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LA STORIA DEL DRAKE PARTE 4-LINA LARDI, PRIME VITTORIE E FORMULA 1

Facendo un passo indietro nella storia di Enzo Ferrari rispetto al 1947, (dove c’eravamo lasciati alla fine della terza parte), andiamo al 1945, anno della nascita di Piero, suo secondo figlio, nato non da Laura Garello, sua moglie, ma da Lina Lardi, sua amante.

Secondo molti e, anche secondo il Drake, non si sarebbe dovuto sposare con Laura. I due avevano davvero un carattere non propriamente complementare, vivevano scontrandosi il più delle volte e di certo non avevano un rapporto sereno e stabile. Ma nonostante tutto non si separarono mai.

“Mi sono sposato molto giovane, forse troppo. L’ho conosciuta a Torino sotto i Portici di Porta Nuova, era molto bella, bionda, graziosa, simpatica. E’ stata un personaggio chiave nel periodo eroico della Scuderia Ferrari, mi ha criticato con tale assiduità e spesso anche per piccoli motivi provocando irritazioni e contrasti; era un amministratore inflessibile. Qualche volta abbiamo pensato di andare ognuno per conto suo, ma siamo stati uniti nonostante tutte le avversità. Nemmeno la tragedia ci ha fatti separare” (Enzo Ferrari)

Il Drake conobbe Lina Lardi  nell’estate del 1924, quando, correndo a tutto spiano con l’automobile su una via dell’Appennino modenese, rallentò per salutare un conoscente che passeggiava con la figlia.  La ragazza in questione era Lina e in quell’occasione aveva quattordici anni. A Lina in realtà Enzo non piacque subito, lo riteneva un giovanotto scapestrato che lei stessa aveva definito un “superbone”. I due si rincontrarono 5 anni dopo, nel 1929.

 

 

Lina aveva appena iniziato a lavorare come impiegata negli uffici della Carrozzeria Orlandi di Modena, dove Enzo consegnava gli autotelai per farli carrozzare.

Enzo all’epoca già veniva nominato da tutti “Ferrari”, non aveva ancora concretizzato il suo progetto di produrre automobili in completa autonomia, ma grazie al lavoro fatto con la Scuderia e grazie agli eroi al volante delle Alfa Romeo, Enzo si era fatto già un nome, e aveva accumulato una discreta dose di ricchezza e fama.

Aveva 31 anni, da 6 anni era sposato con Laura Garello ma Lina, ragazza affascinante e raffinata, l’aveva talmente conquistato che la volle come segretaria.

La moglie Laura era molto attiva nell’azienda del marito e condivideva lo spazio di lavoro con Lina, la donna parallela di Enzo. Le due si vedevano giornalmente ed Enzo cercava di sdoppiarsi, tentando di costruire un equilibrio davvero molto precario e delicato.

Lina abitava in una casa situata nella campagna vicino a  Maranello, mentre Laura dimorava a Modena. Nel 1945 dall’amore tra Enzo e Lina nacque Piero, figlio amatissimo dal padre.

Piero però non venne iscritto all’anagrafe con il cognome del padre ma bensì con quello della madre “Lardi” in quanto figlio nato da una relazione extraconiugale; le leggi di quel periodo infatti vietavano agli uomini sposati di riconoscere figli illegittimi.

Solo dopo l’entrata in vigore della Riforma del diritto di famiglia, del 1975, Piero poté finalmente sfoggiare il cognome Ferrari ma non scelse solo di usare il cognome paterno ma preferì affiancare i due cognomi.

Lasciando da parte la vita privata del Drake, torniamo ai motori e alle competizioni e prima di farci assorbire dall’adrenalina voglio rammentare a tutti una data che rappresentò davvero un evento simbolico per la Scuderia di Maranello: il 12 marzo 1947, giorno del debutto su strada della prima Ferrari della storia.

Ecco come ce lo racconta Gianni Rogliatti, giornalista e fine narratore delle vicende Ferrari: “Quel giorno, verso le quattro del pomeriggio, alla periferia di Maranello si levava un rumore di motore a scoppio, ma un motore strano che aveva cominciato a funzionare tossicchiando e poi era aumentato di intensità e tono fino a livelli mai sentiti prima da quelle parti. Era la macchina, ancor priva di carrozzeria, sulla quale Ferrari, uscendo a destra dal cancello dello stabilimento, si era lanciato sul rettifilo verso Formigine. Dopo alcuni km si era fermato, aveva invertito la marcia ed era rientrato in fabbrica dove tutti lo aspettavano ansiosi”.

 

 

Ma quale fu la prima vittoria del Cavallino Rampante?

«La prima volta non si scorda mai. Il primo giorno di scuola, il primo bacio, il primo lavoro. È qualcosa che ci si porta sempre dentro. E spesso è un dolce ricordo. Come nel caso della Ferrari e della sua prima vittoria datata 1947, e ottenuta con la 125 S. La prima pietra di una storia sportiva senza eguali: quella della scuderia che vanta il maggior numero di successi nella storia della Formula 1».

Questo brano era presente nel sito della Ferrari quando nel 2017 c’erano i festeggiamenti per il settantesimo anno di vita della Scuderia.

La vittoria avvenne domenica 25 maggio 1947, sul circuito romano di Caracalla, dove Franco Cortese, vinse la nona edizione del Gran Premio Roma.

Fu per la Ferrari la prima vittoria ottenuta in un Gran Premio dopo la scissione con l’Alfa Romeo. Cortese completò i 40 giri del Gp (per un totale di 137,6 km) alla media di 88,5 km/h.

I successivi due anni vedranno una crescita esponenziale del marchio Ferrari che, il 5 settembre 1948, partecipò al suo primo Gran Premio d’Italia dove ottenne anche un buon piazzamento, ovvero un terzo posto col pilota francese Raymond Sommer.

Un mese dopo, il 24 ottobre, arrivò la prima vittoria sul Circuito del Garda con Nino Farina, pilota incredibile che divenne oltretutto il primo campione del mondo di Formula 1.

Ecco cosa pensava di lui Enzo Ferrari.

Sarà storicamente ricordato come il pilota che per primo si è fregiato del titolo mondiale quando, nel 1950, fu istituito il Campionato del mondo di Formula 1.Era l’uomo dal coraggio che rasentava l’inverosimile. Un grandissimo pilota, ma per il quale bisognava stare sempre in apprensione, soprattutto alla partenza e quando mancavano uno o due giri all’arrivo. Alla partenza era un poco come un purosangue ai nastri, che nella foga della prima folata può rompere; in prossimità del traguardo era capace di fare pazzie, ma, bisogna pur dire, rischiando solo del proprio, senza scorrettezze a danno di altri. Così, aveva un abbonamento alle corse dell’ospedale.(Enzo Ferrari)

 

La vittoria di Nino Farina non fu importante solo in seno alla Ferrari ma sicuramente determinò un cambiamento radicale dei rapporti fra la Scuderia del Cavallino e l’Alfa Romeo, tra le quali nacque una profonda rivalità.

L’anno successivo per la Ferrari è un completo trionfo, 30 vittorie su 49 partecipazioni, arrivando a primeggiare addirittura alla Carrera Panamericana, gara oltreoceanica.

Intanto era nata una nuova categoria nel mondo dell’automobilismo sportivo: la Formula 1, il cui primo titolo mondiale venne organizzato nel 1950.

La Ferrari non partecipò subito dall’inizio, infatti il suo debutto coincise con il week-end del Gran Premio del Principato di Monaco, il 21 Maggio 1950, otto giorni dopo il primo Gran Premio di Gran Bretagna, tenutosi sul circuito di Silverstone.

Ma perchè la Ferrari non esordì già in Inghilterra?

La scuderia di Maranello tarderà il suo lancio nella massima serie motoristica perchè stava ancora lavorando allo sviluppo della 275 F1 con motore aspirato che avrebbe fatto il suo debutto in virtù del Gran Premio del Belgio.

A questa spiegazione va però aggiunta anche un’altra motivazione di questo ritardo, ovvero un ingaggio piuttosto scarso proposto dagli organizzatori, come spiegherà poi Enzo Ferrari alla stampa.

All’evento furono iscritte quattro monoposto Ferrari modello 125 F1, due guidate da Alberto Ascari e Luigi Villoresi, pilota che non ha mai nutrito una profonda simpatia verso Enzo Ferrari, mentre le altre due vennero affidate a Raymond Sommer e Peter Whitehead.

La corsa terminò con la vittoria dell’Alfa Romeo ma con una Ferrari, quella di Ascari, sul podio invece Raymond Sommer, che gareggiava in veste semi-ufficiale, agguantò un ottimo quarto.

 

La prima vittoria in F1 della Ferrari giunse con il Gran Premio di Gran Bretagna del 1951 con José Froilán González che sbaragliò la concorrenza dello squadrone Alfa Romeo.

Fu un punto di svolta della storia delle competizioni, in quanto la consacrazione della squadra modenese segnò il tramonto dell’Alfa Romeo nella F1 e, contemporaneamente, la scalata sportiva al successo della Ferrari.  Questi due andamenti opposti causarono nel cuore di Enzo Ferrari una spaccatura interna, da una parte era orgoglioso dei traguardi che stava raggiungendo ma dall’altra era profondamente dispiaciuto delle prestazioni della casa milanese alla quale doveva tutto. Senza l’Alfa Romeo non ci sarebbe stata la Ferrari che conosciamo tutti.

 

Enzo Ferrari commentò così la vittoria della propria squadra: “Quando nel 1951 González su Ferrari, per la prima volta nella storia dei nostri confronti diretti, si lasciò alle spalle la 159 e l’intera squadra dell’Alfa, io piansi di gioia, ma mescolai alle lacrime di entusiasmo anche lacrime di dolore, perché quel giorno pensai: Io ho ucciso mia madre”.

La stagione di Formula 1 del 1951 vide alla fine vittorioso nel campionato mondiale il leggendario Juan Manuel Fangio su Alfa Romeo, ma dopo Silverstone la Ferrari conquistò altre due vittorie, in Germania e in Italia.

 

Queste vittorie erano solo un assaggio di ciò che la Ferrari poteva fare, la squadra del Cavallino aveva fatto vedere solo parte del suo enorme potenziale ed era pronta per sfoderarlo sino all’ultima scoccata.

Fu vera gloria?

Lo vedremo nella prossima puntata!

 

Laura Luthien Piras 

 

 

L’insostenibile leggerezza delle gerarchie porpora

Gli anni de Il Maestro e dei discepoli
Per Enzo Ferrari non ci possono essere compromessi.
Lui è stato un pilota anche se dalle fortune alterne ma sa benissimo che cosa passa per la testa di chi sta correndo al massimo consentito dal mezzo che conduce.
E sa meglio di chiunque altro che il primo dei tuoi avversari è proprio il pilota che condivide la tua stessa vettura.
La sua regola d’oro è che non ci siano prime o seconde guide per contratto e arriva a mostrare a Musso le schede di coppia dei suoi propulsori a Reims nel 1957 di fronte ai sospetti del romano che il Drake favorisse Hawthorn.
Niente è stabilito finché un pilota non ha concrete possibilità di vittoria finale.
Niente viene detto a Collins a Silverstone nel 1958 quando Peter soffia una vittoria fondamentale in ottica mondiale per Mike.
Niente ordini a Monza nel 1956 quando Castellotti e Musso impegnati in una folle sfida letteralmente stracciano gli pneumatici per primeggiare l’uno sull’altro.
L’equilibrio si rompe clamorosamente solo con Fangio che ottiene uno stipendio fisso di un milione di Lire al mese (che all’epoca erano fior fiore di quattrini) più i premi accessori e il ruolo di primadonna nella scuderia.
Pare anzi che alla base del mancato rinnovo de Il Maestro con Ferrari nel 1957 ci fosse proprio lo status economico e privilegiato che il commendatore non voleva ripetere.
A Ferrari questo costerà il mondiale piloti del 1957.
A Maserati, che lo strappa da Maranello, probabilmente il futuro in F1.
Ma questa è un’altra storia.
Negli albori della Formula 1 in Ferrari i piloti guadagnano in base agli ingaggi che il Drake ottiene per la partecipazione delle sue monoposto ai vari Gran Premi.
Da un milione di Lire a monoposto, fino a due nei Gran Premi più prestigiosi.
Ai piloti va il cinquanta percento dell’ingaggio e altrettanto dei premi vinti in base alla classifica di arrivo.
Niente è fisso.
O garantito.
Questo ha un ben preciso impatto su eventuali ordini di scuderia.
Chiedere ad un pilota di rinunciare ad una posizione in gara a favore di un suo collega non significa solo chiedergli di ingoiare il suo orgoglio.
Significa chiedergli di rinunciare in prima persona a degli introiti.
Il 1958 vede una sfida serrata fra Hawthorn e Moss e alla gara decisiva in Marocco a Phil Hill viene ufficialmente chiesto di non intralciare il leader ferrarista.
Allo Statunitense viene garantito il contratto per la stagione 1959 in cambio e, di fatto, cede la posizione all’Inglese che, con la seconda piazza guadagnata sul circuito di Ain Diab, diventa campione del mondo.
Hill riceverà aiuto solo tre anni dopo da parte di von Trips con la garanzia di non intralciarlo.
Nonostante il Tedesco fosse in piena lotta per il titolo mondiale.
Nel 1964 Surtees riceve un insperato aiuto da Bandini nella sua lotta testa a testa con Graham Hill.
Interventi spesso spontanei da parte dei protagonisti stessi.
Più dettati da una forma di cavalleria o di attaccamento alla Scuderia che vere e proprie prese di posizione della direzione sportiva in gara.
La Scuderia interviene solo quando un pilota ha apertamente possibilità di vittoria; niente ad eccezione del 1956 con Fangio, è stabilito a tavolino o a priori.

I piloti come dipendenti
Un cambio di passo si registra con l’introduzione dei contratti stagionali e con la modifica dello status del pilota.
Non più imprenditore delle proprie fortune in base alle posizioni che egli riesce a guadagnare in pista ma vero e proprio dipendente e meccanismo inserito nell’organigramma aziendale.
Una risorsa a disposizione dell’azienda come può essere un ingegnere addetto alla progettazione dei propulsori o un tecnico che cura la tenuta e la pressione degli pneumatici.
Sono gli anni settanta e ottanta.
Ma anche in questo periodo il cavaliere è refrattario a imporre un ben chiaro indirizzo nella corsa al titolo a priori.
Anche se non perde il vizio di instillare fra di essi una serpeggiante competizione, spesso lasciata distrattamente cadere nel bel mezzo delle discussioni come ama fare da sempre.
Con l’unica eccezione di Jody Scheckter e Gilles Villeneuve anche se in questo caso il carattere e lo stretto rapporto che si instaura fra i due alfieri (rapporto che ricorda moltissimo quello di cameratismo fraterno fra Peter Collins e Mike Hawthorn) gioca un ruolo ben più preponderante che non i desiderata di Enzo Ferrari.
Anzi proprio l’ostinata mancanza di ruoli ben definiti (insieme probabilmente al più colossale caso di malcomprensione della storia della Formula 1) pare sia alla base dell’ennesima tragedia che colpisce Maranello nel 1982.
Il materiale fornito ai propri alfieri è sempre il meglio di quanto Maranello sia in grado di sfornare e quando un pilota ha doti di lucidità ingegneristica assolute, come capita quando il cavaliere  mette sotto contratto Niki Lauda, le indicazioni di sviluppo vengono condivise sulle monoposto rosse in egual misura.
In questi anni i piloti diventano progressivamente asset aziendali e questa trasformazione non riguarda la sola Maranello.
E’ un cambiamento di passo almeno altrettanto grande dell’avvento delle sponsorizzazioni e della visibilità globale che la massima serie acquisisce progressivamente.

L’arrivo de Le Petit Empereur
La Ferrari a metà degli anni novanta è una squadra allo sbando sia tecnico che gestionale.
Quello che le serve disperatamente è qualcuno con la stessa feroce autorità del cavaliera da poco scomparso, e l’uomo della provvidenza arriva sotto forma di un team principal dal DNA vincente.
Con Jean Todt arriva anche una concezione della squadra ben differente da quanto mostrato negli anni precedenti.
Con Todt arriva la razionalizzazione totale delle risorse e con essa ruoli ben definiti fra chi è deputato a vincere e chi lo deve supportare.
Fra chi ha i materiali migliori e chi no.
E quando, per coincidenze che solo il fato beffardo riesce a mettere in fila, la prima guida si ritrova fuori dai giochi, l’impressione che Maranello mostra al mondo è quella di una squadra che piuttosto che vincere con il brutto anatroccolo, preferisce perdere.
Questo accade nel 1999 quando l’anatroccolo è fortunato, fortunatissimo; ma talmente brutto che ci deve pensare Benuzzi nei test privati a dirgli, alla vigilia del Gran Premio di Monza, che il telaio con cui ha corso le ultime tre gare è incrinato e ha perso rigidità.
Ovviamente a moltissimi questo particolare, come la gomma mancante al Ring e il mancato montaggio del nuovo estrattore a Suzuka, sono la prova provata che Ferrari ordisce una trama contro il suo stesso pilota.
A poco serve la gara malese in cui il brutto anatroccolo viene trascinato per la zampa fino alla insperata vittoria.
Questa impressione non abbandonerà mai del tutto moltissimi suoi tifosi, sempre più spesso inclini a scambiare la mancanza di competitività di un pilota in rosso con scenari di boicottaggio masochistico.
Le scelte di privilegiare Schumacher in Austria sia nel 2001 che nel 2002 ben prima che i giochi del campionato lo rendano necessario sarà la conferma che l’impostazione di feroce competizione tanto cara al Drake è ormai un pezzo del passato.
Remoto.
Il muletto preparato e costantemente a disposizione della prima guida stride con l’assegnamento alternato che ne fanno in altri lidi.
E le gare spettacolari che i brutti anatroccoli di turno finiscono per mettere in pista le pochissime volte che il muletto designato per l’eletto finisce tra le loro zampe palmate, aumentano a dismisura il sospetto che nemmeno il materiale messo a disposizione dei piloti sia identico ma di serie A o di serie B, alla bisogna.
Con l’unica eccezione del biennio 2007/2008 in cui il team dà la netta impressione di una sfida aperta fra Massa e Raikkonen (perlomeno fino alla scadenza di Monza) Maranello, anche dopo la dipartita di Todt, ne rimarrà fedele all’impostazione di base, che vede un titolare designato ed uno scudiero a cui delegare esperimenti spesso grotteschi ma senza velleità di vittoria finale.
Lo stesso scenario sarà la colonna sonora portante degli anni in rosso di Alonso nel passato prossimo e di Vettel nel presente.
Ad oggi, senza però l’autorità (e i fondi illimitati) di Todt, nessuno dei designati a tavolino è riuscito a riportare l’iride a Maranello.

Non sequitur
Il ruolo dei piloti odierni è una pallida eco di ciò che poteva essere negli esordi della Scuderia nel mondo delle competizioni.
I piloti sono a tutti gli effetti dipendenti delle scuderie.
Da esse stipendiati; dalle stesse garantiti.
Nessuno di loro paga in prima persona i meccanici come poteva fare un Musso con le sue ambiziose prebende girate ai meccanici per garantirsene i migliori servigi.
Nessuno baratta in prima persona i propri benefit aziendali seduto al tavolo col Vecchio; o deve scontare con il purgatorio della Formula 2 una frizione fatta saltare alla 24 Ore di Le Mans come Collins.
Nessuno di loro si vede appiedato a metà stagione senza apparente motivo.
O, obtorto collo, obbligato a correre in Formule minori, e spesso molto più pericolose, per guadagnare sul campo i galloni per poter avere a disposizione una monoposto per il Gran Premio successivo.
Se da un lato il contratto rigido garantisce ai piloti la costante partecipazione ai Gran Premi (in passato non era così scontato) dall’altro ha loro tolto il diritto di esercitare quel legittimo egoismo che potevano avere i loro colleghi nel passato. Oggi i piloti non devono più sostenere a loro spese onerose trasferte o vedere la “loro” vettura assegnata d’ufficio ad un pilota che in un determinato gran Premio abbia migliori chances.
Oggi i piloti sono operai specializzati che si recano in linea di montaggio.
Ma al contrario degli operai, il loro lavoro è decisamente meno pericoloso e meno irto di insidie.
L’altro lato della medaglia è la minore autonomia che essi possono esercitare nei confronti di chi ne garantisce la ovattata partecipazione alla competizione stessa.
Chi rinfaccia alla Ferrari di non aver avuto il coraggio di far competere i suoi piloti all’ultimo sangue semplicemente dimentica une enorme fetta della storia della Scuderia.
Storia in cui, sull’altare della competizione feroce e senza esclusione di colpi, si sono consumate tragedie initerrotte.
Chi ne critica l’atteggiamento odierno dimentica come i piloti abbiano smesso il loro ruolo.
E lo abbiano fatto da tempo.
Avendone indubbi privilegi.
Privilegi che, come spesso accade nel giudizio storico, andrebbero soppesati con il fiele di vedere il proprio idolo trattato alla stregua di un impiegato qualsiasi.
Perché oggi, che piaccia o meno, di questo, fatte le dovute tare, si tratta.