), chiusa dopo 22 giri per la rottura di una sospensione. Dopo due tentativi vani in prove fuori campionato, la vettura fu iscritta in F.5000, ma a causa di un incidente di Trimmer fu giudicata irreparabile e l’avventura della Connew terminò definitivamente.

Il sogno di una “piccola Ferrari”  – All’inizio degli anni sessanta i fratelli Pederzani avviarono la Tecno, team che colse grandi successi nelle formule minori, tentando poi il passaggio alla massima serie grazie all’appoggio della Martini Racing, con il modello PA123 e un motore 12 cilindri di propria progettazione, scelta “in proprio” sulla via tracciata dalla Ferrari. Alla guida si alternarono con poca fortuna Derek Bell e Nanni Galli, con quest’ultimo in grado di qualificarsi in tutte e quattro le occasioni, anche se non riuscì mai a vedere la bandiera a scacchi. Nello stesso anno il pilota italiano ha avuto anche la possibilità di correre con la Ferrari il Gran Premio di Francia, classificandosi tredicesimo a un giro dal vincitore, senza sfigurare nei confronti dell’occasionale compagno di squadra Ickx. Nel 1973 la Tecno segnò il primo punto con Chris Amon, nacquero però dissidi tra il team e la Martini (che fece progettare una differente vettura in Inghilterra), situazione che portò allo stop dei finanziamenti e al ritiro del team.

La prima Williams – Prima di scrivere pagine importanti nella storia della Formula 1, Frank Williams fondò nel 1966 la Frank Williams Racing Cars, iniziando a gareggiare in F2 e F3, poi nel 1969 passò alla Formula 1 acquistando un vecchio modello della Brabham, affidato a Courage, che ottenne addirittura due secondi posti. Williams avviò una collaborazione con la De Tomaso, subito interrotta dopo la scomparsa di Courage, ripiegando quindi sui telai March e scegliendo come nuovo pilota Henri Pescarolo, forte di una consistente reputazione nelle ruote coperte e utilizzato in passato dalla Matra. Nel 1972 la Williams costruì la prima vera propria vettura, la Politoys FX3 progettata da Len Bailey e distrutta nella gara d’esordio a Brands Hatch in seguito ad uno spettacolare incidente avvenuto nel corso del settimo giro, fortunatamente senza conseguenze per il pilota.

Un “cappotto” per Dave Walker – Pilota australiano con alle spalle una lunga serie di successi in F3, Walker detiene un particolare primato in Formula 1: è l’unico pilota a non aver ottenuto punti in un campionato del mondo nel quale il compagno di team ha vinto il titolo. Dopo aver corso un solo gran premio nel 1971, venne assunto in pianta stabile come secondo di Emerson Fittipaldi, che vinse cinque gare e il mondiale con un totale di 61 punti, mentre Walker ottenne un nono posto come miglior piazzamento. Champan lo appiedò accusandolo per le scarse prestazioni, mentre Walker ha sempre dichiarato di aver ricevuto dotazioni scadenti rispetto a Fittipaldi.

Arriva la Safey car – Oggi (purtroppo) di uso comune in F1, la SC fu utilizzata la prima volta nel 1973 a Mosport. La gara iniziò in condizioni umide poi, con il peggioramento delle condizioni, al 32esimo giro entrò una Porsche 914, che si posizionò erroneamente davanti a Ganley, permettendo a quelli davanti di accumulare un giro di vantaggio; tra gli altri ne approfittò il talentuoso Revson, che colse la sua seconda e ultima vittoria in Formula 1. Il pilota della safety car, Eppie Wietzes, si iscrisse al Gp l’anno seguente affittando una Brabham ribattezzata a nome del “Team Canada F1” con livrea patriottarda, scelta insolita in un’era dove gli sponsor erano ormai protagonisti sulle vetture.

Conflitto generazionale – Dopo una lunga carriera in Patria tra Indycar, Nascar e Can-An (di cui fu campione nel 1972) lo statunitense Follmer venne ingaggiato dalla Shadow e nel 1973 a 39 anni fece la sua prima apparizione in F1, debuttante più vecchio della categoria nell’epoca successiva agli anni cinquanta, quando era abituale correre ad età più avanzata. A Kyalami Follmer centrò subito la zona punti e nel successivo Gp di Spagna riuscì addirittura a salire sul podio, unici punti in quella che fu l’unica stagione in F1; successivamente tornò a dedicarsi con successo alle competizioni Usa.

La F1 sudafricana – Tra gli anni ’60 e ’70 la F1 visse una crescente popolarità in Sudafrica, tanto che venne organizzato un campionato nazionale; in quel periodo furono numerosi i piloti che tentarono di correre nel mondiale, principalmente nel Gp di casa. Tra questi vi fu Jackie Pretorius, pilota che nel campionato sudafricano vinse due gare: tra il 1965 e il 1973 si iscrisse quattro volte per l’appuntamento di Kyalami ma non riuscì mai ad arrivare al traguardo. E’ scomparso nel 2009 dopo tre settimane di coma, ferito a morte durante una rapina presso la propria abitazione, unito in un tragico destino alla moglie, deceduta in circostanze simili alcuni anni prima.

Casco  in testa ben allacciato e prudenza sempre  – La Finlandia ha portato grandi talenti in Formula 1, il primo di questa nazionalità a debuttare nel circus fu Leo Juhani “Leksa” Kinnunen, che sfortunatamente non riuscì ad ottenere grandi risultati, consolandosi con maggiori soddisfazioni nelle gare nazionali e nei rally.  Al volante di una Surtees, nel 1974 tentò di iscriversi in sei occasioni qualificandosi nel solo gran premio di Svezia, dove si ritirò all’ottavo giro per la rottura del motore dopo essere partito in venticinquesima posizione. Riuscì comunque a passare alla storia in quanto fu l’ultimo pilota a correre con un casco “Midget” senza visiera e con gli “occhialoni”, ovvero l’equipaggiamento standard dei piloti prima dell’avvento del casco integrale, già in uso da alcune stagioni.

Banzai! – Dopo il ritiro della Honda, il primo costruttore giapponese a tentare la via della Formula 1 fu la Maki Engineering: la prima vettura venne denominata F101, motorizzata Ford Cosworth e gommata Firestone, affidata a Ganley, ex giornalista e meccanico che si era fatto notare in diverse categorie fino ad arrivare alla F1, dove ottenne un prestigioso quarto posto al Nurburgring come migliore risultato. Il debutto avvenne a Brands Hatch dove il neozelandese non riuscì a qualificarsi, mentre nel successivo Gp di Germania subì un grave incidente che interruppe la sua carriera; la Maki tentò altre sei partecipazioni nei successivi due anni senza mai riuscire a prendere il via di un Gran Premio.

Matricole e meteore – L’esperienza acquisita dalla Trojan costruendo le vetture Can-Am e Formula 5000 per la McLaren portò l’azienda a produrre in proprio alcuni progetti derivati da quelli McLaren, fino al deterioramento dei rapporti tra le parti. La Trojan, perso l’importante appoggio, poteva contare su risorse risicate ma con l’aiuto dell’ex progettista della Brabham Ron Tauranac vennero realizzate per la F5000 i modelli T101 e T102. Da quest’ultimo venne poi derivata la T103 per partecipare al mondiale di Formula 1: la vettura fu affidata all’australiano Schenken che al debutto a Jarama riuscì a qualificarsi in ultima posizione mentre in gara fu classificato quattordicesimo dopo aver concluso la gara con otto giri di anticipo causa un testacoda. Dopo alcune gare con un decimo posto (in Austria e Belgio) come miglior risultato, a fine stagione sia la Trojan che Schenken abbandonarono la Formula 1.

Matricole e meteore, parte seconda – Oltre ad essere pilota (particolarmente attivo in F.Atlantic), John Nicholson era anche preparatore dei motori Ford Cosworth e nel 1974 convinse Martin Slater a fondare la Lyncar per tentare la via della Formula 1. Con il modello 006 il neozelandese a Brands Hatch fallì la qualificazione ottenendo il 31esimo tempo a 4 secondi dalla pole, mentre l’anno successivo, sempre in Inghilterra, ma questa volta a Silverstone, riuscì ad entrare in griglia e fu classificato 17esimo dopo essere uscito di pista al pari di tanti colleghi in seguito al violento acquazzone caduto sulla pista quando la gara volgeva al termine. Fu l’ultima apparizione per Nicholson e la Lyncar nel mondiale di F1.

Anni ’70, tra sogni e tragedie – Martino Finotto, pilota già affermato, comprò due Brabham BT42s per correre in F1, ma dopo alcuni test abbandonò l’idea, tentando di iscrivere Silvio Moser, il quale morì durante la 1000 Km di Monza. Scosso ma motivato dai propri sogni, Finotto proseguì con mezzi risicati, un solo meccanico e una vettura utilizzata come ricambistica per l’altra, troppo poco per ottenere risultati. Oltre a Larrousse e Facetti, venne impiegato anche Koinigg, che pur non riuscendo a qualificarsi, in Austria girò vicino ai tempi delle Surtees ufficiali, tanto che il team lo ingaggiò per le ultime gare stagionali. Fu purtroppo vittima di un incidente mortale a Watkins Glen, quando aveva già attirato l’interesse di numerosi addetti ai lavori.

Tra cielo e mare – Francese di origini friulane, Louis José Lucien Dolhem era sia fratellastro che cugino di Didier Pironi, in quanto i due avevano lo stesso padre e le madri erano sorelle. Grazie alla vittoria del volante Shell Dolhem arrivò a competizioni internazionali di rilievo in cui conobbe John Surtees, che gli mise a disposizione una vettura per debuttare in Formula 1. Dopo aver mancato la qualificazione a Digione e Monza, il francese conquistò un posto in griglia a Watkins Glen, ma fu richiamato ai box nel corso del 25esimo giro in segno di rispetto nei confronti del compagno Koinigg, vittima di un incidente mortale. Dolhem perse la vita in un incidente aereo nel 1988, un anno dopo Pironi: i due sono sepolti l’uno accanto all’altro con la simbolica scritta Entre ciel et mer (Tra cielo e mare).

Siamo giunti alla fine del viaggio, è ora di tornare al futuro, ma la macchina del tempo è già pronta per il prossimo capitolo della saga. Gli anni settanta non sono ancora finiti.

Mister Brown

Peter Collins, il destino di un cavaliere

“Eravamo tutti coscienti il giovedì, quando andavamo via da casa, che forse non saremmo rientrati la domenica, lo sapevano anche le nostre famiglie. Eravamo pazzi, eravamo piloti del Gran Premio, erano una posizione e un privilegio unici”. Lo disse l’ex ferrarista Patrick Tambay alcuni anni dopo la fine della propria carriera, con i capelli grigi e la consapevolezza di avercela fatta, di aver sconfitto il nemico più insidioso. Il francese non era pazzo, come tanti suoi colleghi era animato da una passione che lo spingeva ogni volta a mettersi al volante con la consapevolezza del fatto che la morte facesse parte del gioco, un pensiero che per molti oggi potrebbe apparire folle ma che per loro non lo era affatto e ancora meno lo era per i Cavalieri del rischio che negli anni cinquanta scrissero i primi capitoli della storia della Formula 1, lasciando ai posteri pagine in bianco e nero di racconti e aneddoti indimenticabili.

Capelli biondi, sorriso da copertina patinata, sposato con l’attrice Louise King: potrebbe sembrare l’introduzione per un divo di Hollywood, ma a Peter John Collins piacevano le macchine da corsa e il suo mestiere era quello del pilota: nato a Kidderminster nel 1931, suo padre possedeva una società di trasporti e un garage, aspetti che probabilmente favorirono la sua conoscenza delle auto, che presto divennero una grande passione per il giovane Peter, capace di guadagnarsi un test drive a Silverstone che gli fruttò un contratto sia con Aston Martin che con HWM. Mentre in Formula 1 la sua carriera stentava a decollare, in altre competizioni riuscì a far emergere il proprio talento, al punto da convincere un pilota del calibro di Stirling Moss ad ingaggiarlo per la Targa Florio del 1955, competizione che tra l’altro i due si aggiudicarono. Nel 1957, anno in cui il compagno di squadra Castellotti perse la vita durante un test, venne affiancato alla Ferrari dall’amico Mike Hawthorn, un altro personaggio dallo stile inconfondibile, con il fare elegante e quel papillon con cui era solito correre; dal 1958, con l’ottima 246 F1, i due potevano pensare seriamente al titolo, da contendere alla Vanwall di Moss e al compagno di squadra Musso. Nel team non c’era una prima guida e nacque un’intensa rivalità sportiva, l’allora fidanzata di Musso dichiarò addirittura che i due inglesi si accordarono per dividersi i premi in caso di vittoria di uno dei due, per motivarsi a stare davanti al pilota italiano.

Luigi Musso era considerato uno dei piloti più promettenti dell’epoca e la sua stagione iniziò nel migliore dei modi, con due secondi posti a Buenos Aires e Montecarlo poi, dopo due gare deludenti, si arrivò a Reims dove purtroppo tuttò ando storto: il pilota italiano partì secondo alle spalle di Hawthorn che prese il largo, il ritmo di gara era tiratissimo, Musso non ne voleva sapere di lasciarlo scappare, ma al decimo giro uscì di strada alla Curva del Calvaire e finì nel fossato, venne trasportato in ospedale con ferite alla testa molto gravi, troppo, per lui purtroppo non ci fu nulla da fare, aveva 34 anni ed era la seconda vittima di quella stagione dopo Pat O’Connor, deceduto a causa di un incidente al via della 500 miglia di Indianapolis, allora in calendario iridato. La gara proseguì e Hawthorn vinse agevolmente compiendo tra l’altro un gesto nobile: poco prima del traguardo raggiunse Fangio ma rallentò e gli consentì di transitare prima di lui per evitargli l’onta del doppiaggio, una mossa semplice ma dal grande significato, anche perché per l’asso argentino fu l’ultima presenza: a fine gara infatti tornò ai box, guardo i suoi meccanici e disse semplicemente “è finita”. A quasi 50 anni e con cinque mondiali in tasca decise che ne aveva abbastanza.

Il gesto di rispetto dell’elegante pilota inglese nei confronti di Fangio a Reims esemplifica quanto fossero “umani” i romantici condottieri degli anni cinquanta, e a rendere ancor più l’idea di questo aspetto è un fatto accaduto proprio all’amico di Mike, ovvero Peter Collins, motivo per cui è necessario tornare al 1956. In quella stagione la Ferrari schierò la D50, vettura progettata dalla Lancia, la quale si ritirò dal mondiale e cedette tutto alla casa del Cavallino in seguito alla tragica scomparsa di Alberto Ascari, avvenuta l’anno precedente a Monza mentre il pilota era intento a provare una vettura Sport. I piloti di punta di Maranello per quella stagione sarebbero stati Luigi Musso, proveniente dalla Maserati, Eugenio Castellotti, il grande Juan Manuel Fangio e il giovane Collins, “fiutato” da Enzo Ferrari nonostante fino a quel momento non avesse ancora ottenuto punti iridati. Il Drake voleva in squadra un campione di razza ma non amava Fangio, che in un’epoca dove una stretta di mano valeva più di contratto era invece molto preparato e attento politicamente, tanto abile in pista quanto nella scelta della vettura e del contratto migliori, al punto da riuscire a strappare ad Enzo Ferrari condizioni fino ad allora mai prese in considerazione. Ben diverso il rapporto del Grande Vecchio con l’inglese Collins, cui venne addirittura regalata una bellissima 250GT; ora che correva per Maranello avrebbe dovuto mettere da parte la Lancia Flaminia con cui era solito circolare.

Il mondiale prese il via e in Argentina furono Fangio e Musso a vincere, dividendosi auto e punteggio (all’epoca il regolamento lo permetteva), situazione analoga a quella di Montecarlo dove a condividere il secondo posto alle spalle di Stirling Moss furono Fangio e Collins, che presto diventarono inaspettatamente rivali in quanto l’inglese, dopo la 500 miglia di Indianapolis, calò un bis di vittorie a Spa e Reims, cui l’argentino rispose con i successi a Silverstone e al Nurburgring; si arrivò quindi all’ultima gara, da disputarsi a Monza, con entrambi i piloti in lizza per il titolo e con un terzo incomodo molto pericoloso: Stirling Moss. Iniziò il Gran Premio: sul velocissimo circuito brianzolo, che all’epoca comprendeva sia il tracciato classico che l’anello ad alta velocità, si viaggiava ad oltre 200Km/h orari e causa la tenuta precaria di gomme e vetture non mancarono soste ai box e uscite di strada: Musso e Castellotti tentarono di prendere il largo, poi fu Fangio a passare in testa, ma prima venne superato da Moss e infine fu costretto a fermarsi per noie allo sterzo; con un pretesto venne richiamato ai box Musso per cedere la vettura all’argentino, ma il pilota italiano ripartì subito senza ubbidire alle direttive del team. Peter Collins era ancora in pista e con Fangio fuori dai giochi aveva concrete possibilità di conquistare il titolo, ma ad un certo punto rientrò ai box, scese dall’auto e fece cenno di salire al compagno di squadra, che partì immediatamente lanciandosi con successo all’inseguimento di quel titolo mondiale che sembrava ormai essergli sfuggito, una situazione ideale anche per Enzo Ferrari che dimostrò ancora una volta al suo pilota che la vittoria del campionato arrivò soprattutto grazie alla propria squadra.

A proposito si aprì un dibattito: alcuni nello staff di Maranello dissero in seguito che fosse stato Enzo Ferrari dietro le quinte ad organizzare e gestire la situazione, mentre il manager di Fangio sostenne invece di aver fermato personalmente Collins e che questi accettò l’ordine. La versione “ufficiale” rimase comunque quella dei piloti: Fangio, sempre riconoscente per il gesto del giovane amico, ammise con sincerità che a parti invertite nulla al mondo sarebbe riuscito a toglierlo dalla propria auto per lasciarla ad un collega,  Collins dichiarò invece di aver preso quella decisione serenamente: disse semplicemente a Fangio,  “Guarda, è più giusto che sia tu a vincere questo mondiale, io sono giovane e avrò altre occasioni”. Purtroppo non andò così.

Collins correva anche fuori dalle piste: amante delle donne e della bella vita, conobbe l’attrice Louise King e se ne innamorò a prima vista, due giorni dopo il primo appuntamento la portò in un Hotel a Miami e le chiese la mano, con celebrazione avvenuta una settimana più tardi tra lo stupore di famiglie e amici. In quel periodo stava spostando la propria attenzione anche su altri aspetti esterni alle corse, come il progetto di una nuova casa e alcuni investimenti tra i quali l’ambizione di aprire una concessionaria Ferrari insieme al padre, traslocò inoltre da Maranello andando a vivere con la moglie di uno yacht a Montecarlo, scelta che il Drake non apprezzò. La carriera di Collins proseguì con un deludente 1957 mentre Fangio passò in Maserati e, ironia della sorte, vinse il suo quinto e ultimo titolo mondiale, contrariamente alle previsioni dell’ex compagno di squadra, nonostante l’età ebbe un’ultima occasione iridata.

Torniamo al 1958: superato lo shock per la scomparsa di Musso, Collins non poteva certo dirsi soddisfatto del proprio rendimento fino a quel punto della stagione, con un solo podio e qualche ritiro di troppo, mentre Hawthorn sembrava involarsi sempre più deciso verso l’iride. Nel gran premio di casa fu però Collins a imporsi con un netto vantaggio sul compagno di squadra, anche se la classifica vedeva i due distaccati di 16 punti con sole quattro gare da disputare, quattro battaglie da vincere a partire dal primo scontro diretto: la temibile Nordschleife, più di nove minuti di curve e cambi di pendenza tra prati, colline e alberi, un inferno verde. Il 3 agosto del 1958 Collins partì quarto e si lanciò come una furia all’inseguimento del leader Brooks, ma nel corso del decimo giro uscì di pista a Pflanzgarten davanti agli occhi di Hawthorn schiantandosi contro un albero; morì poco dopo, a 27 anni, durante il trasporto in ospedale. Mike Hawthorn rimase sconvolto, tanto che subito dopo aver vinto il titolo mondiale annunciò il proprio ritiro dalle corse, in una stagione maledetta che pagò un ultimo tributo di sangue con la scomparsa di Lewis Evans nella prova conclusiva disputata in Marocco. Hawthorn era atteso a sua volta da un tragico destino: morì pochi mesi più tardi in un incidente automobilistico. Alcune fonti parlano di un sorpasso finito male mentre era intento a sfidarsi in strada con Rob Walker, signore del Whisky, e anche se le indagini non chiarirono definitivamente l’accaduto la versione è accettata e tramandata da tutti, forse perché rende l’idea di Hawthorn scomparso mentre faceva ciò che amava, correre in macchina, proprio come Collins.

Quel titolo regalato Collins non riuscì mai a conquistarlo, ma il suo gesto è di quelli che eccitano la fantasia popolare e vengono tramandati come un poema epico, si tratta di un episodio più unico che raro di sportività, amicizia e generosità, ma ai fan della Formula 1 non piacciono solo i bravi, amano tutte le storie che da sempre riguardano i propri beniamini: i sogni infranti di chi ha perso la vita inseguendo un sogno, il coraggio di chi torna in pista quaranta giorni dopo un rogo terribile e poche settimane più tardi ammette di avere paura sotto un diluvio ai piedi del monte Fuji, la passione di chi è disposto a correre su tre ruote tentando di vincere un Gran Premio, quella di chi sviene spingendo una macchina, fino a quelli che pur di surclassare un rivale o un compagno di squadra odiato, temuto e rispettato, hanno spinto sull’acceleratore fino ad accompagnarlo nella sabbia o contro un muretto.

Forse Tambay aveva ragione, erano pazzi,  ma è proprio quella pazzia radicata nel dna dei Cavalieri del rischio ad aver reso la Formula 1 uno sport così popolare e c’è un fattore indispensabile che la F1 2.0 ossessionata dallo share e dallo show ha completamente dimenticato, ciò che nel bene e nel male, con pregi e difetti, entusiasmava davvero i tifosi del Circus dei Gran Premi: l’uomo.

Mister Brown

Sogno di una notte di mezza estate

E’ necessaria una premessa, i fatti raccontati in questa pagina non hanno attinenza con la realtà e non sono presenti nozioni tecniche o proposte concrete, anzi, certi punti potrebbero far storcere il naso, ma è solamente un sogno senza troppe pretese, o meglio, un delirio da crisi d’astinenza. Citare addirittura Shakespeare (la cui nipote sposò tra l’altro tale John Barnard, omonimo di un personaggio sicuramente noto ai nostri lettori) nel titolo è forse “leggermente” pretenzioso, ma quando si sogna ci si può permettere di tutto, anche di essere artisti o di immaginare un futuro diverso per il proprio sport preferito, quindi buona notte.

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