Red shift

PROLOGO
Secondo un paradigma tanto abusato quanto veritiero, chiunque vanti natali italiani ed interesse per il mondo dei motori si troverà necessariamente a tifare Ferrari, considerandola automaticamente l’apice universale dell’automobilismo sportivo e non. Raramente, molto raramente, schegge impazzite disattendono questa pseudo-formula, e per motivi largamente ignoti destinano una sostanziosa dose di dedizione, spesso affine al paganesimo, verso altri lidi. Le direzioni sono molteplici e spesso imprevedibili: piloti semi-sconosciuti, ombre di patria gloria che fu (sciorinando lettere greche che avranno la loro vendetta, in questa vita od in un’altra), o ancora il lontano oriente, tra kaizen e motori dal dubbio futuro.
Capita anche di rimanere folgorati da una stella argentea di provenienza teutonica. Occorrenza doppiamente ironica, data l’infinita rivalità tra Italia e Germania nell’epoca d’oro dei Grand Prix, quando la nomea francese delle Bugatti e Delage era già in declino, e i sempre partecipativi britannici degnavano il continente della loro presenza in pochi casi al di fuori di LeMans. Vista la tendenza al paganesimo accennata poc’anzi, è necessario un luogo di culto a cui dedicare un pellegrinaggio: accade così che l’altrimenti spoglio paesino di Untertürkheim diventi destinazione paragonabile alle più famose città europee.
Il locale museo Mercedes è una modalità valida per sprecare una giornata intera, racchiudendo al suo interno una fetta imprescindibile del patrimonio automobilistico mondiale. Auto (e non solo) ovunque, persino sui muri; una in particolare. Una specie di massa informe, enorme, ovviamente colorata d’argento, che si staglia minacciosa sullo sfondo nero bitume. Una sproporzionata macchia di vernice, sfuggita ad un pittore disattento. Nella perfetta tradizione germanica, il nome è una sigla asettica; ricorda più un carro-armato sovietico che un’auto da competizione: T80.

“SPEED…I AM SPEED”
Camille Jenatzy aveva già capito dove saremmo andati a parare. “Jamais contente”: titolo migliore per la rincorsa al record di velocità su strada non si potrebbe inventare. D’altronde, appurato che le folli percorrenze dei treni ottocenteschi non asfissiavano i malcapitati a bordo, la ricerca della velocità, con ogni mezzo, diventa ben presto un ottimo banco di prova per le massime espressioni tecnologiche post-industriali. L’auto non fa eccezioni: gli esordi con il monopolio francese, un insospettabile Henry Ford, il dominio britannico delle Sunbeam e del leggendario duo Campbell-Blue Bird. Senza dimenticare le silberpfeil, nel tempo libero tra un GP e l’altro, concentrate sui flying miles, percorsi su normali autostrade. Incidentalmente, il record su strada normalmente aperta al traffico è ancora detenuto da una W125; ma né la Auto Union, né la Mercedes-Benz, poterono mai fregiarsi del titolo di auto più veloce del mondo. Non troppo facile da immaginare, questa congiuntura non fu mai troppo ben vista dai tedeschi, soprattutto in un tale periodo storico. La (invero sinistra) idea di un’arma definitiva, capace di surclassare le vetture britanniche, fu di Hans Stuck; sotto il patrocinio di Adolf Hitler, neanche la morte di Rosemeyer pose un limite alle ambizioni di primato. A coordinare il tutto, dato che siamo negli anni ’30, in Germania, parliamo di ingegneria automobilistica: qualcuno ha detto Dr.-Ing. Ferdinand Porsche?

L’ETERE
Le ripercussioni, vere o presunte, del trattato di Versailles sulla successiva storia europea sono state sviscerate sotto molti aspetti. Come noto, uno dei punti prevedeva una notevole riduzione d’organico dell’esercito tedesco, e soprattutto il completo smantellamento delle forze d’aviazione. Una moltitudine di ingegneri aeronautici, in particolar modo esperti di fluidodinamica, si trovarono nella posizione dunque di doversi cercare un nuovo impiego, ed un buon numero furono assorbiti dall’industria automobilistica. Si spiega così un’evoluzione rapidissima: se nel 1914 il non-plus-ultra dell’aerodinamica stradale era probabilmente rappresentato dal siluro Ricotti, un approccio molto più sistematico alla progettazione porta a modelli come la Tatra T77 di Jaray (impiegato in precedenza nella costruzione degli Zeppelin), agli studi di Madelung sulla coda tronca che si finalizzano nella formalizzazione della K-coupè grazie al barone Koenig-Fachsenfeld ed al leggendario Wunibald Kamm. La fine degli anni ’30 è un fiorire di capolavori dell’aerodinamica stradale: BMW 328 Wendler, Maybach Zeppelin, la recentemente ricostruita 540K Stromliner, persino una Fiat Balilla Aerodinamica.

JOSEF MICKL…
La carrozzeria della T80 è pero affidata ad un nome oggi pressoché sconosciuto: Josef Mickl. Inizialmente un ingegnere aeronautico a libro paga dell’Impero Austro-ungarico, nell’immediato dopoguerra Mickl si trasferisce brevemente alla Austro-Daimler, dove conosce Ferdinand Porsche, con il quale collaborerà stabilmente dal 1931, prima e dopo la seconda guerra mondiale, mettendo mano ad innumerevoli progetti sia automobilistici che non, e presentando una serie di brevetti, specialmente nel campo delle turbine. A tempo perso ispirerà, con le sue improvvisate lezioni, un giovincello che gravita da quelle parti, tale Ferdinand Piëch. Grazie alle sue competenze aeronautiche, Mickl capisce fin da subito che, se la componente longitudinale della forza esercitata dall’aria è importante, quella verticale è fondamentale. Non è certamente il primo a comprendere l’effetto delle velocità estreme sulla portanza: le Opel RAK1 e RAK2 montavano ali sulle fiancate, con il piccolo caveat che il camber si trovava dalla parta sbagliate, e la (marginale) efficacia era data con ogni probabilità dall’angolo d’attacco altamente negativo. Anche l’effetto del suolo sulle prestazioni di un’ala è conosciuto da almeno 10 anni, con i primi studi teorici e test risalenti al 1921 (rispettivamente Wieselsberger, Zahm e Bear). Ci sono però pochi dubbi che sia Mickl a mettere insieme per primo i pezzi del puzzle, e a contemplare seriamente l’effetto di ali e suolo sull’aerodinamica di una vettura.

…TI METTE LE ALI…
…girate sbagliate. O meglio, giuste. In uno dei brevetti che precedono la T80, fa la sua timida comparsa un’ala invertita, montata dietro il cockpit in posizione elevata e dunque di flusso relativamente indisturbato; non contento, Mickl, preoccupato dell’eventuale solitudine della suddetta, la accompagna ad un flap ad incidenza variabile, capace di agire anche come freno aerodinamico. A concludere il tutto, un paio di endplate. Una trentina di anni prima della Chaparral. Non sono note le ragioni per cui questo layout non sarà mai effettivamente costruito; in compenso, due enormi appendici aerodinamiche fanno la loro comparsa ai lati della vettura, rendendola simile ad un rapace che dispiega le sue piume nella loro maestosa larghezza, una sontuosa aquila che plana ad inaudite velocità sull’ignara preda…
Ma neanche la più veloce delle aquile può vantare la seconda, geniale trovata di Mickl: l’interminabile lunghezza della T80 è infatti sfruttata per trasformare il corpo vettura in un’enorme profilo alare, capace di sfruttare l’effetto suolo grazie al diffusore appena dietro gli assi posteriori. L’immagine superiore del brevetto del 1939 è una summa della grandezza di Mickl, e di un progetto le cui basi teoriche non saranno replicate per lustri a venire. La T80 è semplicemente fuori dal suo tempo.

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MORE IS…MORE
Nel frattempo, i recenti record di Cobb ed Enston hanno ulteriormente alzato l’asticella, ed ora la velocità massima prevista lambisce i 750 km/h. Per raggiungerli, un Messerschmitt è stato derubato del suo V12 Daimler-Benz, che ora eroga circa 3000 CV grazie ad una complessa miscela di metanolo, benzene ed idrocarburi assortiti. Otto metri, sei ruote di cui quattro motrici, tre tonnellate, tre metri di larghezza; uno dei primi esempi di differenziale a scorrimento limitato, installato tra gli assi per impedire un eccessivo slittamento in trazione, data la devastante coppia del DB603; un enorme tamburo per ruota per riportare il mostro a velocità umane. Il risultato finale, un misto di alta tecnologia e hubris replicato solamente dallo Spruce Goose.

SCHWARZ VOGEL
Arriva la fine del 1939 e l’auto, pardon la bestia, è pronta. Il luogo per il record è stato trovato: un tratto dalla A9 a sud di Dessau, con sede stradale allargata a 25 metri per accomodare comodamente la carreggiata della T80, ed i suoi probabili ondeggiamenti. La data anche: gennaio 1940. C’è pure il soprannome: Schwarz Vogel, l’uccello nero (curioso come sia lo stesso nome in codice di un altro capolavoro di ingegneria, dalle dimensioni insensate ma soprattutto dalla mai replicata velocità). La vettura è stata infatti dipinta di nero, con tanto di aquila e svastica annesse: il record deve infatti rappresentare la superiorità totale del Terzo Reich in ogni campo; la T80 è diventata tanto esercizio di ingegneria estrema, quanto strumento politico. Ma la T80 ha un’altra cosa in comune con il succitato mostro volante di Howard Hughes: la sorte.

EPILOGO
La T80 non assaggerà mai l’asfalto dell’Autobähn. L’invasione della Polonia fa passare le velleità velocistiche di Stuck e Mickl in secondo piano, per usare un eufemismo. Lo sforzo bellico richiede che il DB603 venga smontato e restituito ad uno dei suoi legittimi possessori, un Messerschmitt; le sei ruote della T80 vengono parcheggiate in Austria, dove l’auto si salva miracolosamente, per essere riportata in Germania al termine del conflitto, trovando infine uno spazio sulla parete del museo Mercedes, opportunamente ridipinta con un più neutro argento. Petizioni per ricondizionarla ed utilizzarla per quello che era stata concepita inizialmente finiscono, ovviamente, nel vuoto. Il suo posto è li, insieme alle sue sorelle più o meno strette; dietro di lei sfilano la W125 Rekordwagen, poi un esemplare delle C111 che fecero segnare numerosi record a Nardò negli anni ’70. Ma davanti a tutti, minacciosa ed elegante al tempo stesso, ma soprattutto maestosa come nessun’altra, rimane lei, la T80: l’auto più veloce a non aver mai corso.

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