23 Ore e 57 Minuti

C’è qualcosa di maligno nello sport.
Il serpeggiare della cattiveria tipica della vita.
Quella vita che ti pare regalare tutto e poi togliertelo come per una mano feroce a Baccarat.
C’è tutto questo nella Toyota TS050 del Gazoo Team che arranca sul rettilineo di inizio dell’ultimo dei 384 giri sul Circuit De La Sarthe.
Quanto può durare un motore?
Quanto una trasmissione, o un cambio?
23 ore e 57 minuti.
Sembra un dispetto del destino.


Ma 23 ore e 57 minuti non sono 24 ore e se una gara, forse la gara più famosa del mondo, certamente la più evocativa, prende il nome dalla sua durata; bhè non si può prescindere da quanto un mezzo riesce a resistere in pista.
Non oso pensare cosa possa essere passato per la testa di Kazuki Nakajima quando la sua TS050 numero 5 ha progressivamente perso potenza.
Perché giustamente racconta Tom Kristensen (che di Le Mans ne ha vinte 9) non esiste il singolo alla 24 Ore; si vince e si perde sempre tutti insieme.
Bene, bravo, bis.
Ma nell’abitacolo sei l’uomo più solo del mondo.
Solo con i tuoi fantasmi e con la più grande paura che un pilota possa provare in vita sua: la paura che quel brontolio che senti in rilascio non sia il frutto della tua mente stanca dopo le interminabili sessioni in pista. Che quel brontolio sia il presagio di un cedimento.
Che quella rondella da 50 centesimi decida proprio ora di rendere l’anima al Dio Teflon.
C’è di tutto a Le Mans.
Ci sono i barbecue che grigliano ininterrottamente salamelle dal mercoledì.
Una cosa tremenda e mortalmente volgare se vista con i delicati occhi dei vip o dei rampolli figli dei mega miliardari con cui la Formula 1 cerca disperatamente di assiepare le costosissime piste che sparge nel mondo.
Quanti Rolex si possono vendere a gente che si presenta al circuito alle cinque del mattino con un improbabile frogobar di birre e un intero allevamento ridotto in salamelle pronte da cuocere?
Chi ha veramente voglia di seguire una competizione motoristica se ha speso la lauta paghetta che il papà gli ha dato, dopo averla faticosamente guadagnata sfruttando il lavoro dei suoi operai, in cappellini alla moda, che si sa, patiscono esageratamente la reazione di Maillard e il fumo che ne deriva?
La 24 Ore di Le Mans non è mica da tutti.
Ci sono i regolamenti e diciamolo subito: sono complicati.
Il BOP che pare una scritta onomatopeica da fumetto è l’acronimo di Balance Of Performance ed agisce su tre punti per le vetture: la capacità del serbatoio, la zavorra e i costrittori sulle luci di aspirazione.
Ci sono i team come l’ufficiale Corvette che scientemente decide di stare rintanata nelle retrovie per le prime gare della stagione WEC pur di avere qualche vantaggio nella gara che conta di più.
Ci sono quelli come Ford a cui viene concesso un discreto vantaggio ma poi l’organizzazione al venerdì si rende conto che ha concesso troppo e all’ultima ora gli rifila un po’ di zavorra.
Non è bello; come tutte le regole che tarpano le ali ai più bravi.
Ma una competizione col regolamento “giusto”; un regolamento che permette a chi ha lavorato meglio di vincere all’infinito; un regolamento che per evitare sprechi impedisce a chi insegue di rovinare il ROI di tanti soldi investiti da chi è meritatamente in testa ed è giusto ci resti fino a nuovo ordine, c’è già.
Perché replicare?
C’è di tutto a Le Mans.
C’è un box, un box in particolare che da tempo immemore è destinato alle vetture fuori norma.
A quelle con i carburanti speciali; a quelle con le soluzioni tecnologiche all’avanguardia.
A quelle che per loro stessa natura non hanno speranza perché non sono al limite; ne sono ampiamente oltre.
Ma stavolta c’è un signore a cui la vita, quella bellissima femmina capace di sedurti, di farti perdere la testa e poi di tradirti come l’ultimo dei cani; la vita, dicevamo, ha giocato uno scherzo beffardo.
Un semplice taglio su un dito.
Quanto basta per far entrare nell’organismo un batterio capace in pochissime ore di mandare in cancrena i tessuti.
La scelta è fra morire o restare quadriamputato.
Ma il signore non è uno qualunque; si chiama Frédéric Sausset, oltre a un imprenditore di successo è anche un discreto pilota e decide di realizzare il suo sogno di sempre: correre a Le Mans.
L’ACO, l’Automobile Club de l’Ouest, non si lascia sfuggire l’occasione e con il supporto di Wolfgang Ullrich dell’Audi Sport mette in pista una vettura con un sistema di trasmissione automatica (disattivabile quando alla guida non c’è Sausset, ma uno qualsiasi degli altri piloti del team) e un volante che viene collegato direttamente ad un perno sul moncone di braccio che è rimasto al Francese.
Quello che succede in gara è semplicemente meraviglioso.
Non solo dal “Box 56” non arriva la solita vettura sognante che circa a metà competizione rende l’anima al feroce Dio Delle Corse ma la monoposto è degnamente competitiva.
E le quasi trecentomila persone che applaudono quando dai maxischermi viene mostrato Frédéric mentre viene calato nell’abitacolo per fare il suo ultimo stint sono qualcosa che rimette in pace con il mondo delle competizioni.
C’è di tutto a Le Mans.
Compreso un manipolo di piloti fortissimi che temo non vedranno mai aprirsi loro le porte della Formula 1.
Parlo di Joey Hand del Chip Ganassi Team, o del fenomenale e precisissimo Mike Conway dell’Ufficiale Toyota.
E visto come versa l’attuale panorama pilotistico della massima serie, dove basta poco per costruire carriere dal nulla e ancora meno per mandarle al macero, forse è anche un bene.
C’è di tutto a Le Mans, dicevamo.
L’uomo più solo a mondo, Kazuki Nakajima, sta ancora finendo il suo infinito ultimo giro; ci sta mettendo il triplo di quanto gli ci vorrebbe se solo il cuore di metallo della sua monoposto, esattamente come quello di decine, migliaia, milioni di appassionati ai bordi della pista o davanti agli schermi a casa loro che ne seguono l’agonia, non avesse ceduto di schianto.
Grazie Frédéric, e grazie TS050.