FERRARI SF23

La presentazione della “rossa nazionale” è un evento da sempre, quell’evento che ha il “vizio” di caricare di aspettative i tifosi maranelliani sparsi in ogni angolo del mondo.

Si presenta l’auto. Sale l’entusiasmo. Si eccitano gli animi. E poi la stagione andrà come andrà….

La storia si ripete sempre uguale a se stessa da tempo immemore.

Il tifoso rosso strabuzza gli occhi tutte le volte. Apre il cuore alla speranza che quell’oggetto possa essere l’arma totale in grado di difendere l’onore di cotanto blasone rampante.E’ inevitabile per tanti, per troppi.

Ecco cosa è la presentazione di ogni monoposto di Maranello.

I più attempati ebbero gli occhi lucidi di fronte ad ognuna di esse nel passato, persino di fronte ad oggetti che gli occhi “lucidi” di un tecnico davano per spacciati ben prima di scendere in pista.

Al cuor non si comanda e chi scrive è convinto che anche oggi, nel 2023, le emozioni di tanti tifosi Ferrari siano fortissime.

La SF23 è ancora una monoposto “binottiana”, nata e cresciuta quando l’Ing. era Team Principal. Le prestazioni iniziali della stessa saranno farina del suo sacco, nel bene o nel male. In entrambe le situazioni si potrà sempre accampare la scusa di non aver più a libro paga il suo ideatore per poterla sviluppare, di essere stati obbligati a fare dei cambiamenti nei processi interni della squadra, un team da rifondare per l’ennesima volta e per questo mai pronto ad affrontare gli avversari con il petto in fuori ed il cuore impavido.

Cosa accadrà non lo sappiamo oggi e manco ci interessa. Fa più gioco continuare a sperare che una volta (anche solo per errore) si azzecchi tutto “l’azzeccabile” e che la maledizione del Mondiale possa essere finalmente scacciata. Perché a tornare indietro con la memoria non c’è affatto da star sereni.

Meanwhile, le dichiarazioni di rito sono sempre le stesse. Il nuovo TP ha fatto sapere che i due piloti partiranno alla pari e che solo il susseguirsi degli eventi sarà in grado di delineare se si potrà puntare su uno dei due. Frasi già sentite e in passato stigmatizzate perché fuoriuscite da una bocca non più gradita.

Di tecnica è meglio che non ne parli chi scrive lasciando agli esimi commentatori l’opportunità di poter sbagliare un analisi che altrimenti sbaglierei io.

Ah, dimenticavo a proposito di tecnica…… il nuovo ruolo di DT ancora non è stato ufficialmente assegnato.

Chiudo con un pensiero nostalgico. Correva l’anno 1984 e dopo le prime due sfigatissime gare si arrivò a Zolder. Michele la vinse alla grande e Autosprint titolò a caratteri cubitali “TREMATE, LE ROSSE SON TORNATE”.

Al di là di come poi sia andata la stagione (che era scritta ancor prima di cominciare) fu un titolo che mise addosso un sacco di positività. Sarebbe stato bello sentirsi di usare un titolo del genere anche oggi… ma da tifoso rosso non me la sento proprio.

 

Buona Ferrari a tutti.

 

Salvatore Valerioti

ALFA ROMEO C43

Ed ecco la prima vera monoposto 2023 finalmente svelata. Parliamo della Alfa Romeo C43 anche se sarebbe corretto usare altri “cognomi” vista la transizione attraverso la quale il team italo-elvetico-tedesco si sta evolvendo.

Infatti i colori riprendono sia la tradizione Alfa Romeo che quella Audi Sport, giusto per non dare un immediato segno di rottura ma il giusto percorso che farà con il tempo abbandonare lo storico nome “prestato” alla F1 grazie al fu Sergio Marchionne.

Chi scrive (e lo sapere bene) non è un tecnico sopraffino in grado di darvi informazioni precise e di apprezzare al volo le (micro)differenze che su una monoposto talvolta fanno una grossa differenza di performance.

Ciò che salta subito all’occhio è che se la squadra aveva scelto di introdurre concetti mutuati dalla Ferrari 2022 per lo scorso anno, nel 2023 c’è molta Red-Bull a vista ed è evidente anche per un palato grezzo come quello del redattore.

Classiche le dichiarazioni di rito che prevedono una vettura più efficiente e più veloce.. Ma questo fa parte della sceneggiatura e del copione di ogni presentazione da illo tempore. Resta da vedere quanto sarà più performante rispetto allo scorso anno ma, soprattutto, rispetto alle altre vetture che scenderanno in pista ai prossimi test.

Ovvio e scontato aggiungere che da qui agli stessi prossimi test ci saranno ulteriori modifiche non visibili al momento del “revealing” odierno.

 

Buon commento a tutti

 

Salvatore Valerioti

MIT’S CORNER: MEMORABILIA ED IL RITIRO DI SEB

Personalmente ho sempre ritenuto Sebastian Vettel un grandissimo pilota.

E potrei concludere qui l’articolo.

Poi, ça va sans dire, capisco che forse è il caso di argomentare un po’ di più ma per farlo mi devo prima convincere che l’aneddotica personale può essere utile a spiegare il perché di certe opinioni. Dopo aver riflettuto per 1’43″665 (il tempo di una pole a Spa) decido che sì, vale la pena anche ricorrere all’aneddotica personale dal momento che, trattandosi di opinioni che lasciano il tempo che trovano, allora vale un po’ tutto.

Sappiate che seguo la F1 da quando ero un microbo. Nel 1977 imparai addirittura a leggere grazie all’almanacco della F1 e il ricordo va alla simpatica nonnina che mi correggeva se leggevo male i nomi dei piloti… il che non è che fosse l’optimum perché Jabouille, Depailler e Laffitte per lei erano letteralmente GIABUILLE’,  DEPAILLE’ e LAFFITTE’ con italianismi che scimmiottavano il francese senza conoscerne le regole di pronuncia, ma tant’è. Quando il babbo si rese conto che sapevo leggere s’impettì tutto contento e mi rifilò l’intera bibliografia di Jules Verne ed Emilio Salgari, il che dovrebbe spiegare il perché ancora oggi mi piace divagare svolazzando di fantasia a dritta e a manca.

Seguivo già la F1, per quel che vale a quell’età nel senso che stavo sul divano col babbo a vederlo tirar giù santi o esultare in funzione dei risultati della Ferrari. E se Niki Lauda era il nome che pronunciavo più spesso divenne però inevitabile (tipico dei bambini piccoli) il “tifo” per il mio omonimo Mario Andretti il quale, manco a farlo apposta, l’anno dopo trionfava sulla monoposto tra le più esteticamente meravigliose (oltre che tecnicamente rivoluzionarie) della storia del motorsport.
Poi ho imparato soprattutto ad apprezzare i piloti, le loro capacità, le loro imprese, le vittorie e le sconfitte. Quando accadeva che un’impresa fosse particolarmente straordinaria mi capitava il seguente fenomeno: quasi senza rendermene conto mi inginocchiavo davanti alla TV sfoggiando l’inevitabile mascella abbassata a raccogliere mosche durante la stupefazione. Non mi è accaduto molto spesso quindi l’elenco di tali occasioni me lo ricordo benissimo.
Villeneuve è quello che me ne ha fatte fare di più ma ero un bambino e probabilmente non contano ma sicuramente quella della foto è quella che spicca di più (sì, la vidi in diretta!)

Montecarlo 1984: poteva essere diversamente? (mi compiaccio del fatto che la mascella era abbassata per la prima e unica volta grazie alle imprese non di uno bensì di due (compianti) protagonisti: Ayrton e Stefan). Fu una roba mistica, che mi sentivo tipo un mercante di oli indiani ai piedi del Golgota nel 33 d.C o un modesto frequentatore delle singing chapel nella Chicago del 1980 mentre vedeva quel tizio vestito come un becchino illuminarsi d’immenso (“La banda! Elwood! La banda!”).


Montecarlo 1988: sempre Ayrton – non mi vengono in mente prestazioni più alte nella storia della F1 (che ho visto io almeno: vecchi appassionati mi dicono che Jim Clark, Ascari e Fangio erano su quel pianeta lì e a loro volta avevano sentito delle mirabolanti imprese del mantovano volante che, forse, era pure di un altro universo). Il che, se vogliamo, è piuttosto curioso dal momento che quella gara non la vinse perché si stampò da solo al Portier. Ma quel che fece prima… uuuuuuuh!

Le qualifiche di Spa 1991: me le ricordo come fosse ieri. Sul divano con papà e uno dei fratelli a ridere come matti mentre il Poltro o chi per lui raccontava della “disavventura” di Bertrand Gachot che costrinse Jordan alla sua momentanea sostituzione. Poi a ridere ulteriormente mentre traducevamo sarcasticamente il cognome del debuttante come “scarpazzone” (ai tempi abitavo a Modena e questo era il simpatico aggettivo da affibbiare al più scarso giocatore di qualsiasi sport). E poi, però, sono finito con le ginocchia a terra e con mascella aperta d’ordinanza, quando le telecamere si soffermarono, con tempi di qualifica in sovrimpressione, sull’allora totalmente sconosciuto Michael Schumacher (sempre-sia-lodato). E abbiamo tutti smesso di ridere


Magny-Cours 2004 – l’irreale prestazione di Schumy in quell’occasione fu qualcosa di indescrivibile con praticamente tutti fastest lap dal primo all’ultimo giro. Barcellona 96 e Francia 2004 sono l’Alfa e l’Omega della sua carriera.

Turchia o Monza 2006 Gp2 (la memoria fa cilecca) – ai tempi la rai le trasmetteva credo di Sabato. Non è F1 ma la riguarda indirettamente, quindi chissenefrega. Lewis parte ultimo, non ricordo se per una partenza stupida o una qualifica peggiore, e li passa tutti come birilli. Fu una cosa epica, fenomenale, galattica!, considerando che le auto erano sostanzialmente tutte uguali. Ebbene sì: inginocchiamento, mascella abbassata d’ordinanza e mano al cellulare per chiamare il fratello e dirgli di accendere immediatamente la TV che c’era uno che non si vedeva dai tempi di Senna

Monza 2008. Sì, di Seb se ne parlava, ma no, fino a lì non sembrava. Eppure quell’impresa di SV fu (quasi) l’ultima a farmi inginocchiare e smascellare. Semplicemente superbo. Ci furono condizioni particolari, è vero, ma diversamente non sarebbe stato possibile per Seb vincere una gara con una macchina tra le peggiori del gruppo – non si può forse dire lo stesso di Montecarlo 1984? E la vinse, anzi la dominò!, per davvero, non è stata una prestazione tipo Gasly/Ocon/Ricciardo di questi ultimi due anni in cui tutti i forti si sono suicidati in gara. Sbaragliò tutti sin da sabato e in gara fu, semplicemente, il più veloce in assoluto contro ogni pronostico!

 

Abu Dhabi 2012. Poteva mancare l’ineffabile Kimi? Di tante prestazioni eccezionali fatte dal 2003 al 2009 che pure avrebbero meritato l’inginocchiamento di prammatica fu quella di Abu Dhabi 2012 che me lo fece fare davvero. E ci fu anche quel team radio epocale a suggellare il coronamento di una carriera straordinaria con la vittoria inaspettata su una vettura decisamente inferiore a quelle dei team che si giocavano il mondiale.


E… no, con Max e Charles non mi è capitato di spellarmi le ginocchia: forse sono ormai “troppo vecchio per queste stronzate” (cit.) e, chissà?, l’elenco di cui sopra rimarrà invariato fino a che avrò ancora la capacità di divertirmi a guardare un GP.

Ora, per quel che mi riguarda, il solo fatto che Vettel faccia parte di questo mio, personalissimo, elenco me lo pone tra i grandissimi a prescindere. Vettel ERA un fenomeno. Strepitoso, secondo me, nelle annate 2009, 2012, 2015, 2017 e nel 2018 fino a Hockenheim, che fu spartiacque.

Se il 2009 avesse avuto il numero di gare odierne Button il mondiale se lo scordava a favore del nostro che fece un’annata epocale cui in pochi guardano con il dovuto occhio analitico, accecato dalla netta superiorità di Brawn GP mostrata fino a metà stagione e poi gestita (indubbiamente in modo magistrale da Button) fino alla fine. Ma Vettel fu meraviglioso.

Nel 2010, onestamente, non fu impeccabile così che il mondiale se lo ritrovò un po’ regalato dalla scellerata decisione Ferrari di marcare a uomo Webber in quell’ultima ferale gara di campionato. Tuttavia il merito di essersi trovato lì e di aver saputo condurre quella gara con calma olimpica non glie lo leva nessuno.

Nel 2011 e nel 2013 la superiorità del mezzo era netta ma su quel mezzo c’erano in due e Seb annichilì il pur ottimo teammate in modo impietoso.

Il 2012 fu altra annata strepitosa. Vero che anche allora il mezzo era superiore ma non così tanto e il cagnaccio Alonso stavolta non gli avrebbe fatto sconti. Tuttavia Seb fu semplicemente eccezionale, ancora una volta, proprio nell’ultima e decisiva gara in cui un incidente in partenza lo relegò nelle ultime posizioni. Non si perse d’animo e guidò da par suo per tutta la gara fino a raggiungere la posizione che gli avrebbe consentito la matematica vittoria.

Il 2014 fu annata di transizione: scoprì una vettura non competitiva (o almeno non tanto quanto sarebbe servito per lottare per il massimo titolo) e si perse d’animo facendosi mettere in ombra dal sorrisone di Daniel. Campanello d’allarme per i suoi tifosi e per gli appassionati: forse il carattere del nostro non rende giustizia ai suoi natali teutonici che lo stereotipo vorrebbe esser sempre dotato di immarcescibile freddezza esecutiva.

Il 2015 fu meraviglioso. Sembrava un bambino che giocava con il giocattolo da sempre desiderato.

2016 di nuovo transizione.

Nel 2017 si ritrovò a lottare per il massimo titolo ma gli sviluppi Ferrari di metà stagione furono troppo deludenti per potergli consentire di continuare a lottare.

Nel 2018 ancora a lottare per il mondiale, personalmente ritengo con qualche possibilità in più rispetto all’anno prima. Poi arrivò Hockenheim e qualcosa si ruppe.

Gli errori commessi poi furono dovuti, sempre secondo me, molto semplicemente al tentativo di andare oltre ai limiti della macchina per tentare il disperato recupero ma sono stati comunque l’inesorabile segno del suo spegnimento improvviso. Certo, ci furono i cerchioni bucati, gli sviluppi da gambero della Ferrari e un Lewis ad un livello stellare, apice della sua carriera in quanto a guida, quindi molto probabilmente Seb non sarebbe mai riuscito a vincere quel mondiale. Però la sensazione che l’interruttore sia andato su off l’hanno percepita tutti.

L’anno dopo, choccato da Leclerc (ma era già “spento”), avrebbe dovuto essere l’ultimo.

A carriera finita si possono tirare un po’ le fila.
Pilota velocissimo, sia in qualifica che in gara, grande affinità col muretto per avere una  gestione gara ottimale, con stile di guida mutuato (per quanto possibile) dal suo idolo Schumy che gli consentiva di dire la sua su qualsiasi tipo di pista, come tutti i grandissimi era estremamente efficace sul bagnato e spesso autore di grandi partenze. Quello stesso stile simile a MS gli faceva mangiare le gomme a più non posso ma era assecondato con straordinaria efficacia negli anni degli scarichi soffiati e lo faceva zoppicare un po’ nei cruciali 2017 e (soprattutto) 2018. Alcuni difetti non ne consentono la collocazione, secondo me, nell’olimpo. La mancanza di sensibilità in bagarre testimoniata, plasticamente e per converso, dalle poche eccezioni (end-of-2012) e una erratica quanto alle volte persino incomprensibile lunaticità (multi-21! e le boiate sparse qui e là di cui la più assurda è Baku) hanno rappresentato una zavorra di cui non si è mai liberato. A quest’ultimo punto si aggancia il suo difetto maggiore.
SV come è entrato in F1 così ne è uscito.
Cioè: dal 2008 al cruciale Hockenheim 2018 Seb è sempre stato identico a se stesso senza praticamente mai migliorarsi. Monza 08 a Hockenheim 18 (dopo non lo conto), dieci anni giusti giusti, la sua carriera non è stata una parabola, come si usa metaforicamente dire in questi casi, bensì una linea retta, piatta come la pianura padana da cui scrivo, sicuramente collocata molto in alto (inevitabile che sia così) ma pur sempre piatta. Ed in questo è stato radicalmente diverso sia dal suo idolo e mentore (il sempre-sia-lodato Schumy) che da altri dell’olimpo, che là stanno anche perché hanno saputo evolversi nel tempo della loro carriera migliorando i difetti, limando le intemperanze, trovando i necessari adattamenti e così via, per cercare di raggiungere quell’impossibile perfezione che noi tutti appassionati vorremmo vedere ad ogni giro di pista e che, a dirla tutta, è uno dei principali sottotesti allegorici di questo sport.
Curiosamente, sempre secondo me, condivide questo suo “grosso” (aggettivo moooolto relativo: stiamo pur sempre parlando di fenomeni) difetto con il suo acerrimo rivale Fernandino nostro il quale corre oggi esattamente nello stesso identico modo in cui correva ai tempi del suo debutto in Minardi (il che, a 41 anni suonati, sia beninteso, gli vale il più fragoroso dei plausi).
Ma non si rimane con l’amaro in bocca perché da quel che i media ci hanno trasmesso e per il poco che è trapelato delle sue vicende extra-paddock ne hanno fatto (e ne fanno! è ancora giovane!) una figura interessantissima, di rara intelligenza e squisita simpatia, capace di gesti significativi e affatto banali (diversamente dal suo amico-rivale LH che pur animato da condivisibilissimi e nobilissimi intenti appare assai confuso e sconclusionato nelle sue mosse da “influencer”) e, in definitiva, di una persona di quelle che ti piacerebbe conoscere anche se facesse l’idraulico a Codigoro.

Dunque niente amaro in bocca, come dicevo poc’anzi, ma una bel dessert, anzi, una torta piena di strati colorati e appetitosi, forse non perfettamente rotonda ma gustosissima.
Un caro saluto, Seb, e ad maiora.

 

Metrodoro il Teorematico

MIT INCONTRA MAURO FORGHIERI

Mors optima rapit

Virgilio

“La morte si porta via i migliori”

 

Pronunciare il suo nome oggi, che se n’è andato, mi provoca pensieri ed emozioni contrastanti.

Ma di una cosa sono sicuro. Mauro Forghieri è (stato?) una persona, un uomo, una figura importante e non solo per il mondo della Formula 1.

Solitamente si dice che quando viene a mancare una persona meritevole di grande stima siamo tutti più poveri.

Invece credo che quando si tratta di Mauro Forghieri sia più opportuno dire che siamo tutti più ricchi.

E in qualche modo sono felice, pur nella tristezza della perdita, che abbia vissuto una vita così lunga e intensa, per la passione e la genialità che ha profuso a piene mani a chiunque l’abbia conosciuto.

 

Non sono qui per fare cronistorie o agiografie. Di quelle ce n’è in abbondanza (si trovano svariati libri su Forghieri e di Forghieri) e so che le figure importanti non ne hanno bisogno.

Le figure importanti sono tali anche e soprattutto perché grazie a loro i fili dei nostri ricordi si annodano tra loro in modi impensabili e contribuiscono a creare la nostra personalità in modi che ci sorprendono.

Per questo sono importanti, no?

 

Della biografia professionale mi interessa, in questa sede, soltanto l’inizio: a soli 27 anni Ferrari lo nomina direttore tecnico del reparto corse, sia F1 che prototipi.

Basta questo per dire di Mauro Forghieri che nasce già padre, padre delle vetture che progetta e della squadra che dirige.

Un padre giovane e come tutti i padri giovani deve imparare sulla sua pelle tante cose in poco tempo, magari tra qualche buon viso a cattivo gioco e, why not?, cattivo viso a buon gioco. Sarà anche giovane e inesperto ma lui, lì, ci vuole rimanere.

E ci rimane, come ben sappiamo, nel migliore dei modi perché i risultati non mentono: tra piloti e costruttori la somma dà il numero 11 che in settant’anni di storia della F1 mi pare percentuale piuttosto significativa.

Personalmente l’ho incontrato due volte. Ed entrambe, le volte, curiosamente, in un bar.

La prima ero un microbo, un inverno imprecisato, forse l’80 o l’81. Di ritorno da un piccolo lavoro domenicale nella sede di un suo cliente mio padre mi volle con sé per aiutarlo con gli innumerevoli floppy disk e le fisarmoniche di stampe che al tempo erano imprescindibile bagaglio con cui trafficare se si sapeva di informatica. Ma era solo una scusa: la appena acquistata (a suon di cambiali e litigate con la mamma che non pensava avremmo potuto permettercela) Lancia Beta Trevi aveva bisogno di rodaggio! E mentre viaggiavamo io mi divertivo a pigiare i pulsanti di quel cruscotto fantascientifico.

La nebbia ci impedì di testare velocità e tenuta di strada ma poco male: ci sarebbe stato tempo. Ci fermammo così nel centro del paese della bassa modenese in cui ci trovavamo per entrare in un bar. Mio padre voleva prendere un caffè e mi disse di scegliere le paste da portare a casa per fare una sorpresa a mia madre e ai mie due fratelli più piccoli. Con il naso attaccato al banco per cercare di carpire gli odori della crema e dalla cioccolata non mi accorsi che mio padre si era messo a chiacchierare con una persona. Era proprio lui, il “Furia”. Era lì, con altre persone, forse suoi parenti? (ah! il ricordo è annebbiato come lo era quella giornata!) e mio padre lo riconobbe. Scambiarono alcuni convenevoli, suppongo complimenti, e poi mio padre me lo presentò:

lo sai chi è questo signore? è quello che fa la macchina di Gilles Villeneuve!

I miei occhi s’illuminarono immediatamente e cominciai a bombardare Forghieri di domande su Villeneuve: “ma è vero che è il più veloce del mondo? è il pilota più bravo del mondo? è il più velocissimissimo che vince tutte le gare? o è più forte Mario Andretti [che completava il trio dei miei idoli d’infanzia insieme a Niki Lauda]? ma se Mario Andretti viene alla Ferrari vince lui o Villnèv? la Ferrari fa i 270 o i 280?” e alla via così.

Mio padre sorrise e si scusò con Forghieri per la mia insistenza. Ma Forghieri, con gesto tipico che si fa con i bambini di quell’età, mi scompigliò i capelli e rispose:

sì, Villnèv è il più forte di tutti.” Scimmiottando la mia faticosa pronuncia del cognome dell’idolo.

Ricordo che uno di coloro che erano con lui lo rimbrottò in dialetto e disse [ricostruisco con approssimazione che spero mi perdonerete]: “ma va là veh, te’ vdrè quan ch’ l’riva al francès!” [vedrai quando arriverà il francese!] e Forghieri si rialzò rispondendo a sua volta in dialetto ma non capii oppure, più semplicemente, non mi ricordo. Però ricordo abbastanza distintamente che quel commento ci fu. E indubbiamente fu curioso, no? Di chi stavano parlando? Logica vorrebbe che si trattasse di Pironi (il periodo era quello) ma nel mio confuso ricordo qualche dubbio mi viene perché il tono non sembrava qualcosa di riferito alla Ferrari. Chissà. Forse stavano parlando di Prost?

Il mistero rimarrà tale.

Il mio immaginario di appassionato di Formula 1 non può prescindere da Mauro Forghieri. L’aver vissuto la sua carriera soprattutto da bambino l’ha elevato a figura quasi mitologica. Il genio che immagina qualcosa che altri non riescono a immaginare. Un moderno Dedalo, dedito al lavoro e alle passioni, capace di invenzioni al limite dell’umano Mauro Forghieri l’ho sempre dipinto nella mia mente come un campione della fantasia scientifica e tecnologica che però trovava applicazione immediata e concreta nelle piste su cui faceva correre le sue vetture.

La mia trimurti dei tecnici più geniali della storia della Formula 1 lo vede seduto allo stesso tavolo con Colin Chapman e Adrian Newey. Lo vedo a quel tavolo, il “Furia”, fare da anfitrione agli altri gesticolando davanti ad una zuppiera fumante di aromi appetitosi a far bella mostra di sé. Spiega la tecnica per fare i tortellini, il modo in cui la pasta si avvolge attorno al dito della ‘zdora con i lembi di pasta che infine si toccano a formare il bellissimo ed elegantissimo sacchettino che ne risulta. Continua la sua spiegazione, il “Furia”, con la leggenda che vi sta dietro e di come i suoi antenati, dispersi nella nebbia della pianura, non si accontentassero di attaccare tra loro dei rettangolini di pasta per esser mero contenitore del ripieno ma volevano che quel piatto di pasta fosse bello. E facevano correre l’immaginazione – lontano – lontano – lontano – fino a quei nomi di cui non avevano granché contezza, spersi nelle parole di questo o quel profesòr, decisero che se quella Venere era così bella come dicevano quelli là allora anche quel pezzetto di pasta lo sarebbe stato.

Perché tutti sono capaci di mettere un ripieno tra due pezzetti di pasta ma nessuno saprà farlo anche elegante e bellissimo, degno della più bella delle dee, anzi disegnato proprio su di lei. Bello, dunque. Anzi: bellissimo! proprio come l’ombelico di Venere!

Bello, sì, ma anche buono. Il più buono del mondo.

Ed eccolo lì, il Furia, a spiegare ai suoi commensali la storia dell’ombelico di Venere e a paragonarla alla storia delle Ferrari 312T. Spiega le idee, quel momento in cui, lo sapete no?, quello che ti balena in testa un’idea, e poi un’altra e poi un’altra ancora e non riesci a smettere più di pensarci e poi cominci a disegnare e a provare soluzioni l’una sull’altra, a migliorare quel particolare, quella presa d’aria, quell’alettone e poi ancora a pensare come si adatta il telaio, il motore, il cambio: quella volta lo volli trasversale, dice, ci stava proprio bene lì in mezzo!

E adesso vi dico una cosa, dice.

Anzi.

Adèss av’ deg un quèl

Vedete, dice, non basta che la 312T sia bella e veloce – deve anche vincere.

Perché quello là si sta anche un po’ stufando, sapete? È dal ‘64 che non vince.

Adèss av’ deg un elter quèl”

Con quella macchina, abbiamo vinto.

Chapman annuisce e commenta, fa domande, mangia tutto contento, sorpreso, meravigliato e appagato.

Adrian Newey invece è completamente immobile: il suo momento per parlare ed interagire con loro arriverà più avanti.

La seconda volta che incontrai Forghieri fu in centro a Bologna, anni 90, anche in quell’occasione profondo inverno, Senna se n’era andato da poco quindi forse fu proprio l’inverno del 94. Facevo lo spanizzo con la bella di turno ed entrammo in uno di quei bar eleganti del centro, praticamente sotto le due torri. Volevo fare l’elegante tombeur de femme e tra me e me stabilii che un tavolino di quelli piccoli ed eleganti nella saletta apposita ci avrebbe tenuti lontani dal farfuglio perennemente confuso dei bar intorno all’università che, ero sicuro, l’avrebbero distratta dalle mie chiacchiere. Ero ingenuamente convinto che in un tête-à-tête in quell’atmosfera elegante avrei potuto carpire meglio la sua attenzione. Di certo c’era che volevo a tutti i costi che quegli occhi guardassero soltanto i miei, senza farsi distrarre da quelli degli altri studenti.  (ah, beata gioventù! avere allora la consapevolezza di oggi! oh Metrodoro! ma non capivi che il solo fatto che avesse accettato il tuo invito era già quel segno che cercavi? stupido ingenuo!). Baldanzoso e aitante, libri sottobraccio e la bella al seguito entrai in quel bar come se ne fossi stato il padrone, al contempo studiando in un angolo della mia mente quali argomenti e quali parole avrebbero maggiormente affascinato “begli-occhi”. Il caldo improvviso che trovammo nel bar costrinse la bella al mio fianco a togliersi il pesante berretto di lana e l’ancor più pesante giaccone. Sapeva come vestirsi, begli-occhi, con l’attillato e lungo maglione di lana a disegnare la sua silhouette fino a formare una morbida e ben calcolata sorta di minigonna. Begli-occhi non aveva belli soltanto gli occhi, evidentemente, perché tutto il bar si girò a guardarla. Io, preso da un fremito che saliva direttamente dalle profondità ataviche di centinaia di migliaia di anni di evoluzione squadrai ogni volto, con espressione al contempo soddisfatta, come a dire che “sì, cari miei, costei è qui con me” e minacciosa, come a dire… be’ nulla! perché il mio appena accennato ma chiaramente percepibile animalesco digrigno dei denti non ammetteva alcun fraintendimento. Durò pochi istanti quel mio sguardo ferino perché tra i volti inebetiti dall’epifania di begli-occhi ne scorsi uno familiare. E in una frazione di secondo anche la mia espressione cambiò. Era proprio lui! Mauro Forghieri! il “Furia” in persona!

Ora, cari signori, mettetevi nei miei panni di quel freddo ma foriero di belle speranze pomeriggio bolognese: la bella o il Forghieri?

Be’, ça va sans dire: Forghieri!

Forse in quel momento immemore dell’incontro d’infanzia, lo “agganciai” e cominciai a tempestarlo di complimenti e di domande come se fossi stato ancora il microbo di tanti anni prima! Incurante del fatto che lui fosse insieme ad altre persone (peraltro il ricordo che si affaccia ora alla memoria mi fa vedere tanto il Furia quanto gli altri con lui vestiti piuttosto eleganti: chissà che occasione era) non mi resi conto che lo stavo pure infastidendo. Non ricordo le domande quanto le battute, inopportune, che feci: “E non le posso domandare della Ferrari, eh?” oppure “Non è che torna? perché Barnard dice dice ma alla fine sempre indietro stiamo!” oppure “E Alesi? Ne vincerà una?!” e amenità varie dello stesso genere. (a questo punto sono quasi sicuro che fosse l’inverno 94/95). Lui fu un po’ meno paziente rispetto al precedente incontro ma qualche parola la scambiò e tra un “grazie” e un “no ma vedrà che si rifaranno” riuscì infine a sganciarsi per tornare alla combriccola di elegantoni che ciarlava alto-vociante con gli aperitivi d’ordinanza tra le mani. Non mancai, prima che se ne andasse, di stringergli la mano con una certa verve, trattenendola per un tempo che leggi non scritte dell’educazione vogliono sconveniente, sperando che tramite quel formale contatto un poco del suo genio traslasse per qualche esoterica magia fin dentro di me.

È un peccato che al tempo i cellulari non ci fossero: sarebbe stata la ghiotta occasione per portarmi a casa un selfie con il Furia da ingigantire e piazzare ornato di cornice d’oro alla parete di ogni casa che abiterò fino alla fine dei miei giorni.

Begli-occhi! Per Giove! Me l’ero quasi dimenticata! E manco l’avevo presentata a Forghieri (che poi…)!

Ci sedemmo infine a quel tavolino che sino a pochi minuti prima ritenevo la rampa di lancio per dar concretezza alle mie romantiche aspirazioni ma non ci fu verso. Infatti, riempii l’ora successiva di tutte le meraviglie che Forghieri aveva creato. Tra un caffè e una B3, tra una pasta alla crema e i primi alettoni di Formula 1, un cioccolatino e la T4 a effetto suolo la poveretta si sorbì 20 anni di storia Ferrari con tanto di snocciolamento, cantilenando come idiot savant, di tutte le vittorie e mondiali conquistati dal Furia, eccitato più dall’incontro con la leggenda che dalla profondità dello sguardo di begli-occhi.

Stereotipi.

Modena, Ferrari, Tortellini.

Oh, che banalità, verrebbe da dire.

Eppure Mauro Forghieri li incarna pienamente, quegli stereotipi. Anzi, si può dire che ne è un pilastro fondante. È homo aemilianus, conio nemmeno tanto cacofonico, fino in fondo tanto che la sua definizione la si può disegnare sul “Furia” senza timore né di offendere né di sbagliare. Modena è stretta tra il Secchia e il Panaro, acqua che fluisce un po’ stanca e si dirama in mille rivoli, torrenti e canali a tramare la pianura con massa sufficiente per condensare, quando le temperature cominciano a calare, nella bianca oscurità della nebbia. La gravità acquosa del Po la fa inevitabilmente cadere nel centro d’attrazione degli Estensi che decidono di possederla, vedendo da non molto lontano che sotto la Ghirlandina avrebbero potuto trovare rifugio se le bellicose velleità di Veneziani e Papalini avessero infine stritolato la risplendente ma fragile Ferrara. E così fu, perché dopo tre secoli di morbido dominio Modena accolse la casata degli Este costretta a fuggire da Porta degli Angeli a causa delle ire dei papi-guerrieri di quel tempo. Ma se lo splendore rinascimentale di Ferrara si rintanerà sempre più nel buio delle soffocanti braci del tempo, per Modena invece comincia un percorso inedito e stupefacente. Le affinità ducatine tra le due città, acqua e nebbia, sono il brodo ideale in cui cuocere insieme i loro attributi storici. Arte, scienza e letteratura che a Ferrara splendevano protette dal maestoso incedere del Po approdano nello stretto delle anse convergenti, in similare protezione, di Secchia e Panaro e si mescolano con l’operosità meticolosa, la orgogliosa determinazione e la piacevole bonomia di una Modena che ancora stentava ad uscire dal medioevo.

Persino le parlate lo testimoniano.

Il dialetto modenese si ammorbidisce, importando lessico e qualche finezza dal ferrarese: basta di questo arrotondare le O e inclinare le A ed ecco che la parlata di quello si allunga. Le vocali infinite la fanno diventare franca e aperta e correre ritmata in una cantilena alle volte persino fastidiosa per chi non vi è abituato. Se vi chiedete dove sono finite le asprezze fonetiche e la pronuncia rude del medioevo modenese bisogna bussare alla porta dei cugini che stanno 25 kilometri più in là, quella delle “teste quadre”, eponimo che onomatopeizza spigoli e angoli che nel dialetto modenese non ci sono più già da qualche secolo.

E di questa gioiosa commistione Modena ne gode subito i frutti.

In tutte le culture i grandi poemi celebrano le epopee di eroi senza macchia e senza paura, in una celebrazione fatta di gloria che si vuole imperitura che narra aulicamente di destinali battaglie, viaggi immaginifici, mostri infernali e manufatti misteriosi. Invece lo sposalizio tra Ferrara e Modena sortisce il più grottesco degli aedi: Alessandro Tassoni. La celebrazione del glorioso passato viene filtrata dal Tassoni che usa questi occhiali neo-estensi per descrivere come fosse antica gloria la rivalità tra Modenesi e Bolognesi, tra burle, scherzi, gag, malintesi che girano intorno all’oggetto del contendere tra le due città. Non il vello d’oro, nessuna Durlindana, altro che nodi gordiani o labirinti minoici ma un semplicissimo e banalissimo oggetto di uso quotidiano: una secchia. La secchia rapita è il poema che poteva nascere solo qui. Impregnato com’è di satira e burla, pur mai troppo pesante o eccessiva, testimone privilegiato dell’animus  che muove gli abitanti di queste terre. Sì, ci sono anche le battaglie ma sembrano più scazzottate da bar che epici certami e in cui tutti i protagonisti finiscono per mangiare e gozzovigliare assieme, pur tra qualche intrigo e qualche figuraccia, quelle sì epocali. Non disdegna, il Tassoni, costrutti letterari anche sofisticati con rime ariostesche, qualche richiamo virgiliano e una strizzatina d’occhio al Tasso quali retaggio della bellezza che fuggiva dalle torri del Castello Estense. E sta pure bene attento, il cantore neo-estense, a non ridicolizzare troppo: satira ce n’è, eccome, ma la attenta lettura di quelle rime mostra come in fondo alla bonomia e al divertimento ci sia un limite che non si valica. La secchia sarà anche un pretesto ridicolo, se confrontato ai grandi poemi del passato, le battaglie non saranno così sanguinose come quelle dell’antichità e gli dei che vi assistono saranno anche poco rispettosi dei protagonisti ma quel rustico sbracciarsi intorno alla secchia è anche un segnale. State attenti, dice Tassoni, che se questi si menano così affannosamente per una semplice secchia forse potrebbero fare di peggio se in ballo ci fosse qualcosa di realmente prezioso. Ne emerge una sim-patia di fondo che trafigge il lettore attento con la rivelazione che si può essere bonari, comprensivi e anche un po’ zuzzurelloni ma l’ostinazione e la determinazione che si manifesta tra le righe è più dura del granito su cui si fonda il Duomo di Modena: se ci sbatti contro ti fai male, molto male.

Così, l’homo aemilianus prende definitivamente forma. Di lì in avanti è tutto un movimento, pacato e danzante al tempo stesso. Si ride e si studia. Si gigioneggia e si costruisce. Si danza e si inventa. E ci si ritrova sempre, pur se in mezzo alla nebbia che non limita lo sguardo altro che otticamente, come se ci fosse un filo invisibile la cui tensione prova la presenza del vicino. E poi quella nebbia è in realtà una immensa siepe di Leopardi, che permette di immaginare gli interminati spazi di là da quella con gli occhi della fantasia. Fantasia che, all’homo aemilianus, non manca di certo.

In questi luoghi e in questo clima nascono Enzo Ferrari e Mauro Forghieri uniti dalla stessa, ostinata, passione. Il primo con gli entusiasmi sempre più smussati dalle asprezze della sua vita ma implacabilmente determinato fino alla fine, il secondo ligio esecutore delle proprie idee e sempre pronto, a dispetto di ogni caduta a rialzarsi più entusiasta e determinato di prima. Ché solo così avrebbe potuto resistere alla corte del Drake per così tanto tempo e solo così avrebbe potuto ricavare dal suo genio le monoposto tra le più belle e vincenti della storia. E con tutti e due dovevi stare attento: se pensavi di fare la voce grossa con loro, magari andandogli contro con un po’ troppa foga, allora ti facevi male, molto male. Da che pensate che derivi il soprannome “Furia”?

 

Stereotipi.

Modena, Ferrari, Tortellini e pure la nebbia.

Dicevo.

 

Oh veh! Cal motàur lè an va minga bein acsè. ‘Sa fàmia ?!

 

[quel motore non va mica bene così. Cosa facciamo?!]

 

La risposta del Furia alla domanda del Drake è semplice:

stiamo qui e ci sbattiamo la testa sopra fino a che non lo facciamo andare come si deve.

 

Perché c’è un corollario a tutto il panegirico scritto prima sull’homo aemilianus allargando leggermente la geografia di base di tutto questo discorso a tutto quel lembo d’Italia che sta tra il Po e gli Appennini perché, in fondo, la rettilinea che il console Marco Emilio Lepido fece costruire 2200 anni fa per collegare Piacenza a Rimini affinché in quel tratto le comunicazioni viaggiassero il più veloci possibile è simbolo che in questo discorso non può non risaltare nel suo colore (ovviamente rosso) più acceso. Se quelli fanno i ravioli noi facciamo i tortellini, se quelli fanno un campanile noi lo facciamo più alto, se quelli vanno veloce allora noi andremo più veloci.

Noi andremo più veloci.

L’ho visto ancora, stavolta virtualmente, il Furia, in qualche bel video su Youtube, che raccontava storie tratte dalla sua lunga esperienza pungolato da Leo Turrini in veste di suo ideale cantore o tra vecchi compagni d’avventura. Lo vedi e lo ascolti e rivedi quelle storie. Ma vedi e rivedi anche i secoli passati di cui lui è fondamento e frutto stereotipico applicato alla Formula 1. La nebbia come slancio e non come ostacolo. La saggia capacità di sapere quando portare pazienza e quando no. La bonomia e l’ostinazione insieme che talvolta fanno luccicare, con un baluginio che si scorge appena, causa levigazione erosiva del tempo, un animo duro come il granito. E anche la sua infinita capacità di comprensione dell’animo umano.

D’altra parte fu lui, in quel pomeriggio giapponese di tanti anni fa, che capì prima e meglio di tutti perché Niki si ritirò. E la sua profonda e umana comprensione non poteva altro che sortire la ormai celeberrima domanda:

Non preoccuparti, Niki, dico alla stampa che hai avuto problemi elettrici?

La risposta di Lauda e i suoi perché, tuttavia, sono un’altra storia.

 

È morto Mauro Forghieri, dopo una lunga e intensa vita.

È morto Mauro Forghieri e mi vengono in mente le due volte che l’ho incontrato.

Come si vede non sono stati incontri epocali o particolarmente significativi.

Ma hanno significato per me.

È morto Mauro Forghieri e mi viene in mente mio padre. Quel giorno che, io bambino, me lo presentò, aveva occhi che brillavano della stessa, meravigliosa, luce di forza e consapevolezza. Luce che in Forghieri ha brillato fino all’ultimo istante e che in mio padre, invece, sta svanendo poco a poco a causa di quel morbo della vecchiaia così terribile da farmelo scrivere solo con la sua iniziale: A. Mentre scrivevo le righe di cui sopra l’ho chiamato, mio padre, per chiedergli se si ricordava in quale paese si svolse quell’incontro. Ma lui, di quell’incontro, non solo non se ne ricordava, menchemeno se si fosse svolto a Mirandola o a Nonantola che sono i luoghi che la mia annebbiata memoria mi suggerisce ma, per qualche agghiacciante istante, non si è ricordato nemmeno chi fossi io.

 

È singolare come un ricordo d’infanzia possa essere straordinario e gioioso e, al contempo, terribile e commovente.

 

È Morto Mauro Forghieri e mi viene in mente quel pomeriggio bolognese. A 22 anni si ha il mondo in mano, stereotipizzo ancora!, e quella volta fu scostante. Lo fu certamente per colpa mia e delle mie inopportune battute e insistenze ma mi piace pensare, in un impeto giovanilistico, che lo fosse stato anche per la malcelata invidia causata dalla vista della graziosa compagnia che mi portavo appresso. Perché, non si fosse capito, “begli-occhi” era così bella che quando camminava chiunque, uomo donna o bambino, si spostava per ammirarla mentre passava e su come proseguì quel pomeriggio lascio la (dovuta) suspense.

Qui il ricordo è fiero e anche un po’ divertente per le sue romantiche implicazioni.

 

 

È morto Mauro Forghieri e mi sono sorpreso a riflettere sui secoli di storia delle terre che l’hanno generato, creandolo simbolo ed eponimo di una passione sportiva in cui ha trasferito il carattere di un intero popolo.

Ci sono certe figure pubbliche, come Mauro Forghieri, che hanno valore di per sé e sono anche la punta (di purissimo diamante) di un movimento che si insinua, nel suo caso con forza e risultati, nella storia, quella con la S maiuscola. E, al contempo, scopro che il suo incarnare così profondamente l’homo aemilianus lo rende imprescindibile patrimonio personale, sì proprio così, personale!, di chi emiliano lo è perché lo aiuta a comprendere la complessità proteiforme della sua identità, plasmandone le avventurose gioie e ammorbidendone gli inevitabili dolori, e di chi invece emiliano non lo è affinché scorga nella sua simbolica figura uno dei tòpos principali che caratterizza non solo gli emiliani ma tutti gli abitanti di questa nostra amata penisola, ben più omogenei di quanto essi stessi credano. Che siano tutti, infine, capaci di essere quel padre giovane che si fa forza della storia in cui è immerso non per rimirarla con malinconica disperazione o per esibirla con stanca e vacua superbia agli occhi di un mondo affamato d’altro ma per guardare creativamente al futuro consapevoli che se ogni tanto si trova qualche intoppo, anziché stare a lamentarsi, stiamo qui e ci sbattiamo la testa sopra fino a che non lo facciamo andare come si deve.

 

E per questo che Mauro Forghieri, per ciò che è stato e per ciò che ha fatto e per ciò che ha rappresentato, ci ha reso tutti più ricchi. Non lo dimenticheremo e non dobbiamo lasciare che scompaia l’afflato simbolico del suo aver attraversato le nostre vite.

Io lo faccio così. Torno quel bambino che giocherellava con il futuristico cruscotto della Trevi e col petto gonfio, il sorriso soddisfatto e ampio e goffo gesticolare me ne faccio un gran vanto, ebbene sì care signore e cari signori!, mi faccio gran vanto di aver stretto la mano alla leggenda e, più indietro nel tempo, di essermi fatto scompigliare i capelli dal genio.

E infine…

Scopro che su quegli stessi capelli poggia un cappello ideale che mi voglio togliere.

Anzi, non un cappello ma un cappellino, di color rosso vivo e con l’effige di un cavallino rampante a far bella mostra di sé sopra la tesa.

Me lo tolgo con delicatezza e m’inchino per onorare, oggi, la straordinaria vita e il meraviglioso ingegno di Mauro Forghieri.

 

Con commosso ossequio.

 

Metrodoro il Teorematico

MIT’S CORNER: NIKI E LA PAUSA CAFFE’

Mi chiedono di contribuire al Blog e io volentieri mi accingo a scrivere quattro righe per dare qualche spunto di riflessione.

La mia prima difficoltà è stata chiedermi cosa diavolo avrei mai potuto scrivere per interessare gli appassionati che non fosse già nei report delle gare e le interessanti discussioni che si dipanavano nei commenti ai post.

E il foglio è rimasto bianco per un bel po’.

Sino a che non mi sono concentrato sul nome stesso del blog: nordschleife1976.

Un nome che per gli appassionati rappresenta l’evocazione più mitica, originaria, direi persino atavica dell’essenza di questo sport.

Già, perché non è (solo) la velocità a caratterizzare il girare di queste belle macchinine con gli alettoni intorno ad una pista. Così fosse sarebbe sufficiente una gara di dragster oppure i GP sarebbero solo degli infiniti Q1, Q2, Q3….Qn.

No.

Non è (solo) la velocità.

 

E’ la perfezione.

 

Ogni appassionato che anche una volta sola nella vita ha girato su una pista di go-kart se n’è accorto.

Non gli basta la velocità, per quanto emozionante sia.

Egli cerca la perfezione.

E la cerca negli angoli, nelle curve, negli assetti, nella tecnica, nei cordoli, nel motore, nelle traiettorie.

“alla fine del rettilineo freno un po’ più tardi, entro un po’ più largo in curva così esco stretto e faccio più veloce la chicane successiva – sono 2 decimi in meno al giro”

Dite la verità: l’avete pensato mille volte vero?

Anche alla rotonda in fondo a viale Cavour, quando non c’è nessuno (mi raccomando eh!): quella scalatina non necessaria, tutte e due le mani che tengono ben salda la presa sul volante, entri-esci dalla rotonda come fosse la variante Ascari e poi in tranquillità fino a Corso Garibaldi a 40 all’ora ma con un sorrisino stampato sul volto che solo voi potete capire.

 

 

Ad ogni modo, eccoci qui.

 

Il Niki Lauda del 1976 sembra un pilota perfetto.

Arriva da una stagione vincente. La macchina è vincente poi salta su quella nuova e continua a vincere.

Gestisce alla perfezione tutte le situazioni

“computer” lo chiamano e, nonostante la strenua resistenza di Hunt e Scheckter, la stagione sembra già indirizzata verso il bis del titolo.

Niki Lauda, infatti, si presenta al via del gran premio di Germania, da corrersi sulla mitica Nordschleife per l’appunto, con più di 30 punti di vantaggio sul secondo: un’infinità col sistema di punteggio di allora e con sole 6 gare al termine della stagione. Basta controllare gli avversari e il gioco è fatto.

 

La perfezione, però, non la si raggiunge mai.

 

Perché poi Lauda ha un incidente.

Anzi ha L’incidente.

Le immagini sgranate dell’epoca sono tuttora facilmente reperibili sul Tubo.

La macchina che sbanda pericolosamente per poi finire sui guard-rail con una fiammata.

Un paio di vorticosi testa-coda che proiettano la vettura di nuovo verso il centro della pista mentre il fuoco già la avvolge.

Il pilota rimane dentro, non esce. Un’altra vettura impatta spaventosamente contro l’inerme Ferrari di Lauda.

L’agghiacciante scena termina con il drammatico intervento degli altri piloti che si fermano e che riescono a estrarre il povero Niki dalle fiamme e a distenderlo lontano dal nugolo di fiamme e di schiuma disperata d’estintore che era diventata la sua macchina.

 

La perfezione, non è umanamente possibile.

 

Immaginarsi i rumori è facile – un po’ meno, forse, gli odori.

Mi immagino quella pista come un fiume di montagna, l’aria tersa che manda lampi frizzanti di acqua tumultuosa che al contempo si stempera nell’odore di resina dei boschi che incombono sulle sue rive.

L’incidente di Niki scuote l’idilliaco quadretto.

Corrompe il bouquet di effluvi balsamici della foresta con l’irruzione di acri e sferzanti odori della miscela di carburante che brucia intorno alle lamiere.

Ancora oggi, nonostante dell’incidente si sappia tutto, nonostante si conoscano gli esiti e tutto il resto della storia, lo scorrere dei fotogrammi rallenta, e con lui il respiro di chi guarda, che si blocca, infine, in quell’attimo di incertezza, tragica e sublime al tempo stesso, che ti confonde sulla sorte del pilota.

Il tutto si chiude con un piccolo sentore ferroso – gusto e non olfatto stavolta: mi sono morso l’interno della guancia un po’ troppo forte.

 

 

La perfezione, forse, è solo una tensione asintotica.

 

 

Ci hanno fatto pure un film su quella stagione.

(peraltro bello, considerando la difficoltà di sceneggiatura che tutte le storie di sport comportano quando le si vogliono mettere sul grande schermo)

Si può romanzare un poco quel che successe dopo l’incidente.

Sappiamo che la gara si annulla e si deve rifare.

Sappiamo che ripartono e c’è un altro nugolo di incidenti.

Sappiamo che ne esce vincitore Hunt davanti all’altro contendente al titolo Scheckter.

Sappiamo che mentre la gara si svolge Lauda viene trasportato in elicottero all’ospedale più vicino.

Sappiamo che i medici devono solo sperare: non l’impatto, non il fuoco, non le ustioni bensì i fumi infuocati respirati in quei tragici momenti sono il pericolo che più tiene sotto scacco il sistema respiratorio di Niki e con esso la sua vita.

Sappiamo che mentre Lauda lotta tra la vita e la morte a Maranello arriva una telefonata ferale: “difficilmente supererà la notte”

 

La perfezione è sempre appena oltre la portata del braccio teso per cercare di toccarla.

 

Quel che NON sappiamo è cosa è turbinato nella mente del vecchio Enzo. Perché sembra impietosa e cinica, la reazione del “Drake”, ma deve aver sentito anche lui, quel 1 Agosto 1976, l’irruzione dei fumi acri della T2 in fiamme giungere sino a Maranello a scompigliare l’afa sonnacchiosa del suo ufficio. Il suo vecchio naso conosce sin troppo bene quell’odore. Getta uno sguardo, tanto fugace quanto l’amaro sospiro che l’accompagna, alle foto appese al muro in diverse file, ognuna corredata di due date di cui la seconda appare sempre troppo prossima alla prima. Vede che c’è ancora spazio in quella parete e dopo aver scosso sconsolatamente la testa si abbandona alla mesta abitudine a questi scenari che solo lui può comprendere. Questo, e non altro, muove il successivo comando che spinge un piccolo nugolo di impiegati a scandagliare rubriche telefoniche e schedari pieni di fogli di carta nella febbrile ricerca del numero di telefono di Carlos Reutemann.

 

Perfezione deriva dal latino “per-fectus”, participio di “per-ficere”: compiere, completare, finire.

 

Usciamo dalle romanzate angustie del “Drake”, rimettiamo il rullo sul proiettore e andiamo avanti veloce.

Lauda NON muore.

Anzi, perde solo due gare e con ancora le bende sanguinanti a coprigli il capo indossa il casco già a Monza.  Si attacca coi denti al campionato. Il vantaggio si è di molto assottigliato ma è ancora davanti. James Hunt sta facendo il campionato della vita, l’occasione è unica e non se la sta facendo sfuggire.

Hunt vince tre gare ma Lauda raccatta un po’ di punti qui e là e prima dell’ultima gara, in Giappone circuito del Fuji, si ritrova sorprendentemente ancora in testa alla classifica con 3 punti di vantaggio.

Ed eccoci di nuovo qui, come alla partenza del Nurburgring: basta controllare un poco la corsa e il gioco è fatto.

Però da quando è tornato tutto ha un sapore strano. Credeva che tutti l’avrebbero aiutato ed esaltato, e la stampa lo fa subito, ma in squadra i visi hanno espressioni indecifrabili. Clay, senza rinnovo, intravedeva forse la possibilità di rientrare, come s’usa dire, dalla finestra e Reutemann aveva accettato l’ingaggio da Monza in avanti purché si fosse d’accordo anche per la stagione 77. Ma il ritorno di Lauda ha scombinato tutto.

Sembra quasi che Niki sia fuori posto nel senso più letterale: lui non dovrebbe essere lì.

Ma c’è, come ci sono i 3 punti di vantaggio.

Quel che non c’è sono gli alleati, la squadra appare confusa e lui non si fida poi così tanto vista la fretta con cui si sono mossi per sostituirlo quando era in ospedale. Gli altri nel paddock lo guardano strano e nonostante tutto quel che ha fatto per tornare sembrano tifare per James Hunt, idolo delle folle e delle ragazzine, personaggio spettacolare ben più del freddo, “computer”, Niki Lauda. Anche la stampa gli volta le spalle: dopo gli inevitabili panegirici del suo rientro a Monza sembrano un po’ tutti interdetti perché nelle interviste fa apparire normale, invece che eroico, il suo atteggiamento. Le omeriche concioni che hanno narrato le sue gesta brianzole sono sfumate via via in perplessi, disillusi e financo scostanti articoli che sembrano raccontare di un impiegato che va al lavoro di mercoledì che non di un Achille che si appresta a sfondare le mura di Troia. Così non va bene, pensano tutti senza dirlo.

Si ritrova senza alleati tranne uno.

Mario “piedone” Andretti da qualche gara sembra più convinto, più costante, più veloce e porta il muso della sua Lotus JPS là davanti più spesso di quanto ci si aspetti. L’espressione del campione italo-americano è di quelle che non fanno sconti. Dopo tante stagioni a correre di qua e di là dall’oceano, spizzicando la Formula 1 come se fosse il boccettino dei salatini di un cocktail-bar, questa volta decide di fare sul serio. Forse sa che la mente di quel geniaccio di Chapman ha già in mente uno sviluppo sorprendente e vuole tenere ben saldo il posto. Quindi lì in Giappone decide che non ce n’è per nessuno. Tutte le sessioni davanti, pole position e sembra dire che del campionato degli altri non glie ne frega nulla: “io vinco, poi vedetevela voi”.

Niki lo scorge, lo annusa, lo vede sicuro e si compiace dei numeri che vede sui cronometri. Poi vede che Hunt inizia le sessioni col “braccino” e anche se alla fine delle qualifiche riesce a piazzare la sua McLaren tra lui e Andretti non si preoccupa: se la bocca di Hunt sorride i suoi occhi no. Ha paura.

A questo punto il piano è fatto. Il “computer” disegna nella sua mente tutto lo svolgimento della gara: parto senza affanni e lo marco stretto. Il Piedone là davanti piuttosto che farlo passare lo butta fuori e quindi lui sarà costretto ad accodarsi. Io mi accodo a mia volta e lo tengo sotto pressione così Andretti andrà via. Clay parte troppo dietro e non mi darà problemi, devo solo stare attento che Scheckter non faccia qualche pazzia delle sue e vinco il mondiale.

Poi viene giù il diluvio.

 

 

Perfezione, dicevamo, è ciò che porta al compimento, al completamento, alla fine ma “fine” significa anche obiettivo, meta, scopo.

 

 

La piccola cittadina di Nurburg è sovrastata da un’alta collina sulla cui cima si trova un antico castello le cui vestigia dominano non solo la cittadina ma anche il circuito da cui siamo partiti e che da il nome a questo sito. L’epoca della sua costruzione non è certa e si pensa che risalga almeno all’epoca delle sue prime citazioni che gli storici hanno rinvenuto in un documento di nomina imperiale di tale Conte Ullrich e di suo padre, conte Teodorico di Are che si suppone abbia ordinato, per l’appunto, la costruzione del castello. Teodorico di Are era nipote di Odone di Toul, vescovo/conte/condottiero, figura dai contorni sfumati, di difficile collocazione biografica di cui però si sa aver reclamato per sé e per i suoi sodali vescovi di Metz e di Treviri,  la regione di Are. L’istituzione della regione, nesso imprescindibile per poterne reclamare il governo e tramandarne il titolo alla discendenza, avvenne con bolla imperiale in un anno imprecisato tra il 1052 e il 1065 nientepopodimeno che dall’imperatore del Sacro Romano Impero Enrico IV.

Sì, proprio lui, quello che qualche anno dopo fu costretto ad andare a piedi a Canossa a umiliarsi davanti a Matilde per ottenere la revoca della scomunica.

Mi piace pensare, giocando di fantasia, che in questo tortuoso richiamo di riferimenti storici e geografici Enrico IV, nella sua lunga e penitenziale camminata dalla Germani a Canossa, sia passato per Maranello (in fondo non è improbabile: anche allora il Brennero era imprescindibile punto di accesso all’Italia) e qui abbia brevemente sostato per bere un sorso d’acqua, magari presa da un pozzo che mai si sarebbe immaginato essere giusto sotto l’ufficio che nove secoli dopo sarà di Enzo Ferrari.

Tre giorni ha dovuto penare Enrico IV, prima che Matilde gli desse udienza. Umiliazione talmente grande che passerà alla storia anche come idiomatico modo di dire.

E mi piace pensare che Niki Lauda, quel giorno sotto il diluvio, stesse pensando a qualcosa di simile all’umiliazione di Enrico IV. Avrebbe vinto il mondiale e tutti coloro che non ci avevano creduto, tutti coloro che l’avevano dato per morto, che non lo volevano più in Formula 1, che non gli hanno dato neanche il beneficio d’inventario di vedere il suo corpo in una bara, tutti ma proprio tutti avrebbero dovuto prostrarsi ai suoi piedi e chiedergli perdono.

Venite pure a Canossa, infedeli che non siete altro!, voi della squadra, voi del paddock, voi giornalisti e vieni anche tu, Enzo, che già stavi cercando chiodi e martello per mettere la mia foto su quella parete là.

Venite a inginocchiarvi davanti a me, mentre inforco il gommone di alloro che mi proclama campione del mondo.

Venite.

 

Sarà il finale perfetto per questa stagione. Perfectus

 

Ma.

 

La paura di vincere che aveva scorto negli occhi di James, contraltare disperato al suo sorriso larger-than-life che tanto faceva impazzire le ragazze, se la vide comparire specchiata dalla visiera del suo stesso casco, accompagnata da qualcosa di ancora più profondo e atavico.

La paura della morte.

 

Niki parte male, nel diluvio.

Non vede nulla e non capisce più nulla. La paura non è più quella del brivido della velocità, quella la sa gestire. No. Quello è terrore, timor panico e, in definitiva, la paura che il destino che aveva schivato al Nurburgring stia per pararsi innanzi a lui sotto la beffarda forma di una bandiera a scacchi definitiva. Il compimento, il completamento, la fine della sua vita era lì davanti a lui, pronta a manifestarsi ad ogni scintillio delle candele del suo 12 cilindri a V.

 

Cosa è perfetto? Cosa è Per-fectus? La fine?

 

Tutto è cominciato con una imperfezione: la sbandata al Nurburgring che ha generato l’incidente.

Ma continua, Niki, con l’imperfezione: non muore. Doveva morire, tutti si aspettavano che morisse, la perfezione, ossia il compimento di quanto accaduto con l’incidente, proprio quello richiedeva ma lui non muore. E’ ancora lì.

E continua ancora: doveva stare a casa, riposarsi e riprendersi. Ma lui no, ritorna in fretta. Persino il riposo è imperfetto.

E poi ancora più imperfetto: si presenta al via dell’ultimo GP in testa alla classifica ma lui non doveva essere lì.

Imperfetto, poi, è il suo atteggiamento: no, signori, no. Non c’è nessun eroismo in quel che faccio. Sto facendo solo il mio lavoro.

E se perfezione significa portare tutto a compimento e completamento allora sapete che faccio? Sarò, ancora una volta, imperfetto.

Sarò imperfetto esattamente come lo sono stato quando ho sbandato al Nurburgring prima di stamparmi contro il guardrail.

L’ho sbagliata, quella S, sì. L’ho sbagliata, sono stato imperfetto.

Sono passati solo 2 giri, mi fermo, chissenefrega, bravo James se tira dritto fino in fondo e vince, mi fermo, non ne ho bisogno, chi me lo fa fare? Mi fermo subito, andate avanti voi, poi saluto tutti.

 

(c’è poi un uomo, anzi un Uomo, che quando vede fermarsi la Ferrari numero 1 ai box capisce tutto subito)

 

“diciamo che è un problema elettrico, ok?”

“no, Mauro, va bene così, ci vediamo mercoledì in ufficio che mi offri il caffè”

 

Scorrendo la classifica dei primi  otto arrivati al Nurburgring 1976 si vede che cinque sono morti prematuramente:

James Hunt, divorato dai suoi fantasmi, viene trovato morto in casa nel 1993 a 45 anni

Carlos Pace, in un incidente su un aereo privato, nel 1977 a 32 anni.

Gunnar Nilsson, portato via da un male incurabile, nel 1978 a 29 anni.

Rolf Stommelen, un grave incidente in gara prototipi, nel 1983 a 39 anni.

Tom Pryce, un orribile incidente a Kyalami, nel 1977 a 27 anni

 

Scorrendo la classifica dei primi otto arrivati a Fuji 1976, oltre a Hunt e Nilsson vediamo anche:

Patrick Depailler, perito in un grave incidente nel 1980 a 35 anni

 

Pure Clay Regazzoni compare nelle due classifiche: un incidente a Long Beach nel 1980 lo rende paraplegico per il resto della sua vita conclusasi, ironia del destino, con un incidente in autostrada, nel 2006.

 

Per-fectus non è la fine, è IL fine: portare a casa la pellaccia.

Giochiamo con il destino dentro quei circuiti ma la vita non è un gioco. Tutti gli sport si prestano a metafore ove vittoria=vita e sconfitta=morte ma dopo ogni partita si ricomincia. Nella Formula 1, purtroppo e troppo spesso, quella metafora perde il suo senso retorico e si tramuta in qualcosa di reale. La ricerca della perfezione è il suo fascino più grande perché confina, spaventosamente, con la linea più estrema di tutte.

Mentiremmo a noi stessi se non sapessimo che nel profondo è questo tipo di perfezione che cerchiamo quando, ogni domenica in ogni circuito, ci sediamo nella monoposto insieme ai piloti. Vorremmo provare le loro stesse emozioni, giriamo un volante ideale, nell’aria, disegnando quella curva nel miglior modo possibile, sentiamo il piede sinistro avere un fremito prima della staccata durante un camera car. La cerchiamo anche noi, quella perfezione. Ma quella perfezione è anche il limite da non toccare mai.

 

Ce lo ha insegnato Niki: se lo tocchi ti bruci.

Letteralmente.

Meglio essere un po’ imperfetti.

In tutti i sensi.

 

Almeno…

 

… se vuoi avere qualcosa da raccontare mercoledì prossimo, in ufficio, davanti a un caffè.

 

Metrodoro il Teorematico

Life is racing, all the rest is waiting