Miracolo a Tertre Rouge

Da giovane -parecchio giovane- non sempre tutto è chiaro.
Certe cose però lo sono al primo impatto. E lo sono talmente tanto che finisci per ricordarle benissimo a distanza di anni o, come in questo caso, decenni.
L’estrema velocità, unita ad un design sobrio e pulito, soprattutto se contrapposto a quello che proponeva la concorrenza, dove generose superfici alari -ancorchè perfettamente integrate nel corpo vettura- la facevano da padrone, impattarono così significativamente sulla giovane mente del sottoscritto da farmela eleggere immediatamente e definitivamente come mia supercar favorita ogni tempo.
Non trovando miglior modo di passare il tempo a causa di un ritardo aereo, quattro tizi si misero in testa di concepire, progettare ed infine creare quella che nelle loro intenzioni doveva semplicemente essere “the Finest’s driver car in the world”. Può essere che si sottovalutassero, o, essendo un’opera prima e non essendo ben consci di quale sfida si fossero posti preferirono andarci cauti. Più semplicemente può essere che lo pensassero pure, ma non avevano gran voglia di far la figura dei gradassi -la prospettiva di un clamoroso buco nell’acqua era lì ad ammonirli in questo senso-. Nei fatti, a distanza di anni, quello che scaturì da quel breve conciliabolo non solo riuscì a mantenere le promesse; fissò semplicemente nuovi standard nel campo. Anche se ancora non potevano saperlo, stavano dando vita a quella che sarebbe diventata una pietra miliare dell’automobilismo sportivo mondiale.
All’epoca mi accontentavo di sapere che era l’auto stradale più veloce di sempre ed anche la più bella che avessi visto fino ad allora.
Mi ero affacciato da qualche anno al mondo della Formula 1, avevo sentito qualcosa riguardo ad una strana competizione chiamata DTM, a causa (o come conseguenza) del fatto che la mitica 155 era andata a dettar legge fin su in Germania.
Ebbene, ebbi un discreto sussulto quando seppi, tramite uno dei vari magazines televisivi che passavano alla tele, che la MIA supercar preferita aveva vinto una delle corse più prestigiose dell’intero panorama mondiale. Al tempo sapevo poco o nulla della corsa, mi facevo domande su come si potesse guidare per 24 ore ininterrottamente, senza che qualcuno mi desse le risposte che cercavo. Si sà, non sempre tutto è chiaro al primo colpo…
Anni e parecchi GP e corse di vario genere dopo, mi trovavo di sabato mattina dal mio edicolante di fiducia. Era Sabato, ed ero lì per la copia della Gazza con SportWeek d’ordinanza. Col giornale in mano mi misi a dare una sbirciata allo scaffale delle riviste. Tra un Gibson Les Paul in copertina ed un modello che ti ammoniva che se avessi letto quello che c’era all’interno della rivista avresti avuto i suoi addominali in soli sette giorni e senza fatica -se aspettano me a diventare sette anni è un attimo…- vidi Lei. Evo aveva deciso che quel sabato doveva essere il mio giorno fortunato, e, contestualmente al fatto che ricorreva il 20° anniversario dalla sua presentazione al mondo intero, mi regalò uno speciale con dentro tutto quello che volevo sapare ma non avrei mai osato chiedere su quella vettura che aveva scatenato le mie fantasie di ragazzino amante delle auto più veloci e costose che mente umana avesse concepito. Presi al volo una copia, mi fiondai a casa e, in assoluto e religioso silenzio iniziai a sfogliare avidamente la carta patinata, cercando di mandare a memoria ogni singola lettera che leggevo.
Gordon Murray aveva siglato un contratto con Ron Dennis e la sua scuderia, promettendo a Ron (ma soprattutto a se stesso), che non si sarebbe trattenuto un giorno oltre quella durata a disegnare macchine che vincevano -dominavano è forse più corretto- la Formula 1 di quegli anni. Più o meno verso la metà dei tre anni, il progettista si trovava a dover aspettare un aereo in ritardo assorto coi suoi pensieri, su cosa avrebbe combinato dopo quel termine che poco tempo prima aveva fissato con tanta sicumera e che adesso si avvicinava alla velocità della MP4/4 da lui disegnata. Per Dennis la visione era chiara: doveva entrare nel mondo dei costruttori di stradali e, per concretizzare la sua idea, aveva individuato in Murray stesso la persona che cercava.
Il progettista accettò senza riserve, e si mise a lavorare, partendo da un foglio che probabilmente non era mai stato così bianco nel mondo dell’automotive. Il compromesso che aveva individuato nel suo progetto non doveva avere concessioni al lato racing. Per quanto dovesse essere una supercar ad altissime prestazioni, doveva esser dotata di tutti i comfort possibili in fatto di design degli interni, aria condizionata bagaglio etc. Trasmise le sue idee, considerazioni ed appunti al gruppo di progettisti che aveva assemblato per aiutarlo nell’opera in una riunione singola della durata di 10 ore e mezza al nuovo quartier generale McLaren.
Però. Però è sempre uno che ha disegnato macchine da corsa, quello è il suo background e quello è ciò che sa fare meglio. Per quanto si promise di mantenere la testa sgombra da contaminazioni corsaiole, se si da un’occhiata più profonda alla geometria delle sospensioni, alla distribuzione dei pesi, ed al fatto che quella che stava vedendo la luce era la prima auto stradale ad effetto suolo che la storia ricordi, si vede come la sua creatura ne sia permeata. Spinta da un poderoso 12 cilindri Bmw nel quale gli ingegneri bavaresi misero tutta la maestria di cui erano capaci, Sua Maestà McLaren F1 era pronta per essere rivelata al mondo intero. Per la presentazione scelsero la cornice del principato di Monaco, durante i giorni del GP. Quale miglior posto per dimostrare al mondo il loro costosissimo pezzo di bravura.
Il bersaglio era centrato e disintegrato, avevano creato l’instant classic che probabilmente manco loro si erano sognati nelle fasi preliminari del progetto. Mancava qualcosa però. Un’affermazione in una corsa importante, che ne avrebbe certificato il pedigree di pure racer e che l’avrebbe promossa a Signora della Velocità su ruote. Sfoglio la rivista pagina per pagina, leggo paragrafo per paragrafo tutti i dati e le sensazioni di chi l’aveva guidata, guardo con attenzione le tavole originali del designer, nelle quale è ben evidente la cura maniacale messa nel progetto -il design pulito è funzionale tanto alla meccanica quanto all’aerodinamica in una maniera che onestamente mai mi sarei sognato-. C’è la prova in pista di un esemplare in versione Gtr che appartene a Mason, al quale il batterista dei Floyd ha anche  fatto apportare delle modifiche. Quando penso di essere arrivato alla fine dello speciale -devo aver letto non meno di 12 pagine-, c’è l’ultimo grande, grosso, insperato ed a quel punto francamente inaspettato regalo che mi fa Evo. Livrea Nera, numero 59, sponsorizzata Ueno Clinic.  E’ lei. La macchina che contro ogni pronostico è riuscita a vincere la 24 ore di Le Mans alla prima partecipazione.
C’è materiale a sufficienza per tirare fuori da quel mezzo miracolo di ingegneria un capolavoro pronto a vincere gare. Murray e soci si rimettono a lavoro, cercando di adattare il layout dell’abitacolo, le sospensioni, l’aerodinamica e quant’altro possa servire in ambito racing alla macchina. Soprattutto il motore viene depotenziato per rientrare nei regolamenti. Il primo esemplare race ready viene portato a Silverstone; la soddisfazione è tanta. Anche se c’è ovviamente da lavorare la macchina dimostra da subito indubbie doti velocistiche. Ron Dennis decide però tanto deliberatamente quanto pragmaticamente di supportare nel minor modo possibile un programma corse orientato all’attacco della 24 ore sul Circuit de la Sarthe che sarebbe sfociato in fallimento certo, vista la differenza enorme di performances tra le GT ed i prototipi. Da il suo assenso ad un solo test di 24 ore sul circuito di Magny Cours, dove chi ha intenzione di correre con la F1 può studiarne il comportamento ed i punti deboli in una competizione di durata. La macchina usata per la prova è di proprietà di McLaren stessa e per lei non è previsto nessun impiego in corsa. Disponendo però del budget messo a disposizione di una clinica cosmetica giapponese -Ueno Clinic- un ristretto nucleo di ingegneri della casa coadiuvati da tecnici che avevano esperienza in fatto di corse di durata, iscrive la vettura alla classica francese. A Graham Humphrys il compito di coordinare il lavoro del gruppo.
Yannick Dalmas, JJ Letho e Masanori Sekiya vengono scelti come piloti. Durante le prove il velocissimo Letho spinge il Bmw inavvertitamente oltre i 9000 giri. Per gli ingegneri tedeschi superata quella quota il motore è da considerarsi compromesso e quindi da sostituire. Graham ricorda di aver chiamato Ron Dennis, il quale, ascoltatolo con attenzione, dice che prima di usare quel motore deve ricevere il benestare degli altri teams che corrono sulla vettura inglese. L’assenso arriva ed i meccanici del team di Humphrys fanno tarda notte per cambiare il propulsore.  Si fanno addirittura aiutare da spettatori evidentemente ubriachi per spingere la vettura verso una aviosuperficie vicino al circuito in modo da fare una sorta di installation lap.La 59 è di nuovo pronta a dare battaglia   Il mattino della gara Dalmas e Sekiya notano un indurimento del cambio nella scalata dalla 4° alla 3°. Graham chiama l’uomo che ha progettato la trasmissione chiedendo se può aprirla per dare una controllata. Il tizio sulle prime si rifiuta dicendo che quel cambio, essendo stato da lui progettato, non può soffrire di alcun problema; gli animi si scaldano ma alla fine il tecnico cede alle richieste del caposquadra. E fa bene. In quelle condizioni la trasmissione avrebbe retto si e no alla prima ora di gara.
Alla partenza, come da pronostico i prototipi vanno in fuga, senza che si riesca a contrastarli efficacemente
Durante la corsa i piloti evidenziano come il cambio abbia delle incertezze man mano che la gara avanza. Per come è progettata, la scatola raccoglie detriti e fanghiglia che forma, col lubrificante del cambio stesso, una specie di colla che ne compromette il corretto funzionamento. Non sapendo bene come comportarsi, ai pit stop Humphrys non trova di meglio da fare che pompare nel particolare generosissime quantità di WD40. Funziona. E lo fa talmente bene che tutti gli altri concorrenti in Mecca iniziano ad adottare lo stesso accorgimento.
Sul circuito cala la notte e con essa arriva anche la pioggia. Se è vero che su asciutto la F1 non può nulla contro i prototipi, in condizioni di pista bagnata la situazione si capovolge. Gli stint notturni vengono fatti da JJ Letho; in quella notte terribile arriva, in qualche caso, a girare 30 secondi (!?!?) più forte della concorrenza. A Tertre Rouge la differenza del finnico sui suoi rivali assume quasi i toni dell’imbarazzo:
“Where others would tiptoe through, right foot audibly hovering on the throttle pedal, JJ would spear into view then dance the F1 through the fast right-hander, hard on the power, revs rising as that mighty, rasping BMW V12 span the rear wheels, then the note hardening as JJ’s quick, adrenalin-fuelled wits applied just enough corrective lock to balance but not wholly correct the slide. It was by any yardstick one of motor racing’s greatest drives.” così Richard Meaden, redattore dell’articolo e presente sul campo di gara, descrive la danza del pilota finnico in quella che ancora oggi viene considerato uno dei punti più selettivi del tracciato francese.
Dalmas taglia il traguardo con lo sportello alzato, la McLaren F1 è ufficialmente nella leggenda del motorsport. E nei sogni di un giovanotto amante delle auto veloci.
Cliff