Archivi tag: JIM CLARK

LA STORIA DEL DRAKE PARTE 9 – JOHN SURTEES E IL MONDIALE IN FERRARI

Per Enzo Ferrari inizia un periodo molto parco di soddisfazioni in Formula 1. Ci saranno davvero pochi acuti sino al 1975 fra cui il mondiale vinto, nel 1964, dalla leggenda John Surtees, ex campione mondiale di motociclismo.

John Surtess nato a Tatsfiel l’11 febbraio del 1934, è stato un pilota davvero incredibile, fortissimo sia sulle due ruote che sulle monoposto.  Surtees non era semplicemente un buon pilota, era senza dubbio un grande pilota, con una sensibilità incredibile e una conoscenza della meccanica fuori dal comune.

A detta di chi l’ha conosciuto John risultava un personaggio un po’ criptico ed enigmatico, per il semplice fatto che spesso e volentieri non era facile capire cosa stesse pensando. Durante l’attività agonistica preferiva lasciar parlare i suoi risultati, risultati a dir poco fantastici, soprattutto quelli legati alle due ruote.

John crebbe in una famiglia profondamente coinvolta nel business delle motociclette. Suo padre, Jack Surtees, come lavoro faceva proprio il rivenditore di motociclette di successo, ed è stato proprio lui a incoraggiare John ad interessarsi a questo sport. Surtess si allenò con una Vincent Gray Flash con cui oltretutto ottenne la sua prima vittoria sul circuito di Brands Hatch nel 1951 quando aveva appena 18 anni.

 

 

John decise di comprare una Manx Norton e, successivamente, raccolse l’invito del team ufficiale di unirsi a loro nel 1955. La squadra non voleva farselo sfuggire, era troppo forte, un astro nascente assolutamente talentuoso. Del 1955 è da ricordare la magnifica vittoria conquistata contro la Gilera di Geoff Duke a Silverstone, proprio sul finale della stagione. Nel 1956 passò alla squadra italiana MV Agusta, con cui ha sbaragliato la concorrenza e dove presto si guadagnò il soprannome di “Figlio del Vento”.

 

Sono molti i record che John Surtees ha accumulato sulle due ruote: partiamo da quello ottenuto per aver vinto tutti i gran premi delle 350 e delle 500 del motomondiale 1959, davvero incredibile, per poi arrivare a quello di aver fatto suoi tre titoli consecutivi della 500, dal 1958 al 1960, a questi vanno sommati anche quelli della 350 nel 1958 e nel 1959.  Questi due vennero conquistati anche con  il massimo punteggio teorico possibile: durante questi anni venivano considerati per la classifica finale i migliori 4 risultati ottenuti durante la stagione e Surtees aveva riportato almeno 4 successi.

Il suo palmarès nel motociclismo conta sette titoli mondiali: dal 1958 al 1960 vinse nella classe 350 mentre nella classe 500 si impose nel 1956 e in seguito dal1958 al 1960.

 

 

Mentre continuava la carriera motociclista, nel 1960, fece il suo debutto anche nel mondo delle quattro ruote.

Già l’anno prima, precisamente alla fine del 1959, Surtees fu invitato a provare un’Aston Martin DBR1 a Goodwood da Reg Parnell, antecedentemente aveva anche ricevuto molte spinte sia da Mike Hawthorn che dal capo di Vanwall Tony Vandervell.

 

Nel 1960, all’età di 26 anni, Surtees approdò nel mondo a quattro ruote che lo assorbì totalmente e fece il suo debutto in Formula 1 nello stesso anno in occasione del dodicesimo BRDC International Trophy a Silverstone per il Team Lotus. Ha subito collezionato ottimi piazzamenti, arrivando secondo nella sua seconda gara del Campionato del Mondo di Formula Uno, al Gran Premio di Gran Bretagna del 1960, e ottenendo una pole position al suo terzo, il Gran Premio del Portogallo del 1960.

Dopo aver trascorso la stagione 1961 con lo Yeoman Credit Racing Team alla guida di una Cooper T53 “Lowline” gestita da Reg Parnell e la stagione 1962 con il Bowmaker Racing Team, sempre gestito da Reg Parnell ma ora su V8 ​​Lola Mk4, arrivò in Ferrari nel 1963 con cui vinse il Campionato del Mondo nel 1964.

Come sempre ad accorgersi del suo immenso talento fu Enzo Ferrari che lo notò da subito tanto che propose a John di far parte della squadra sin dal 1962 ma Surtees allora non accettò la proposta del Drake in quanto non si riteneva ancora all’altezza del nome del Cavallino Rampante.

 

Ecco come Surtees racconta il primo incontro con Enzo Ferrari

Avvenne alla fine del 1960. Avevo appena iniziato a correre in auto, ma allo stesso tempo continuavo a correre in moto. Alternavo i miei impegni: un domenica con la Formula 1e la successiva con le moto. Alla fine del 1961, che era stata la mia prima stagione con le quattro ruote, andai a Moderna. Parlai con il Commendatore, come veniva chiamato all’epoca. Lui non era a Maranello ma al “centro assistenza clienti” di Modena. Ricordo che nel suo ufficio c’era la foto di suo figlio Dino. Durante l’incontro mi parlò del suo programma e mi invitò a prendere contatti con l’ingegnere Carlo Chiti. In quell’occasione c’erano pure Valerio Stradi e Franco Gozzi e insieme a loro andammo a Maranello dove incontrai Chiti che mi parlò dei suoi progetti mentre visitavamo la fabbrica. Riflettendo sulla loro proposta , pensai che era troppo articolata poiché comprendeva molte gare in campionati diversi con l’utilizzo di troppi piloti. Così rifiutai.(John Surtess) 

Molti dicono che il rapporto fra Surtees e Ferrari fu difficile ma John che cosa ne pensava a riguardo?

“A quell’epoca direi proprio di no. Lavorare con Ferrari non era molto diverso dal lavorare con il Conte Agusta, quando correvo in moto. Erano uomini molto simili. Entrambi ti coinvolgevano costantemente. Ti dicevano che c’erano molti soldi, ti parlavano di tutto quello che volevano realizzare, anche se poi non tutto andava a buon fine. Ma non importa. Quando decisi, fui molto felice di tornare in Italia. Era la nascita di una squadra e per fortuna c’erano ancora dei vecchi ingegneri e alcuni meccanici esperti.” (John Surtess)

 

 

“Sono note le mie simpatie per gli ex motociclisti, che hanno esperienza, conoscenza meccanica, pratica di velocità, senso agonistico e, non ultima, operosità di umile lavoro. John Surtees era uno di questi e compendiava tutte le caratteristiche che ho elencato”.(Enzo Ferrari)

 

Ma quale è la cosa particolare del 1964? Nello specifico la cosa più incredibile è che Surtees non non occupò mai la posizione più alta in classifica sino all’ultimo Gran Premio che si rivelò decisivo per decretare il vincitore, Gran Premio che si disputò a Città del Messico. La Ferrari si presentò a questa gara con tre vetture: oltre a Surtees con la 158 a 8 cilindri nella griglia di partenza c’era anche Lorenzo Bandini con la 12 cilindri e il pilota messicano Pedro Rodriguez con la 6 cilindri.

Un’ulteriore curiosità è che le tre Ferrari non erano Rosse ma rivestivano una livrea bianca e blu, colori della Nart di Luigi Chinetti.

Ma perchè questo colore?

La Ferrari non era impegnata solo in Formula 1 ma gareggiava anche nel Mondiale Marche e nel campionato marche Gran Turismo.

Nel campionato marche Gran Turismo le Ferrari dominavano con la 250 LM, macchina non prodotta nei cento esemplari che erano necessari per l’omologazione in quella precisa categoria, allora avvenne la squalifica della Rossa di Maranello. A vincere fu la Porsche.

Enzo ovviamente andò su tutte le furie e come segno di protesta ritirò la licenza di competitore italiano. Gesto che avvenne poco prima dei due Gran Premi conclusivi che vedeva Surtees in lotta per il titolo con la 158.

Enzo aveva pensato comunque ad una soluzione: dopo aver contattato l’amico Chinetti, l’importatore negli Usa delle Rosse, chiese lui di  poter disporre della  sua licenza di concorrente americano!E fu proprio questo il motivo per cui le 158 vestirono la livrea bianca e blu della Nart, North America Racing Team. 

 

Il Gran Premio del Messico 1964 fu l’ultima gara della stagione 1964 del Campionato mondiale di Formula 1, e vide come palcoscenico il circuito Autodromo Hermanos Rodríguez.

Vinse la corsa Dan Gurney a bordo della sua Brabham-Climax, imponendosi davanti a  John Surtees e Lorenzo Bandini, entrambi su Ferrari.

Surtess, piazzandosi secondo, si laureò Campione del Mondo, strappando il titoli ai due connazionali Hill e Clark. Anche la Ferrari si aggiudicò il titolo costruttori primeggiando su BRM e Lotus-Climax.

La gara in Messico fu l’ultimo gran premio in carriera per Phil Hill, Campione del Mondo del 1961.

“Il Messico aveva sempre rappresentato un problema per noi. Sapevamo benissimo che avremmo avuto delle difficoltà ad ottenere la giusta miscela di carburante. A quelle altitudini e con quelle curve che creavano un sacco di forze G, i motori erano soggetti a dei problemi di circolazione dell’olio e ad un’impennata nei consumi di carburante. Così, cercammo di rendere la miscela più magra e in pratica questo fece saltare in aria il motore. Discutemmo della possibilità di passare al 12 cilindri (che in quel momento veniva utilizzato da Bandini), ma eravamo preoccupati per l’affidabilità. Montammo un propulsore nuovo per la gara, ma all’inizio non andavo da nessuna parte perché il motore non girava a otto cilindri. Ho finito il primo giro in tredicesima posizione (era quarto sulla griglia) e stavo scivolando sempre più indietro mentre il propulsore diventava bollente. Ma, quando divenne caldo e puzzolente, iniziò a funzionare a otto cilindri. Era così magro che ha cominciato a lavorare solo a quella temperatura”.(John Surtees)

Ma vediamo insieme lo svolgimento della gara.

Clark, che si era aggiudicato la pole position il giorno prima, era scattato davvero bene alla partenza e aveva cominciato nelle prime fasi di gara una cavalcata in solitaria. Bandini, ottimo uomo squadra, tentava di frenare Graham Hill, considerando che Surtees era parecchio distaccato. Graham tentò un sorpasso all’esterno del tornatino, iniziativa che risultò azzardata, infatti la ruota posteriore della BRM urtò l’anteriore sinistra delle Ferrari. Hill sbandò e urtò il rail con il retrotreno, incrinando gli scarichi.

Graham fu costretto ad una sosta ai box, ma anche se riprese la gara, oramai era fuori dalla lotta al titolo. Bandini cercò di favorire la rimonta di Surtees. A due giri oramai la vittoria di Clark era quasi sicura ma il motore della sua Climax  ebbe un calo di pressione e fu costretto a rallentare. 

Il Gran Premio del Messico venne vinto da Dan Gurney, pilota Brabham, al secondo posto ci sarà Surtees, posizione regalata dal compagno Bandini. Con questi due piazzamenti la Ferrari acquisiva entrambe le corone mondiali.

Enzo Ferrari aveva brillato contro gli inglesi che avevano presentato una monoposto davvero innovativa come la Lotus 25.

Surtees con grandissima lucidità sapeva che doveva ringraziare Bandini per aver ottenuto la massima consacrazione. John aveva saputo concretizzare e massimizzare qualsiasi risultato durante il mondiale ed era stato capace di far uscire fuori il potenziale della sua Ferrari 158 che si era mostrata davvero forte durante la seconda parte della stagione.

“Prendere le corse nel modo giusto e il resto viene da sé. Questo è sempre stato il mio atteggiamento anche nella vita. In Messico o durante la gara non me ne resi conto. Furono altri che sottolinearono il fatto che sarei potuto diventare il primo uomo a vincere la doppia corona ed è stato solo dopo la corsa, quando vidi i volti raggianti degli uomini della mia squadra, che capii il senso di ciò che avevo fatto.  Sì, guardandomi indietro è soddisfacente, ma la cosa più importante – quella fondamentale –  era che stavo facendo ciò che amavo fare”. (John Surtees)

 

 

Laura Luthien Piras

Caro Colin ti scrivo…

Ci sono uomini che hanno fatto la storia dell’automobile, in ambito sportivo ma non solo. Uno di questi è Enzo Ferrari, di cui ieri abbiamo degnamente ricordato il compleanno. Un altro è di sicuro Colin Chapman, la cui eredità, a differenza di quella del Drake, è costituita in larga parte dalle sue splendide monoposto, visto che l’attività di costruttore di auto stradali non ha avuto la stessa fortuna.

Il fondatore della Lotus era un tecnico di grande valore, con una incredibile vocazione all’innovazione, da perseguire a tutti i costi. Perchè, diversamente da come la pensava il Drake, all’innovazione e alla performance secondo lui si poteva sacrificare tutto il resto. Anche la sicurezza del pilota. Ed è proprio di questo aspetto, nel tempo oggetto di tante critiche, che vogliamo parlare.

Lo facciamo tornando ad un episodio forse poco conosciuto, risalente al 1969. Siamo al Gran Premio di Spagna, disputato sul pericolosissimo circuito cittadino ricavato sui viali del parco del Montjuic a Barcellona. Il protagonista è Jochen Rindt, alla guida della Lotus 49, una delle creazioni di Chapman destinate ad essere consegnate alla storia. La macchina che due anni prima aveva portato al debutto, vincendo, il glorioso motore Cosworth, e che l’anno precedente aveva vinto il campionato con Graham Hill dopo la prematura scomparsa di Jim Clark.

Da circa un anno in F1 avevano fatto la loro comparsa gli alettoni. I progettisti avevano capito che montando le ali al contrario rispetto agli aerei potevano ottenere una utilissima spinta verso il basso. Ciò però che non avevano ancora ben compreso era la modalità con la quale queste ali rovesciate funzionavano. Non conoscevano la reale dimensione dei carichi, in termini di kg, e nemmeno con precisione il percorso dei flussi d’aria. Era però chiaro che più le ali lavoravano in aria pulita e meglio era. Per questo motivo gli alettoni posteriori venivano posizionati sempre più in alto, e aumentavano sempre più di dimensione. Fino a quando la Lotus si presentò con una ala di due metri di larghezza posizionata ad un metro e mezzo di altezza e appoggiata praticamente su due bastoncini. In nome della massima leggerezza, che era una vera e propria ossessione per Chapman.

E in gara accadde ciò che, guardando le foto con le conoscenze di oggi, potremmo giudicare più che logico accadesse: il supporto dell’alettone posteriore cedette e Rindt ebbe un incidente dal quale uscì piuttosto malconcio, anche se con ferite non gravi dalle quali si riprese abbastanza in fretta. Ma la cosa interessante è ciò che successe dopo. Il campione austriaco prese carta e penna e scrisse a Chapman una lettera che diceva più o meno così: “caro Colin, le tue macchine sono maledettamente veloci, ma da quando guido per te ho avuto diversi guasti meccanici che potevano avere conseguenze molto serie. Ti suggerisco due cose: irrobustisci i pezzi più deboli, perchè qualche pound in più di sicuro non inciderà troppo sulla velocità delle auto, e prenditi del tempo per controllare che i tuoi addetti facciano le cose per bene“.

Il primo suggerimento colpiva Chapman proprio nel cuore delle sue convinzioni, e qui ci leghiamo ad un secondo documento scritto questa volta dallo stesso Colin. Correva l’anno 1975, quindi 6 anni dopo la lettera di Rindt. La Lotus attraversava un periodo di crisi, dopo i successi della 72, che era ormai alla sua sesta stagione e aveva finito il suo lunghissimo ciclo vincente. L’idea dell’effetto suolo doveva ancora arrivare, e per cercare di trovare la via del ritorno alla vittoria, Chapman scrisse, su un quaderno, un vero e proprio decalogo per progettare un’auto da corsa vincente. E il primo punto recitava quanto segue: “una macchina da corsa ha UN SOLO obbiettivo: vincere le gare“. E, subito dopo: “Può sembrare ovvio, ma ricordate che non importa quanto sia progettata in maniera intelligente, o risulti poco costosa, o semplice da manutenere, o anche quanto sia SICURA, perchè se non vince NON E’ NULLA!”

Tutto questo nonostante la morte di Clark nel 1968, le cui cause non furono mai accertate anche se il cedimento meccanico è sempre stata considerata quella più probabile, il sopra citato incidente di Rindt con successiva protesta scritta, e la tragedia di Monza del 1970 dove il pilota austriaco perse la vita probabilmente a causa del cedimento dell’alberino di uno dei freni anteriori, che Forghieri definì “più sottile di una matita”.

Questo è ciò che ci racconta la storia. E ovviamente Chapman non era l’unico, sia a quell’epoca che in tempi successivi, a giocare con la pelle dei piloti in nome della performance. Era abbastanza normale, soprattutto fra gli inglesi per i quali “motorsport is dangerous”, punto e basta.

La filosofia di Ferrari era completamente differente: le macchine dovevano essere robuste perchè prima di tutto avevano il compito di proteggere il pilota. Quando Lauda ebbe l’incidente al Nurburgring, venne chiamato un perito ad esaminare i rottami, e la conseguente relazione fu data ai giornalisti perchè fosse pubblicata, a testimonianza che nulla sulla macchina si era rotto. E sei anni dopo quando ci fu la tragedia di Villeneuve, anche a seguito delle pesanti critiche arrivate da più parti, venne condotta una indagine approfondita per escludere una debolezza strutturale del telaio, il quale venne comunque irrobustito.

Fino ad una trentina di anni fa, i progettisti non avevano particolari prescrizioni relativamente alla sicurezza. E quindi c’era un parametro in meno da considerare, proprio come voleva Chapman. Anche la regola sul peso minimo veniva costantemente aggirata dagli inglesi con vari sotterfugi. Poi finalmente qualcosa è cominciò a cambiare, fino a quando i fatti di Imola, causati anch’essi in parte da cedimenti meccanici, hanno imposto la svolta definitiva: la sicurezza DOVEVA diventare un parametro di progetto sottoposto a standard molto precisi cui nessuno poteva sottrarsi. E le tragedie sono finalmente diventate sempre più rare, non solo in F1 ma anche nelle altre categorie che a poco a poco si sono adeguate a questa filosofia costruttiva.

Fra poche settimane conosceremo gli effetti di un cambio regolamentare che è stato fatto specificamente per rendere le auto più veloci, per la prima volta in 50 anni. E, dopo tanto tempo che non accadeva, si è ritornato a parlare di timori per la sicurezza. Riguardando le foto di 50 anni fa non si può fare a meno di pensare a quanto sia cambiata la mentalità di chi progetta ma anche di chi guida le auto. Oggi si disquisisce sul fatto che una sospensione sia più o meno intelligente e possa così far guadagnare qualche decimo di secondo, nel 1969 si montavano alettoni di cui a malapena si conoscevano i principi di funzionamento, fissandoli con un po’ di nastro adesivo, e si andava in pista nella speranza di guadagnare qualche secondo. Cosa che spesso accadeva, anche se nessuno sapeva spiegare perchè. Ma accadevano anche disastri cui si poneva rimedio in fretta e furia e in modo approssimativo.

C’era sì più spazio per la creatività, ma questa veniva anche utilizzata in modo pericoloso per l’incolumità dei piloti.

Se Chapman vedesse il regolamento attuale probabilmente si chiederebbe come mai avendo l’obiettivo di ridurre di 5 secondi i tempi sul giro sia stato aumentato il peso minimo. E, probabilmente, sceglierebbe di fare un altro mestiere.