L’insostenibile leggerezza delle gerarchie porpora

Gli anni de Il Maestro e dei discepoli
Per Enzo Ferrari non ci possono essere compromessi.
Lui è stato un pilota anche se dalle fortune alterne ma sa benissimo che cosa passa per la testa di chi sta correndo al massimo consentito dal mezzo che conduce.
E sa meglio di chiunque altro che il primo dei tuoi avversari è proprio il pilota che condivide la tua stessa vettura.
La sua regola d’oro è che non ci siano prime o seconde guide per contratto e arriva a mostrare a Musso le schede di coppia dei suoi propulsori a Reims nel 1957 di fronte ai sospetti del romano che il Drake favorisse Hawthorn.
Niente è stabilito finché un pilota non ha concrete possibilità di vittoria finale.
Niente viene detto a Collins a Silverstone nel 1958 quando Peter soffia una vittoria fondamentale in ottica mondiale per Mike.
Niente ordini a Monza nel 1956 quando Castellotti e Musso impegnati in una folle sfida letteralmente stracciano gli pneumatici per primeggiare l’uno sull’altro.
L’equilibrio si rompe clamorosamente solo con Fangio che ottiene uno stipendio fisso di un milione di Lire al mese (che all’epoca erano fior fiore di quattrini) più i premi accessori e il ruolo di primadonna nella scuderia.
Pare anzi che alla base del mancato rinnovo de Il Maestro con Ferrari nel 1957 ci fosse proprio lo status economico e privilegiato che il commendatore non voleva ripetere.
A Ferrari questo costerà il mondiale piloti del 1957.
A Maserati, che lo strappa da Maranello, probabilmente il futuro in F1.
Ma questa è un’altra storia.
Negli albori della Formula 1 in Ferrari i piloti guadagnano in base agli ingaggi che il Drake ottiene per la partecipazione delle sue monoposto ai vari Gran Premi.
Da un milione di Lire a monoposto, fino a due nei Gran Premi più prestigiosi.
Ai piloti va il cinquanta percento dell’ingaggio e altrettanto dei premi vinti in base alla classifica di arrivo.
Niente è fisso.
O garantito.
Questo ha un ben preciso impatto su eventuali ordini di scuderia.
Chiedere ad un pilota di rinunciare ad una posizione in gara a favore di un suo collega non significa solo chiedergli di ingoiare il suo orgoglio.
Significa chiedergli di rinunciare in prima persona a degli introiti.
Il 1958 vede una sfida serrata fra Hawthorn e Moss e alla gara decisiva in Marocco a Phil Hill viene ufficialmente chiesto di non intralciare il leader ferrarista.
Allo Statunitense viene garantito il contratto per la stagione 1959 in cambio e, di fatto, cede la posizione all’Inglese che, con la seconda piazza guadagnata sul circuito di Ain Diab, diventa campione del mondo.
Hill riceverà aiuto solo tre anni dopo da parte di von Trips con la garanzia di non intralciarlo.
Nonostante il Tedesco fosse in piena lotta per il titolo mondiale.
Nel 1964 Surtees riceve un insperato aiuto da Bandini nella sua lotta testa a testa con Graham Hill.
Interventi spesso spontanei da parte dei protagonisti stessi.
Più dettati da una forma di cavalleria o di attaccamento alla Scuderia che vere e proprie prese di posizione della direzione sportiva in gara.
La Scuderia interviene solo quando un pilota ha apertamente possibilità di vittoria; niente ad eccezione del 1956 con Fangio, è stabilito a tavolino o a priori.

I piloti come dipendenti
Un cambio di passo si registra con l’introduzione dei contratti stagionali e con la modifica dello status del pilota.
Non più imprenditore delle proprie fortune in base alle posizioni che egli riesce a guadagnare in pista ma vero e proprio dipendente e meccanismo inserito nell’organigramma aziendale.
Una risorsa a disposizione dell’azienda come può essere un ingegnere addetto alla progettazione dei propulsori o un tecnico che cura la tenuta e la pressione degli pneumatici.
Sono gli anni settanta e ottanta.
Ma anche in questo periodo il cavaliere è refrattario a imporre un ben chiaro indirizzo nella corsa al titolo a priori.
Anche se non perde il vizio di instillare fra di essi una serpeggiante competizione, spesso lasciata distrattamente cadere nel bel mezzo delle discussioni come ama fare da sempre.
Con l’unica eccezione di Jody Scheckter e Gilles Villeneuve anche se in questo caso il carattere e lo stretto rapporto che si instaura fra i due alfieri (rapporto che ricorda moltissimo quello di cameratismo fraterno fra Peter Collins e Mike Hawthorn) gioca un ruolo ben più preponderante che non i desiderata di Enzo Ferrari.
Anzi proprio l’ostinata mancanza di ruoli ben definiti (insieme probabilmente al più colossale caso di malcomprensione della storia della Formula 1) pare sia alla base dell’ennesima tragedia che colpisce Maranello nel 1982.
Il materiale fornito ai propri alfieri è sempre il meglio di quanto Maranello sia in grado di sfornare e quando un pilota ha doti di lucidità ingegneristica assolute, come capita quando il cavaliere  mette sotto contratto Niki Lauda, le indicazioni di sviluppo vengono condivise sulle monoposto rosse in egual misura.
In questi anni i piloti diventano progressivamente asset aziendali e questa trasformazione non riguarda la sola Maranello.
E’ un cambiamento di passo almeno altrettanto grande dell’avvento delle sponsorizzazioni e della visibilità globale che la massima serie acquisisce progressivamente.

L’arrivo de Le Petit Empereur
La Ferrari a metà degli anni novanta è una squadra allo sbando sia tecnico che gestionale.
Quello che le serve disperatamente è qualcuno con la stessa feroce autorità del cavaliera da poco scomparso, e l’uomo della provvidenza arriva sotto forma di un team principal dal DNA vincente.
Con Jean Todt arriva anche una concezione della squadra ben differente da quanto mostrato negli anni precedenti.
Con Todt arriva la razionalizzazione totale delle risorse e con essa ruoli ben definiti fra chi è deputato a vincere e chi lo deve supportare.
Fra chi ha i materiali migliori e chi no.
E quando, per coincidenze che solo il fato beffardo riesce a mettere in fila, la prima guida si ritrova fuori dai giochi, l’impressione che Maranello mostra al mondo è quella di una squadra che piuttosto che vincere con il brutto anatroccolo, preferisce perdere.
Questo accade nel 1999 quando l’anatroccolo è fortunato, fortunatissimo; ma talmente brutto che ci deve pensare Benuzzi nei test privati a dirgli, alla vigilia del Gran Premio di Monza, che il telaio con cui ha corso le ultime tre gare è incrinato e ha perso rigidità.
Ovviamente a moltissimi questo particolare, come la gomma mancante al Ring e il mancato montaggio del nuovo estrattore a Suzuka, sono la prova provata che Ferrari ordisce una trama contro il suo stesso pilota.
A poco serve la gara malese in cui il brutto anatroccolo viene trascinato per la zampa fino alla insperata vittoria.
Questa impressione non abbandonerà mai del tutto moltissimi suoi tifosi, sempre più spesso inclini a scambiare la mancanza di competitività di un pilota in rosso con scenari di boicottaggio masochistico.
Le scelte di privilegiare Schumacher in Austria sia nel 2001 che nel 2002 ben prima che i giochi del campionato lo rendano necessario sarà la conferma che l’impostazione di feroce competizione tanto cara al Drake è ormai un pezzo del passato.
Remoto.
Il muletto preparato e costantemente a disposizione della prima guida stride con l’assegnamento alternato che ne fanno in altri lidi.
E le gare spettacolari che i brutti anatroccoli di turno finiscono per mettere in pista le pochissime volte che il muletto designato per l’eletto finisce tra le loro zampe palmate, aumentano a dismisura il sospetto che nemmeno il materiale messo a disposizione dei piloti sia identico ma di serie A o di serie B, alla bisogna.
Con l’unica eccezione del biennio 2007/2008 in cui il team dà la netta impressione di una sfida aperta fra Massa e Raikkonen (perlomeno fino alla scadenza di Monza) Maranello, anche dopo la dipartita di Todt, ne rimarrà fedele all’impostazione di base, che vede un titolare designato ed uno scudiero a cui delegare esperimenti spesso grotteschi ma senza velleità di vittoria finale.
Lo stesso scenario sarà la colonna sonora portante degli anni in rosso di Alonso nel passato prossimo e di Vettel nel presente.
Ad oggi, senza però l’autorità (e i fondi illimitati) di Todt, nessuno dei designati a tavolino è riuscito a riportare l’iride a Maranello.

Non sequitur
Il ruolo dei piloti odierni è una pallida eco di ciò che poteva essere negli esordi della Scuderia nel mondo delle competizioni.
I piloti sono a tutti gli effetti dipendenti delle scuderie.
Da esse stipendiati; dalle stesse garantiti.
Nessuno di loro paga in prima persona i meccanici come poteva fare un Musso con le sue ambiziose prebende girate ai meccanici per garantirsene i migliori servigi.
Nessuno baratta in prima persona i propri benefit aziendali seduto al tavolo col Vecchio; o deve scontare con il purgatorio della Formula 2 una frizione fatta saltare alla 24 Ore di Le Mans come Collins.
Nessuno di loro si vede appiedato a metà stagione senza apparente motivo.
O, obtorto collo, obbligato a correre in Formule minori, e spesso molto più pericolose, per guadagnare sul campo i galloni per poter avere a disposizione una monoposto per il Gran Premio successivo.
Se da un lato il contratto rigido garantisce ai piloti la costante partecipazione ai Gran Premi (in passato non era così scontato) dall’altro ha loro tolto il diritto di esercitare quel legittimo egoismo che potevano avere i loro colleghi nel passato. Oggi i piloti non devono più sostenere a loro spese onerose trasferte o vedere la “loro” vettura assegnata d’ufficio ad un pilota che in un determinato gran Premio abbia migliori chances.
Oggi i piloti sono operai specializzati che si recano in linea di montaggio.
Ma al contrario degli operai, il loro lavoro è decisamente meno pericoloso e meno irto di insidie.
L’altro lato della medaglia è la minore autonomia che essi possono esercitare nei confronti di chi ne garantisce la ovattata partecipazione alla competizione stessa.
Chi rinfaccia alla Ferrari di non aver avuto il coraggio di far competere i suoi piloti all’ultimo sangue semplicemente dimentica une enorme fetta della storia della Scuderia.
Storia in cui, sull’altare della competizione feroce e senza esclusione di colpi, si sono consumate tragedie initerrotte.
Chi ne critica l’atteggiamento odierno dimentica come i piloti abbiano smesso il loro ruolo.
E lo abbiano fatto da tempo.
Avendone indubbi privilegi.
Privilegi che, come spesso accade nel giudizio storico, andrebbero soppesati con il fiele di vedere il proprio idolo trattato alla stregua di un impiegato qualsiasi.
Perché oggi, che piaccia o meno, di questo, fatte le dovute tare, si tratta.